Scritto da Giacomo Bottos
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Daniele Ravaglia è Vicepresidente Confcooperative Terre d’Emilia e referente per l’Area Metropolitana di Bologna.
Come si delinea oggi il perimetro dell’economia sociale e quale ruolo dovrebbero assumere le imprese, anche quelle tradizionali, per amplificarne l’impatto?
Daniele Ravaglia: Il perimetro dell’economia sociale, oggi, è sostanzialmente definito a livello europeo, e noi ci riconosciamo pienamente in questa visione. Riteniamo che le cooperative – tutte, non solo quelle sociali – siano il primo soggetto naturale dell’economia sociale. A esse si affiancano gli enti del terzo settore (gli ETS) e anche alcune imprese profit. Vorrei però aggiungere un punto personale: l’economia sociale acquista un impatto concreto e duraturo solo se tutte le imprese, a prescindere dalla forma giuridica, adottano comportamenti coerenti con i suoi principi. Non possiamo pensare di essere isole virtuose in un mare indifferente. Possiamo essere il “sale” che dà sapore, ma perché il cambiamento sia reale, è necessario che tutto diventi “salato”, che la cultura dell’economia sociale contamini positivamente l’intero sistema produttivo. Se ci limitiamo a definire l’economia sociale esclusivamente in base ai soggetti che la compongono tradizionalmente, rischiamo di essere autoreferenziali. Facciamo il bilancio sociale, certo, ma senza preoccuparci se il contesto in cui operiamo condivide realmente i nostri valori e i nostri obiettivi. Questo è un limite. Le grandi multinazionali ovviamente resteranno fuori da questo perimetro ma in territori come l’Emilia-Romagna, in cui esiste un tessuto imprenditoriale ricco e radicato, vedo un grande potenziale per molti soggetti: molte imprese potrebbero essere coinvolte e contribuire attivamente a un’economia più inclusiva e sostenibile.
Come valuta il processo relativo al Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna?
Daniele Ravaglia: Il professor Zamagni ci ha insegnato la differenza tra “partecipazione formale” e “coinvolgimento sostanziale” nel dialogo tra istituzioni e parti sociali, sottolineando la differenza tra forme partecipative, meramente formali, spesso limitate alla condivisione informativa, e forme partecipative invece realmente aperte al coinvolgimento dei corpi intermedi. La vera concertazione, com’è ovvio, è quest’ultima formula. Ritengo che il processo che ha portato al Piano sia stato positivo per tutti gli stakeholder che sono stati coinvolti. Nelle fasi conclusive del Piano, abbiamo notato il contrarsi dei tempi relativi alla condivisione, il che genera qualche difficoltà per organizzazioni complesse come quelle della rappresentanza d’impresa, che hanno bisogno di promuovere un confronto interno ampio e inclusivo per generare valore. Il comprimersi dei tempi, di certo dettato da esigenze del calendario amministrativo, ha determinato qualche difficoltà. Quando si parla di coinvolgimento nella stesura di piani di questo genere, è importante che le tempistiche siano sempre adeguate. Al netto di questa nota, rimane che quella promossa dall’amministrazione è stata un’occasione importante di relazione con la città, a cui ora occorre far seguire azioni concrete che possano aiutarci a mettere mano ai problemi concreti della città, a partire da quelli più urgenti.
Il tema della casa è centrale rispetto ai bisogni attuali e può essere un punto da mettere al centro della riflessione sull’economia sociale. Quali sono, secondo lei, le priorità e le criticità da affrontare in questo ambito?
