Impresa sociale e cultura cooperativa: il contributo del Consorzio Nazionale CGM
- 23 Giugno 2024

Impresa sociale e cultura cooperativa: il contributo del Consorzio Nazionale CGM

Scritto da Flaviano Zandonai

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Dal 20 al 22 giugno 2024 si è tenuta a Bologna la XV Convention del Consorzio Nazionale della Cooperazione Sociale (CGM), una delle principali reti nazionali di consorzi territoriali, imprese e cooperative sociali. I tre giorni della Convention – intitolata “Direzioni. Intelligenze collettive per una nuova economia sociale” – sono stati dedicati alla riflessione sulle direzioni che è necessario intraprendere per fronteggiare le transizioni ambientale, digitale, demografica e culturale oggi in corso.

Questo articolo di Flaviano Zandonai – sociologo e open innovation manager di CGM – affronta i principali pilastri della cultura cooperativa in relazione all’impresa sociale, a partire dalla decennale esperienza del Consorzio CGM. A questo link è possibile consultare vari materiali di approfondimento sulla Convention e sulla realtà di CGM.


Introduzione

Nel dibattito sulle istituzioni “alternative” a quelle dominanti dello Stato e del mercato, la dimensione della cultura organizzativa appare in declino. Sia i riferimenti settoriali – come terzo settore, economia sociale, ecc. – che quelli più specifici – come cooperative, imprese sociali, ecc. – tendono a essere trattati prevalentemente in termini giuridico formali e di modelli gestionali lasciando sullo sfondo, o dando per scontato, i sostrati che sostanziano la loro cultura. Le cause di questo inaridimento sono contingenti, legate ad esempio a progetti di riforma legislativa come quella del terzo settore a livello nazionale o di policy making come il piano di azione europeo sull’economia sociale che assorbono molte energie in sede di modellizzazione formale ma forse anche per ragioni strutturali, legate cioè al ciclo di vita. In molti casi si tratta infatti di organizzazioni – e di loro reti di rappresentanza e di coordinamento – ormai adulte, le cui culture si sono stratificate e consolidate nel tempo, anche perché sono state “trattate” da pratiche e strumenti, come ad esempio gli standard certificatori e di rendicontazione, che hanno contribuito a ipostatizzarle. Ciò non significa naturalmente che le culture organizzative non esistano, anzi. Ma l’impressione è che vengano meno quei processi di riproduzione sociale che le alimentano e le rigenerano sollevando così criticità che si rivelano non solo nella capacità di perseguire gli obiettivi e neanche di aderire alla missione, ma piuttosto di identità e di significato rispetto alla propria esistenza e al proprio agire. Un aspetto, quest’ultimo, che si rivela guardando anche alla tendenza allo scollamento, se non al vero e proprio conflitto, tra forme istituzionalizzate e pratiche emergenti di socialità e cooperazione che si manifesta proprio in quei contesti a elevata intensità d’innovazione sociale che potrebbero invece consentire di rinvigorire le culture organizzative in una fase in cui tutto ciò che è “sociale” è ormai mainstream.

Per cercare di capire come sia possibile riallineare i processi che alimentano i sostrati culturali all’interno di contesti istituenti è necessario guardare a soggettività caratterizzate da almeno due qualità rilevanti. La prima riguarda una prospettiva temporale ampia, legata non solo a fasi di startup ma che abbia invece attraversato diverse fasi di sviluppo, all’interno di contesti socio-economici e politico-culturali diversi. La seconda qualità consiste nell’aver disseminato lungo il proprio percorso materiali documentali utili a rileggere, anche in corso d’opera, la propria evoluzione: piani strategici, rapporti di ricerca, materiali di progetto, verbali di incontri e riunioni, minute di workshop, ecc. Da questo punto di vista il Consorzio Nazionale CGM, ovvero quella che ancora oggi è la principale rete di imprese sociali a livello nazionale e una delle più rilevanti a livello europeo, presenta queste caratteristiche essendo nato ormai quasi quarant’anni fa e potendo contare su una ricca produzione realizzata sia in proprio che da altri soggetti. CGM, in tal senso, ha contribuito, certamente non da solo, allo sviluppo di una più ampia “cultura cooperativa” rispetto ad altri settori ed espressioni del terzo settore e dell’economia sociale. La ricostruzione proposta in questo contributo ha quindi l’obiettivo di ripercorrere, seppure in modo non esaustivo, il contributo di CGM alla produzione della propria e di una più ampia cultura organizzativa di carattere cooperativo quasi come un “bene comune”, anche se il rischio dell’autoreferenzialità è sempre dietro l’angolo. Ma, a proposito di rischi, sappiamo bene che esiste anche quello di una progressiva sclerotizzazione degli elementi che fondano le culture organizzative e soprattutto dei meccanismi attraverso i quali queste vengono riprodotte e arricchite ritrovandosi così in un “pantheon” di elementi culturali magari più che condivisibili ma che faticano a essere generativi, assorbendo così il tempo di persone e organizzazioni in un’opera di “manutenzione” che per quanto necessaria rischia di essere solo estetica, cioè non utile per alimentare lo sviluppo e generare impatti positivi.

