Scritto da Federica Greco
6 minuti di lettura
L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) definisce la medicina di genere come «una pietra miliare di grande importanza nel progresso delle scienze della vita»[1]. Con il termine medicina di genere, o genere-specifica, si intende lo studio dell’influenza del sesso e del genere – comprendendo anche aspetti socioculturali e psicologici – sulla fisiologia e sul decorso patologico. Ogni giorno sembra aumentata l’evidenza sulla diversità di uomini e donne dal punto di vista biologico e fisiologico, ma anche per quanto riguarda la farmacocinetica e la farmacodinamica[2], vale a dire l’assorbimento ed espulsione del farmaco, nonché la sua efficacia sull’organismo. Definita anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come lo studio delle differenze biologiche (sesso) e socioeconomiche e culturali (genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona[3], la medicina di genere sembra però non aver attirato sufficienti attenzioni. Mentre nelle aule universitarie si sogna una medicina personalizzata, specifica per ogni singolo individuo su otto miliardi di esseri umani, nella normale pratica di validazione farmaceutica ed erogazione dell’assistenza sanitaria non ci si adegua alla più banale delle divisioni: quella tra uomo e donna (per non parlare di chi non si sente né l’uno né l’altra). Le sperimentazioni cliniche vedono un numero di maschi arruolati nettamente superiore a quello delle femmine, aprendo un vaso di pandora di questioni etiche non trascurabile. Un contesto biologico e ormonale, quello femminile, che richiederebbe anni di studi appositi, ridotto a una mera “variante” di quello maschile.
Nel nostro eterno auto-disfattismo, va fatta una nota di merito all’Italia. Siamo stati, in effetti, il primo Paese europeo a dare una disciplina alla materia, con la legge 3/2018[4], che aspira a una ricerca attenta alle differenze di genere e punta a inserire tale aggiornamento per tutti gli operatori sanitari e nella quotidiana informazione pubblica. Dunque, a fronte di tale sforzo, non rimane altro che chiedersi perché nelle sperimentazioni cliniche il sesso femminile sia ancora sottorappresentato. C’è chi parla di una manovra protettiva, per salvaguardare un’eventuale gravidanza di cui la donna non fosse a conoscenza[5]. Ciò nonostante, questa precauzione basata sull’ipotetico porta a un’esclusione che espone a dei rischi estremamente reali. Senza contare, poi, che anche alle donne in gravidanza capita di dover assumere farmaci, spesso non testati per questa particolare condizione, definendo di nuovo un quadro di esclusione. Flavia Franconi dell’Università di Sassari sintetizza il cosiddetto bias di genere in quest’ambito, scomponendolo in: fattori etici (tornando al discorso relativo alla potenziale gravidanza), fattori di tipo economico (i continui cambiamenti dei parametri fisiologici nelle donne costituiscono una condizione più complessa, nonché più costosa, da valutare) e fattori socio-culturali (definibili come la resistenza delle donne a partecipare agli studi clinici, connessa alla scarsa considerazione da parte dei reclutatori del tempo richiesto per lo svolgimento dello studio e delle necessità pratiche delle donne)[6].
Da non trascurare, inoltre, è la variazione nella frequenza di assunzione di medicinali. Dal rapporto OsMed[7], contenente i dati sul consumo e sulla spesa pubblica di farmaci di classe A a carico del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), si registra nelle donne un consumo di farmaci superiore del 20-30% rispetto agli uomini[8], dato che giustificherebbe di per sé la presenza di maggiori controlli per il sesso femminile. Le ragioni relative al consumo più elevato spaziano dalle motivazioni fisiologiche a quelle sociali. Innanzitutto, le donne si ammalano di più nonostante abbiano un’aspettativa di vita più lunga (il cosiddetto “paradosso donna”). Diretta conseguenza di ciò è che le donne risultano numericamente più presenti nella popolazione anziana. Inoltre, le donne sono più povere (anche questo, un dato da inserire nel ben noto panorama di disuguaglianza economico-sociale) e conosciamo bene l’inversa correlazione tra povertà e salute[9].