Daniele Ravaglia: A Bologna, il tema della casa è il problema principale se vogliamo davvero sviluppare l’economia sociale, perché garantire l’accesso alla casa a chi ne ha bisogno – che si tratti di studenti, famiglie, lavoratori o anche turisti – è fondamentale. E tali bisogni non vanno messi gli uni contro gli altri, in un gioco a somma zero in cui ospitare il turista vuol dire togliere la casa alla famiglia. In una città al passo con i tempi occorre ci sia spazio per tutti. Ritengo però che ci siano target a cui, per vulnerabilità e quantità della domanda, occorra guardare con più attenzione. Sono le famiglie e i lavoratori le categorie più urgenti da tutelare. Perché la casa è così centrale? Perché senza casa non c’è lavoro. O meglio: anche quando c’è domanda di lavoro, non si trovano persone disposte a trasferirsi se gli stipendi non permettono di pagare affitti o acquistare un’abitazione dignitosa. I dati di Nomisma sono chiari a tal riguardo: gli affitti hanno superato il 30% di incidenza sul reddito nelle principali città italiane e Bologna è tra queste, attestandosi oltre il 33%: un terzo del reddito di chi lavora in città viene speso per abitare. E questo riguarda non solo i lavori meno qualificati, ma anche quelli ad alto valore aggiunto. Penso, per esempio, agli ingegneri che hanno difficoltà a trovare soluzioni abitative sostenibili. Questa emergenza coinvolge anche il ceto medio, gli impiegati, le giovani coppie, oltre alle fasce sociali più fragili. È un problema che si allarga e che va affrontato in maniera organica e cooperativa. A mio avviso, ci sono due priorità: costruire nuove abitazioni, in particolare di edilizia residenziale destinata alla vendita o all’affitto a prezzi calmierati; e rimettere sul mercato gli immobili sfitti, che sono migliaia: a Bologna si parla di oltre 16.000 appartamenti vuoti. Stiamo assistendo ad un forte dibattito sugli affitti, quasi che siano la causa di tanti problemi. A mio parere una loro regolamentazione non porterà significativi impatti sia sulla disponibilità di case per abitazione che nella riduzione di quello che, impropriamente, viene considerato overturism. Se da nuove norme si riuscirà a mettere sul mercato 1.000 appartamenti in più sarà già un risultato, ma, visti i numeri, influenzerà in modo marginale la domanda di case. Occorre riconoscere che il vero potenziale sta nel patrimonio esistente e, per diverse ragioni, oggi sottratto al mercato. Qui però entra in gioco la fiducia dei proprietari, perché spesso chi ha una casa vuota non la affitta perché la considera una riserva familiare per il futuro: per i figli, per la vecchiaia. È comprensibile, quindi, che molti vogliano poter liberare l’immobile quando ne hanno bisogno. Occorre dare alle famiglie incentivi – economici e di responsabilità comune – per fare scelte differenti. Il vero tema è poi quello di costruire nuove case a proprietà divisa. Il ruolo della cooperazione in questo scenario è decisivo. Le cooperative possono costruire case a costi accessibili, proprio perché non devono incorporare l’utile d’impresa e, se il pubblico concede i terreni, il prezzo finale può ridursi sino al 30% rispetto all’edilizia libera, generando un effetto-calmiere su tutto il mercato.
Come si potrebbe realizzare questa proposta a Bologna? E qual è il ruolo della cooperazione?
Daniele Ravaglia: Abbiamo fondato una cooperativa – Habitat Bologna – che ad oggi esprime un potenziale di oltre 500 soci, persone che hanno alcune caratteristiche comuni: fascia di reddito (si tratta di famiglie che non vivono in condizioni di disagio) e il fatto di voler acquistare una casa a un prezzo sostenibile. Tuttavia, oggi a Bologna il pubblico riconosce per la cooperazione d’abitare solo la formula dell’affitto e della proprietà indivisa. Ma per costruire in affitto occorrono risorse che la cooperativa non ha e per la proprietà indivisa non basta il terreno gratis, occorre un significativo intervento del pubblico. Aggiungo che, per i nostri Soci la proprietà indivisa (significa che l’immobile resta alla cooperativa per 20 anni e solo allora può essere passare di mano) non è interessante. I modelli abitativi sono cambiati: i giovani non si sposano più come un tempo, le relazioni sono meno stabili, e i progetti di vita più flessibili. Non possiamo pensare di risolvere il problema della casa con modelli