Il contributo si concentrerà, in primo luogo, su quelli che appaiono essere i principali pilastri della cultura cooperativa derivante dall’esperienza dell’impresa sociale attingendo alla produzione pluridecennale del Consorzio CGM. Non si tratterà però di un mero “recap” allo scopo di “custodire il fuoco” della tradizione, ma del tentativo di comprendere come sono stati “tradotti in pratica” nel corso del tempo e quindi in quale stato di vitalità e di concreta disponibilità si trovino oggi. Nella seconda parte del contributo saranno invece ricostruiti i meccanismi attraverso i quali questo sostrato culturale è stato via via riprodotto e reso disponibile per le sfide di sviluppo e innovazione che caratterizzano questa particolare e complessa epoca storica. Ciò significa, in buona sostanza, mettere mano a meccanismi delicati, in qualche modo “suscettibili” e fin qui poco indagati. Parliamo dei rapporti tra produzione e “trasferimento tecnologico” nel campo dell’imprenditoria sociale, dove con queste espressioni si fa riferimento a una vasta gamma di prodotti scientifici e para scientifici (ad esempio di derivazione consulenziale) riguardanti forme d’impresa, assetti di policy, strumenti gestionali, modelli di economia e di prodotto / servizio, ruoli professionali, ecc. Un corpus di conoscenze ampio e variegato che è scaturito e che scaturisce da un complesso di relazioni tra ricercatori, consulenti e formatori, imprenditori sociali ecc. altrettanto articolato dove spesso compiti, funzioni e ruoli si sono mescolati all’interno di comunità scientifiche, professionali e in senso lato valoriali creando sia “virtuosismi” che inevitabili tensioni.

Sulla base di questa ricostruzione nella parte finale evidenzieremo alcuni apprendimenti utili per rilanciare quello che a tutti gli effetti pare essere un importante “motore di sviluppo” in una fase in cui è necessaria una “revisione” approfondita del suo funzionamento. Una cultura organizzativa esito della commistione tra conoscenze scientifiche e apprendimenti dalla pratica è chiamata, infatti, a svolgere anche in futuro una funzione altrettanto se non più rilevante sia per CGM – che è al centro di una nuova fase di riorientamento strategico – sia per altri attori che contribuiscono a strutturare e densificare ecosistemi di innovazione sociale e tecnologica.

 

Gli apporti in termini di contenuti culturali

Quali contenuti sostanziano la cultura organizzativa dell’impresa sociale? E quale peso specifico occupa la dimensione cooperativa? La risposta risiede in un campo di studi e di azione che, ormai da qualche decennio, ha l’obiettivo di delimitare ciò che è diverso dallo Stato e dal mercato contribuendo a costruire un settore o, meglio, un sistema come si usava dire nella fase pionieristica, che non si alimenta solo dai fallimenti o dagli “sgocciolamenti” degli altri settori ma che ha un significato in sé, una propria identità e cultura distintiva. In questo modo è possibile superare anche alcuni limiti intrinseci di questa terza opzione di infrastrutturazione della società, ovvero la sua frammentarietà interna che è ben rappresentata dal florilegio delle forme giuridiche (associazioni, cooperative, fondazioni, comitati). Una sorta di punta dell’iceberg sotto la quale permangono profondi elementi di differenziazione che sono essenzialmente di natura culturale. Affinché questa opzione possa essere riconosciuta e riconoscersi come “terzo pilastro” della società è inevitabile fare riferimento alla recente riforma del terzo settore e al modo in cui ha formalizzato gli elementi di cultura comune, anche se, va ricordato, la riforma normativa non esaurisce la questione sia per limiti intrinseci alla sfera normativa del diritto che non può codificare tutto, sia per limiti contingenti legati cioè a come questa particolare riforma è stata “architettata” e fin qui gestita. Sono tre, da questo punto di vista, i contenuti culturali che sembrano sostanziali.