Dunque, nonostante le precedenti considerazioni rappresentino un chiaro invito alla valutazione farmaceutica del genere e del sesso, la forte eterogeneità e complessità presente nelle donne sembra rendere questo obbiettivo troppo ambizioso. È evidente la difficoltà nel circoscrivere la biologia femminile, per cui concorrono fattori come l’età, gli ormoni, la menopausa, tutti sottogruppi che richiederebbero uno studio mirato. Andrebbe tenuto conto che oggi gran parte delle donne in età fertile assume contraccettivi e che spesso quelle in menopausa fanno uso della terapia ormonale sostitutiva; in entrambi i casi si parla di associazioni estro-progestiniche che possono determinare differenze significative nella risposta ai farmaci[10]. Inserendoci nell’ottica di business, questi ostacoli difficilmente rispondono alle tempistiche delle case farmaceutiche. Tale pratica di esclusione trova radici ancora più profonde nella ricerca preclinica, quando il farmaco viene testato in vitro su cellule e in vivo su modelli animali. Raramente animali femmina vengono inclusi in questa fase, in quanto portatori di variabilità nei dati statistici: circa l’80% degli studi non-clinici usa solo animali maschi[11]. Persino negli studi in vitro è raro che vengano utilizzate cellule isolate femminili. Nell’80% degli studi in vitro non viene specificato il sesso di origine del donatore[12]. Lo stesso criterio viene applicato alle pubblicazioni scientifiche, per le quali non è richiesta una differenziazione, in base al genere, dei risultati ottenuti. Dunque, il mancato o insufficiente arruolamento di donne riguarda tutte le fasi della sperimentazione, dal laboratorio all’articolo scientifico. In termini generali, si riporta che solo la metà degli studi clinici svolgano delle analisi basate sul genere e che solo il 35% conduca delle analisi di sottogruppo[13]. Ancora, la Fondazione Veronesi stima che complessivamente nei trial clinici, 8 su 10 individui arruolati siano uomini[14]. Nella Dichiarazione della commissione per l’etica nella ricerca e la bioetica del CNR sulle differenze di genere nella ricerca farmacologica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, si spiega come questo modus operandi crei un circolo vizioso, tale per cui non vi sono studi comparativi robusti, portando così ad un «errore metodologico che comporta una riduzione conoscitiva, dell’applicabilità concreta e dell’impatto individuale e sociale dei risultati scientifici conseguiti, con una grave lesione del diritto alla salute, indipendentemente dal genere, così come costituzionalmente garantito»[15].
Un riscontro concreto lo abbiamo avuto con la pandemia di Covid-19. Uno studio pubblicato su Nature nel 2021 ha evidenziato come di 4.420 studi sul SARS-CoV-2 solo il 4% considerasse il genere come variabile analitica[16]. Si aggiunge che su 45 pubblicazioni su trial clinici per interventi farmacologici, solo 8 (17,8%) avessero risultati differenziati per sesso. Di rimando, non considerare la questione di genere ostacola la capacità di intervento mirato ed efficace in termini di assistenza sanitaria.
Ad aggiungersi agli esempi lampanti è quello della stenosi aortica (un restringimento della valvola aortica che impedisce il corretto flusso sanguigno)[17]. Nonostante la malattia sia più frequente nelle donne rispetto agli uomini e provochi prognosi peggiori nel sesso femminile, quest’ultimo è sottorappresentato negli studi clinici, riducendo la possibilità di ricevere trattamenti basati sull’evidenza[18]. Fortunatamente, negli ultimi anni vi sono stati diversi tentativi di modifica della metodica applicata a questa particolare patologia, tendendo sempre più verso una cardiologia di genere.