immobiliari che funzionarono nel Dopoguerra. Inoltre, non basta affidarsi solo all’edilizia pubblica o alle convenzioni con grandi imprese che acquistano case per i propri operai. Il bisogno abitativo è molto più esteso e riguarda artigiani, commercianti, piccole e medie imprese, categorie spesso escluse dalle politiche abitative. Noi proponiamo una formula semplice: la cooperativa a proprietà divisa. I soci di cooperativa sono le famiglie che diverranno proprietarie delle case che andremo a costruire. La cooperativa si incarica di portare a termine la costruzione e appena l’immobile è disponibile i singoli soci ne diventano proprietari diretti. Qual è il vantaggio? Non c’è il profitto privato, quel 20-25% che risparmiamo sul prezzo finale dell’abitazione, perché la cooperativa non agisce a scopo di lucro, ma per generare un vantaggio diretto ai soci. Qual è il problema? Fino ad oggi l’amministrazione non ha riconosciuto le medesime agevolazioni che sono previste per le cooperative a proprietà indivisa e questo ci rende impossibile operare, perché saremmo sottoposti al medesimo regime a cui sono sottoposte le imprese profit, che quando costruiscono hanno l’obbligo di destinare una quota del 20% all’ERS, una quota che annullerebbe ogni vantaggio per nostri soci. Un’ultima considerazione: si sta tentando di sostituire l’obbligo di edilizia sociale per chi costruisce (la quota di edilizia sociale destinata all’ERS) con una “monetizzazione” – cioè con il versamento di una certa somma al Comune. Ho dei dubbi su questa soluzione perché non garantisce alcun tempo di realizzazione delle abitazioni né la specifica destinazione. In sintesi, la casa è un diritto primario e la base per una vera economia sociale. Se non lo affrontiamo con strumenti nuovi e coraggiosi, rischiamo di ampliare ancora di più il divario sociale tra chi può e chi non può permettersi una vita dignitosa. Questo problema non si affronta con un’unica proposta, ma mettendo in campo molteplici soluzioni anche diverse tra di loro, coinvolgendo anche le energie del privato sociale, non solo del pubblico e non solo delle grandi aziende.
Considerando un altro degli obiettivi del Piano metropolitano, quello del lavoro appunto, quali sono, secondo lei, le principali criticità? E quali cambiamenti sarebbero necessari per garantire condizioni più eque e sostenibili?
Daniele Ravaglia: Sul tema del lavoro, e in particolare della sua qualità e del suo senso, vorrei portare l’attenzione su un paradosso che riguarda da vicino la cooperazione sociale. Nonostante ci sia stato un parziale riconoscimento del problema da parte delle istituzioni, con qualche adeguamento al rialzo dei prezzi degli appalti, la verità è che questi importi non coprono ancora i reali costi sostenuti dalle cooperative per retribuire i dipendenti. È stato rinnovato il contratto nazionale degli operatori sociali, che prevede un giusto e significativo aumento delle retribuzioni. Tuttavia, gli appalti in essere non sono stati adeguati ai nuovi costi del lavoro, spesso le tariffe sono rimaste le stesse o hanno visto aumenti irrisori, e quindi le cooperative si sono trovate a dover affrontare un incremento dei costi senza un corrispondente aumento delle entrate. Cosa succede in questi casi? Le cooperative più solide hanno cercato di mantenere l’occupazione, pur lavorando spesso in perdita. Quelle che non possono permetterselo, sono costrette a ridurre le ore di lavoro ai dipendenti. Così, un operatore che prima lavorava 8 ore al giorno, oggi magari ne lavora 6 e il contratto migliorato non ha alcun impatto reale sulla sua vita. La Regione ha stanziato qualche milione di euro per sostenere la revisione dei contratti, ma si tratta di cifre del tutto insufficienti rispetto all’aumento complessivo dei costi. E siccome stiamo parlando di appalti pubblici, sottolineo come queste dinamiche contribuiscano alla creazione di nuovi poveri. Quando si continua a bandire appalti che danno troppo peso all’elemento economico, in un settore dove la componente di manodopera pesa per il 70-80% del costo complessivo, si sta scegliendo consapevolmente di far pagare il prezzo ai lavoratori. Non potendo comprimere i costi delle materie prime, l’unica variabile su cui si agisce è la retribuzione. Può essere un modo per tutelare le casse pubbliche, ma certo non è il modo per tutelare il lavoro.