Il perimetro dell’interesse generale. Si tratta di un tema chiave che coinvolge direttamente l’ambito cooperativo, in quanto l’impresa sociale viene rappresentata e regolata come “veicolo” attraverso il quale lo scambio mutualistico si allarga oltre la compagine proprietaria dell’impresa e dei suoi principali portatori di interesse andando a coincidere con una più vasta “sfera pubblica” e comunitaria. Uno spazio, quest’ultimo, che si definisce per la co-abitazione fra la Pubblica amministrazione e il cosiddetto “privato sociale” e che ha elaborato nel corso del tempo un modus operandi, principalmente nel campo del welfare, basato su un mix tra redistribuzione di risorse attraverso meccanismi procedurali e capacità di attivazione secondo quel principio di sussidiarietà che, possiamo dire, è stato fin qui la principale riforma costituzionale in epoca recente. Culturalmente questo passaggio si è risolto in una tensione tra un primo approccio che, con termini più attuali, potremmo definire “mission e impact oriented” e un secondo più di “codifica”. Il primo è volto a tracciare le principali sfide da perseguire come “interesse generale” agendo attraverso meccanismi di advocacy e di innovazione sociale, mentre il secondo si basa su una normazione settoriale dell’interesse generale in settori di attività anche allo scopo di meglio innestare gli apporti del terzo settore nei sistemi di offerta pubblica. Se è vero che negli ultimi anni è sembrata prevalere questa seconda opzione, in epoca più recente, forse anche per effetto delle turbolenze attuali e di mutamenti della società, si assiste a un riemergere di approcci dove l’interesse generale è frutto di una missione comune e di progettualità dagli intenti trasformativi. Basti pensare alla diffusione di framework di missione come gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, oppure su altro fronte al ritorno dell’attivismo giovanile. Un passaggio rilevante, che sembra intravedersi anche in una next generation di imprese sociali nei dati estrapolati dal neonato Registro unico nazionale del Terzo Settore, e che indubbiamente funge da forte stimolo al cambiamento organizzativo (e in senso lato culturale) anche per quegli enti di terzo settore più consolidati che hanno strutturato il loro “business model” a partire da settori codificati delle attività di interesse generale, puntando in particolare su quelli che fanno da “passe-partout” rispetto alle risorse pubbliche.

