Scritto da Lorenzo Pedretti
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Il caso italiano è differente. Il nostro Paese è infatti diventato per la prima volta terra d’immigrazione soltanto a metà degli anni Settanta. Per lungo tempo nella storia del nostro Paese si è fatto ricorso alle migrazioni interne (dal Sud al Nord e dalle campagne alle città) per rispondere alla domanda di lavoro di numerosi settori dell’economia.
Tuttavia, diversi fattori hanno incentivato l’impiego dei lavoratori immigrati. Fattori non contingenti, come il boom economico postbellico, ma strutturali, quali: la diminuzione della popolazione in età lavorativa; la presenza di una forte domanda di lavoro irregolare, soprattutto in settori quali l’agricoltura e l’edilizia; un sistema di welfare che vede nella famiglia un ammortizzatore sociale, per cui quando i suoi membri non riescono a proteggersi da soli dalle contingenze sociali attraverso il lavoro di cura e la redistribuzione dei redditi, sono spesso costretti a rivolgersi al mercato dei servizi domestici, uno dei settori dell’economia dove i lavoratori stranieri sono più numerosi e che Maurizio Ambrosini ha battezzato “welfare invisibile”[3].
Da noi, insomma, la struttura dell’economia e dello stato sociale hanno contribuito a generare una domanda di lavoro che si è ritenuto potesse essere soddisfatta facendo ricorso soprattutto alla manodopera straniera, impiegata prevalentemente in professioni non qualificate. Prova ne sono state le sanatorie: frequenti regolarizzazioni di lavoratori stranieri irregolari, susseguitesi dalla fine degli anni Settanta ad oggi e adottate anche in periodi in cui la politica nazionale sembrava intenzionata a voler contrastare l’immigrazione irregolare e a ridurre il numero di ingressi per motivi di lavoro stabilendo delle quote annue[4].
Per lungo tempo in Italia abbiamo accettato gli immigrati in quanto lavoratori flessibili e a basso costo, considerandoli perciò compatibili con la forza lavoro autoctona. “Svolgono lavori che gli italiani non vogliono più fare” è diventato un luogo comune, che presentava però un fondo di verità: esistono infatti settori dell’economia nazionale dove la presenza dei lavoratori italiani è andata diminuendo nel tempo, non solo perché non ne accettavano i bassi salari ma anche, come si è accennato in precedenza, per ragioni demografiche e socio-economiche.
Oggi questo modello può essere messo in discussione, in quanto non esiste più una separazione molto netta tra gli impieghi che gli italiani non accettano e quelli che sono disposti a svolgere. Ad esempio, tra le vittime del caporalato troviamo lavoratori non soltanto extracomunitari ma anche italiani e stranieri comunitari[5]. Inoltre, l’impatto della crisi economica è stato tanto significativo da riportare al lavoro di cura anche manodopera italiana femminile[6]. Nel frattempo prosegue però lo sfruttamento dei lavoratori stranieri, pur con un elevato tasso di rotazione dato che, anche a causa della crisi, è frequente il loro ritorno nei paesi d’origine[7].
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