Quale potrebbe essere una soluzione a questo problema?
Daniele Ravaglia: Comune di Bologna, sindacati e cooperazione hanno messo mano alla questione con il Protocollo appalti, che è stato un importante passo avanti, ma di cui oggi però serve una revisione profonda E va detto con chiarezza: far dipendere l’assegnazione dell’appalto esclusivamente dalla componete del prezzo non è compatibile con un’economia che voglia dirsi sociale. Inoltre, il protocollo andrebbe esteso a tutte le centrali di committenza, incluse quelle che oggi non lo applicano affatto. È vero che Comune e Regione, in alcuni casi, hanno adeguato i prezzi. Ma grandi società controllate dalle amministrazioni pubbliche, che traggono i maggiori profitti, non applicano alcuna revisione alle proprie politiche, lasciando inalterati i loro margini a scapito dei lavoratori che operano in cooperativa. La questione riguarda in particolare le aziende partecipate dal pubblico. Anche in questi contesti spesso si applicano contratti che penalizzano fortemente chi lavora, specie quando si tratta di attività ad alta intensità di manodopera come pulizie e servizi di assistenza, creando un doppio registro: da una parte i lavoratori assunti direttamente, dall’altra quelli che lavorano in cooperativa, su appalto. Se vogliamo che questi soggetti siano realmente parte dell’economia sociale, non possiamo esonerarli dalle responsabilità che essa comporta. Il rispetto del lavoro, la giusta retribuzione, la sostenibilità economica degli appalti non possono essere trattati come un dettaglio, ma devono essere la base su cui costruire un modello equo e duraturo. Perché non si può da un lato chiedere il salario minimo e, dall’altro, continuare a bandire gare che lo rendono insostenibile. È questa la contraddizione che dobbiamo risolvere.
Come si può distinguere una cooperativa autentica da una realtà fittizia e quale ruolo dovrebbe avere il pubblico nel garantire questa distinzione?
Daniele Ravaglia: Un criterio utile per distinguere le cooperative autentiche da quelle spurie è l’adesione a una centrale cooperativa riconosciuta, che sia Legacoop, Confcooperative, AGCI. Questo elemento rappresenta una forma di garanzia, soprattutto per il settore pubblico quando affida appalti. Le cosiddette “false cooperative”, infatti, nella maggior parte dei casi non aderiscono a nessuna centrale, perché tra i nostri compiti riconosciuti a livello istituzionale c’è proprio l’individuazione e la segnalazione di finte cooperative: sono spesso entità “apri e chiudi”, create con logiche opportunistiche, che offrono manodopera a basso costo e servizi al limite della legalità poi spariscono nel giro di pochi mesi. Si tratta di un vulnus alla credibilità dell’intero sistema cooperativo, che avversa queste realtà con tutte le proprie forze, tengo a sottolinearlo. È un fenomeno che non riguarda solo il mondo cooperativo – nei settori più fragili del mercato succede anche con le società a responsabilità limitata. Ma nel caso delle cooperative, verificare l’appartenenza a una centrale può essere uno strumento concreto per evitare che queste realtà accedano alle gare pubbliche senza offrire alcuna garanzia di qualità, legalità o stabilità.
Qual è il ruolo della co-progettazione e della co-programmazione nell’amministrazione condivisa, di cui parla anche il Piano metropolitano, e quali criticità ne limitano oggi l’attuazione concreta, in particolare riguardo al tema del welfare?