La comunità come attore di governance. In una fase in cui i soggetti comunitari sono stati (e forse sono ancora oggi) espulsi o marginalizzati a livello istituzionale, l’impresa sociale ha avuto il merito di riportarli al centro, su vasta scala e in un ambito chiave per il benessere, la coesione e lo sviluppo territoriale ovvero il welfare. Se è vero, infatti, che la letteratura scientifica e una più ampia narrazione manageriale abbonda di analisi che approfondiscono conformazione e ruoli delle comunità, è altrettanto vero che questi soggetti sono spesso collocati negli interstizi di organizzazioni governate secondo ben altre logiche (burocratiche soprattutto), oppure posizionate sullo sfondo dei processi decisionali “reali”, quasi come un “coro greco” che agisce esternamente rispetto agli attori dominanti. In questo senso la missione di “interesse generale della comunità” che contraddistingue l’impresa sociale assume un carattere dirompente, anche rispetto alle forme giuridiche adiacenti della cooperazione che invece erano (e forse sono ancora) ferme alle soglie di un più blando “concern for community”, ultimo dei principi cooperativi formalmente introdotto a inizio anni Ottanta del secondo scorso, guarda caso proprio mentre la “cooperazione di solidarietà sociale” italiana muoveva i primi passi. Anche in questo caso è la traduzione in pratica del principio a svelarne la reale consistenza in termini di spessore culturale. Ciò è avvenuto principalmente attraverso la traslazione della teoria degli stakeholder che tanto successo ha avuto anche tra gli addetti ai lavori, tanto da far diventare gergale l’uso di espressioni come “multi-stakeholder”. Tale approccio ha certamente contribuito a implementare l’opzione culturale della comunità dentro gli assetti formali di governance, però con alcuni limiti che è necessario evidenziare e che sostanzialmente risiedono proprio nella concezione di “portatore di interessi”. Al di là delle definizioni strettamente scientifiche appare chiaro, infatti, che puntare sull’interesse come meccanismo chiave di riconoscimento reciproco e di azione comune significa adottare una prospettiva di separazione e ricomposizione prima ancora che di autentica comunanza rispetto a visioni e aspirazioni comuni. Sembra essere prevalso quindi un approccio di “rappresentanza” degli stakeholder che in maniera neanche troppo surrettizia si è tradotto in schemi di relazione basati su rapporti di forza e di contrapposizione (lavoratori vs volontari vs utenti vs finanziatori) piuttosto che di similitudine. Un limite che oggi appare ancora più evidente di fronte a fenomeni quali le “grandi dimissioni” dal lavoro (anche sociale) e al ridursi dei sostrati fiduciari che rendono ancora più complesso il lavoro di bricolage degli interessi non riuscendo quindi a distillare in forma compiuta quello che è il principale elemento di valore di questa epoca, ovvero la diversità. Ecco, quindi, che assemblee dei soci e consigli di amministrazione di imprese sociali organizzati come “parlamentini” degli stakeholder faticano ad andare oltre la gestione di breve periodo e ad alzare l’asticella delle aspirazioni comuni. Tutto ciò a discapito di una capacità di investimento che in termini molto concreti appare in declino negli ultimi anni, molto centrata cioè sulla gestione ordinaria piuttosto che sullo sviluppo. È chiaro che le cause di questa tendenza risiedono anche in altri fattori molto più “materiali” – ad esempio i costi di accesso al credito – ma la segmentazione originata dall’approccio culturale alla rappresentanza di interessi ha giocato la sua parte. Una conferma in tal senso viene anche da esperienze che invece pongono la comunità, con tutte le sue sfaccettature, al centro della governance generando così nell’impresa sociale più istituzionalizzata la sensazione di sentirsi in qualche modo “sorpassata”. È il caso delle cooperative di comunità la cui diffusione, e ancor più la narrazione, punta proprio sul fatto che la comunità nel suo insieme “fa l’impresa” andando proprio ad “hackerare” i confini che separano gli stakeholder tradizionalmente intesi – ad esempio lavoratori che sono anche volontari e utenti – ponendo così sane sfide di innovazione organizzativa e istituzionale, anche sul fronte normativo. Ma, senza addentrarsi in questioni regolative, è chiaro che la cooperazione di comunità, spesso peraltro organizzata in forma d’impresa sociale, sembra aver da una parte “completato l’opera” di riportare la comunità al centro della governance ma percorrendo un’altra strada che è quella di darsi una comune missione trasformativa che contribuisce a cambiare i connotati dei portatori di interesse in portatori di risorse (assetholder) che si aggregano intorno a principi costituenti piuttosto che a norme settoriali e patti parasociali.