Mentre si fanno spazio i laboratori di ricerca focalizzati sullo studio delle differenze di genere, il passo è rallentato nell’adeguamento dei sistemi regolatori alle nuove scoperte in materia. Ad oggi è noto, per esempio, che le differenze di genere non riguardano solo i farmaci ma addirittura numerosi xenobiotici, quindi metalli pesanti, inquinanti ambientali, fumo da tabacco e altre sostanze di abuso, ai quali le donne rispondono in maniera diversa[19]. Come tutti ci saremmo aspettati, la conseguenza più grave di questo approccio è l’incidenza di effetti avversi (ADE) alla somministrazione di farmaci. Nelle donne, il rischio di sviluppare un effetto avverso è di 1,5-1,7 volte superiore rispetto agli uomini. Per di più, il 59% dei ricoveri ospedalieri provocati da effetti avversi riguarda individui di sesso femminile[20]. Vi sono perfino degli effetti ad appannaggio esclusivo del sesso femminile, soprattutto per i farmaci ad uso cardiaco.
In conclusione, se da un lato la tendenza attuale sembra essere quella del cambiamento, dall’altro l’intervento delle istituzioni pare focalizzarsi sulla stesura di linee guida piuttosto che su vere e proprie regolamentazioni, che rendano sistematico l’arruolamento di donne nei trial e prima ancora di animali e cellule femminili nella sperimentazione preclinica. Da regolamentare sarebbero anche i meccanismi di selezione degli articoli nelle riviste scientifiche, affinché si richieda un rigore nella valutazione di ambo i sessi. Ad oggi, sembra chiaro si faccia leva su un approccio basato sull’eticità di chi progetta la sperimentazione. È evidente che tale criterio non sia affidabile, né possa essere più tollerato, alla luce di una disuguaglianza così netta e cruciale. Ed ecco che, fra gli innumerevoli ambiti che richiedono un intervento urgente per colmare il gender gap, si fa strada con forza quello della sicurezza farmaceutica.
[1] Istituto Superiore di Sanità (ISS).
[2] Flavia Franconi, Farmacologia di genere, «Ital J Med», doi:10.4081/itjm.2011.70.
[3] World Health Organization.
[4] Ministero della Salute. Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere, in attuazione dell’articolo 3, comma 1, della legge 11 gennaio 2018, n. 3. 2022.
[5] Update R. Tech-Driven Data Compliance, Ǫuality Managing Trial Risks with ICH E6 (R2).
[6] Flavia Franconi, Farmacologia di genere, op. cit.
[7] Rapporto OsMed 2015. L’ uso dei farmaci in Italia. Aifa. Published online 2015:14-15.
[8] Flavia Franconi, Farmacologia di genere, op. cit.
[9] Flavia Franconi, Farmacologia di genere, op. cit.
[10] Flavia Franconi, Farmacologia di genere, op. cit.
[11] Update R. Tech-Driven Data Compliance, Ǫuality Managing Trial Risks with ICH E6 (R2), op. cit.
[12] Ministero della Salute. Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere, op. cit.
[13] Update R. Tech-Driven Data Compliance, Ǫuality Managing Trial Risks with ICH E6, op. cit.
[14] Angelica Giambelluca, Sperimentazione e medicina di genere: nei trial 8 su 10 sono uomini, Fondazione Veronesi.
[15] Dichiarazione della commissione per l’etica nella ricerca e la bioetica del CNR sulle differenze di genere nella ricerca farmacologica.
[16] Brady E, Nielsen MW, Andersen JP, Oertelt-Prigione S. Lack of consideration of sex and gender in COVID-19 clinical studies. Nat Commun. 2021;12(1):8-13. doi:10.1038/s41467-021-24265-8
[17] Moura LM, Rocha-gonçalves F, Gavina C. Is it time for sex-specific recommendations in aortic stenosis ? :1565-1566. doi:10.1136/heartjnl-2017-311635
[18] Goliasch G, Lang IM. Impact of sex on the management and outcome of aortic stenosis patients : a female aortic valve stenosis paradox , and a call for personalized treatments ? Published online 2021:2692-2694. doi:10.1093/eurheartj/ehab331
[19] Flavia Franconi, Farmacologia di genere, op. cit.
[20] Varallo FR, Lima MFR, Galduróz JCF, Mastroianni PC. Adverse drug reaction as cause of hospital admission. Lat Am J Pharm. 2011;30(2):347.