Daniele Ravaglia: Per il mondo cooperativo, il nodo centrale nell’amministrazione condivisa è la distinzione tra co-progettazione – che in parte esiste già – e co-programmazione, uno stadio più avanzato, come definito dal Codice del Terzo Settore. La co-progettazione, infatti, riguarda il modo di mettere in atto gli interventi deliberati, mentre la co-programmazione implica infatti, oltre la definizione delle modalità operative, anche la condivisione degli obiettivi e delle finalità delle politiche pubbliche. Il Comune di Bologna aveva compiuto un passo significativo in questa direzione, istituendo – primo in Italia – una delega dedicata alla sussidiarietà circolare, paradigma che si basa sull’implementazione di tali tecniche amministrative. Tuttavia, quell’esperienza è rimasta incompiuta: si tratta di una delega mai entrata pienamente in funzione e, dopo circa due anni di stallo, si è conclusa con le dimissioni della titolare, Cristina Ceretti, lasciando un vuoto su questo fronte. È un’occasione mancata, perché l’amministrazione condivisa richiede anche che le cooperative e gli altri enti siano pronti a co-programmare, non solo a rispondere con capacità progettuale. Il tema è ancora più urgente se pensiamo al welfare, che deve necessariamente evolvere in risposta ai cambiamenti demografici. Servirebbe davvero aprire un tavolo di co-programmazione strategica e lungimirante, capace di integrare il contributo delle realtà sociali in modo strutturale e non accessorio.
Il Piano metropolitano tratta molto anche il tema dell’innovazione e dell’utilizzo delle nuove tecnologie. Qual è oggi il rapporto tra realtà come il Tecnopolo, le piccole e medie imprese e il Terzo settore, e quali condizioni servono per valorizzare pienamente l’intelligenza artificiale come leva di innovazione diffusa?
Daniele Ravaglia: Inizialmente, una realtà come il Tecnopolo era piuttosto chiusa verso le PMI, ma oggi si è compreso che senza coinvolgere tutta la filiera produttiva non si ottengono risultati concreti. Non si può pensare che solo le grandi imprese – spesso capofiliera locali, ma a volte nemmeno correlate al territorio – corrano avanti, lasciando indietro le piccole e medie imprese che non riescono a stare al passo. Ora si è più consapevoli che è necessario accompagnare tutto il sistema, e in questo le associazioni di categoria hanno un ruolo fondamentale. La Fondazione IFAB (International Foundation Big Data and Artificial Intelligence for Human Development), che fa da ponte tra ricerca e PMI, sta lavorando bene. Con IFAB, è stato implementato un primo progetto, denominato “Tornatura”, che vede insieme le tre centrali cooperative per l’applicazione dell’intelligenza artificiale all’agricoltura. Ma siamo ancora lontani da una vera partecipazione diffusa e di qualità. Molte PMI non sanno nemmeno cosa può fare il Tecnopolo per loro, né come immaginare di poter utilizzare i dati e il potenziale del supercalcolo; occorrono strumenti di comunicazione efficaci e serve un’azione pubblica più incisiva, anche con figure dedicate alla promozione e al raccordo. Pur impegnandosi molto, non può fare tutto la Fondazione IFAB. I progetti stanno crescendo, ma da una base minima, e quanto al coinvolgimento di soggetti non pubblici vedo una prevalenza del profit. Ci sono esperienze positive anche nel Terzo settore, come quella dell’ANT che, pur essendo un ETS, ha strutture e competenze interne che le permettono di innovare. L’interesse c’è anche da parte di Bologna Welcome, con l’idea di avviare un progetto per tracciare i flussi turistici grazie ai dati di TIM e Mastercard – neosoci di IFAB – che permettono di capire dove si muovono i turisti, quanto spendono e da dove vengono. Questo dimostra quante informazioni possono essere generate e messe a sistema, anche attraverso i dati del Terzo settore. Per avviare veri percorsi servono risorse pubbliche, perché da solo il Terzo settore non ce la fa. Puoi vincere un bando, certo, ma servono progetti pronti e supporto tecnico, perché l’innovazione richiede visione, tempo e persone qualificate, che però non si improvvisano. Certo le potenzialità delle tecnologie che oggi Bologna ospita nell’ambito del supercalcolo possono avere importanti impatti nell’ambito del Piano Metropolitano per l’Economia Sociale, occorre trovare strumenti di applicazione della tecnologia alle sfide della città. Penso ad esempio al progetto del gemello digitale di Bologna, oggi in via di progettazione, che permetterà la valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche prima della loro implementazione, costituendo un importante strumento di policy making, le cui potenzialità andranno discusse anche nel dialogo sociale.