Le reti inter-organizzative. Il confronto in questo caso ruota, quasi inevitabilmente, intorno al modello della rete consortile che forse, quasi più della singola impresa sociale, ha rappresentato l’elemento cardine dello sviluppo e della narrativa di CGM oltre che di altre espressioni di questo fenomeno. In alcuni casi intorno all’opzione della rete fatta di imprese sociali di piccole dimensioni, specializzate e radicate in contesti locali e ben rappresentate dalla fortunata metafora del “campo di fragole” si sono concentrati sforzi elaborativi e investimenti consistenti, oltre a conflitti anche all’interno dello stesso CGM, in particolare tra diverse generazioni di leader. Cosa rimane oggi di tutto questo? Ovvero di un formidabile tratto di cultura organizzativa e di un armamentario gestionale e di governance che ha rappresentato un importante driver di sviluppo? Semplificando, forse troppo, si potrebbe dire tutto e niente. Niente perché oggi prevale – e va detto con pragmatismo – un approccio più “laico” al fare rete sia rispetto ai modelli, ad esempio usando strutture pattizie e contrattuali più leggere e tematiche come i contratti di rete, oppure, per certi versi all’opposto, stringendo i legami attraverso assetti più coesi e gerarchici come gruppi cooperativi o società veicolo costituite da altre imprese sociali per investimenti a elevata intensità di rischio e di capitale (gli “ibridi” che tanto hanno fatto discutere ricercatori e practitioner). Ma l’aver allargato lo spettro dei modelli di rete oltre l’ideologismo consortile non esaurisce il quadro perché va rilevato un mutamento culturale più profondo (e qui sta il “tutto” della questione), ovvero un utilizzo delle reti in chiave di apertura verso più ampi ecosistemi di innovazione e sviluppo. Può sembrare una frase fatta, soprattutto per coloro che tacciano di “fuffologia” l’espressione ecosistema, ma invece la questione è rilevante e concreta per almeno due ragioni. La prima segna un vero e proprio passaggio d’epoca, ovvero la fine del ciclo di sviluppo per “autopropulsione” basato su risorse interne. Una fase che potremmo definire “eroica” che ha caratterizzato lo startup dell’impresa sociale quando “là fuori” nessuno la riconosceva come attore rilevante da essere sostenuto in termini di finanziamento, servizi reali, programmi di sviluppo, ecc. Da qui, da questo limite di riconoscimento, sono nate le reti consortili attrezzate, spesso con distacchi di imprenditori e manager delle imprese socie, per fare formazione, consulenza, progettazione, finanza, ecc. Oggi però, un settore affermato e con la conseguente crescita di interesse presso altri attori rende necessario un cambio di strategia e di postura culturale passando da un’opzione dello sviluppo “make”, cioè tutto interno, a una “buy” o, meglio ancora, “coproduce” rispetto a un contesto esterno ricco di opportunità. Rispetto a questo cambio di prospettiva non ha aiutato una produzione scientifica a volte eccessivamente centrata sull’evidenziare rischi di colonizzazione e isomorfismo rispetto ad ambienti esterni e che ha tralasciato invece la necessità di capacitare ulteriormente le competenze di dialogo, confronto e partnership di un settore ormai affermato anche a livello di capitale umano in posizioni di leadership e manageriali. Il caso della finanza è emblematico in tal senso: l’eccesso di allarme rispetto al rischio di “inquinamento culturale”, in particolare da parte dei fondi d’investimento a impatto rischia di far perdere importanti opportunità di sviluppo. Crogiolandosi nel mito dell’autofinanziamento per vie interne si rischia, infatti, di condannare l’impresa sociale a una posizione di residualità proprio nel momento storico in cui le sue istanze di giustizia sociale e sostenibilità ambientale diventano di interesse comune e rischiano quindi di essere fagocitate, anche perché non mancano interlocutori all’altezza di queste stesse sfide. La seconda ragione alla base di una maggiore apertura delle reti risiede nella necessità di curare quello che si potrebbe definire un “vizio di origine”, già rilevato in passato, di queste stesse infrastrutture ovvero “l’incapsulamento dei mercati” (e, aggiungeremo, della società). In altri termini i consorzi, pur essendo animati dalle “migliori intenzioni” – ovvero salvaguardare la qualità relazionale e radicata del welfare contro il rischio di una deriva da prestazioni tecniche tutt’altro che generativa e anzi “sterile” rispetto ai contesti – hanno progressivamente agito, anche se non tutti nella stessa misura, come “oligopolisti” nei mercati pubblici locali ostacolando l’ingresso di nuovi provider portatori di innovazioni. In questo modo si sono progressivamente separati da tessuti sociali ed esperienze caratterizzate da approcci al welfare autenticamente comunitari, oltre che animate da intenti di cambiamento radicali che appaiono sempre più necessari a fronte della crescita dei bisogni e della conflittualità sociale. Da qui un faticoso ma indispensabile “ritorno alle origini”, grazie anche a progettualità proprie o cofinanziate da risorse pubbliche e soprattutto filantropiche. Uno sforzo che richiede di rimettere mano ai modelli di servizio e di business recuperando quell’approccio al mix di risorse anche di natura donativa che i mercati pubblici avevano progressivamente prosciugato. Ma è un passaggio che riguarda, ancora una volta, ruoli e competenze chiave anche all’interno delle agenzie di rete consortile (o in altre forme) con un “ritorno di fiamma” per funzioni e competenze di community management. Tutto questo, peraltro, con un’importante sfida di “upgrade” delle reti ovvero la coprogrammazione e la coprogrettazione con il pubblico. Un grande merito, quest’ultimo, frutto di un dispositivo contenuto nella legge di riforma del terzo settore che è stato poi consolidato da una importante sentenza della Corte costituzionale ma che, di nuovo, per essere messo in atto richiede un cambio di mentalità a base culturale. Il rischio di una riproposizione dell’approccio di “incapsulamento” è sempre presente e tutto sommato già visibile nella norma laddove il terzo settore ha un’esclusiva di accesso ai tavoli e, all’opposto, la Pubblica amministrazione ha a disposizione più di una “golden share” da esercitare in tutte le fasi cruciali del percorso di coprogettazione: individuazione dei soggetti partecipanti, management del processo e affidamento della gestione.

 

Gli apporti in termini di generazione e condivisione della conoscenza

Approfondire i meccanismi attraverso i quali è possibile generare e rigenerare la cultura di un’organizzazione, soprattutto se complessa e orientata all’innovazione come CGM è un’operazione ardua che per essere affrontata richiede di esplicitare alcuni focus di analisi, tralasciandone altri. In questo senso, può essere utile adottare una prospettiva analitica che guarda al design organizzativo, in particolare di quelle unità espressamente dedicate a generare e distribuire una conoscenza che sappia attivare e arricchire i sostrati culturali. Facciamo quindi riferimento alle vicende che nel corso della storia ormai quasi quarantennale di CGM hanno riguardato il modo in cui sono state organizzate funzioni quali ricerca, formazione e consulenza; la loro ascesa e il loro ridimensionamento nel corso del tempo sono infatti emblematiche rispetto alla dimensione culturale. Il tutto naturalmente guardando alle relazioni con la governance del Consorzio, considerato che si è trattato, almeno per lunghi tratti, di attività “core”.

La ricerca, da questo punto di vista, rappresenta il punto di partenza: è quasi entrato nella mitologia organizzativa di CGM il suo Centro studi che grazie ad attività di indagine (come i pionieristici rapporti sulla cooperazione sociale) e a una rivista di taglio scientifico ma comunque aperta anche a practitioner (Impresa Sociale). Tutto ciò ha contribuito a marcare gli elementi fondanti dell’impresa sociale in termini identitari, accompagnando il suo percorso istituente (la prima legislazione di inizio anni Novanta) e con esso formando un primo nucleo di imprenditori e manager, oltre ad accompagnare la nascita di nuove imprese sociali (soprattutto per “spin off”) e reti consortili. Man mano che la produzione di ricerca cresceva dando vita a una vera e propria comunità scientifica, che ha trovato collocazione in “luoghi deputati” come le università, il Centro studi è diventato soprattutto un “service” per ricercatori, ad esempio, grazie al possesso di banche dati quantitative e, aspetto non secondario, alla capacità di mobilitare l’intelligenza collettiva dei suoi imprenditori sociali per ricavare dai dati conoscenze trasferibili. Allo stesso tempo il Centro studi si è progressivamente integrato all’interno di una più vasta “Area della conoscenza” dove formazione e consulenza hanno assunto una maggiore rilevanza data la necessità di sostenere processi organizzativi più articolati e complessi. Anche il rapporto con la governance di CGM è mutato, come conseguenza di passaggi generazionali e affermazione di diversi stili di leadership. La fase iniziale ha visto prevalere una stretta vicinanza, quasi sovrapposizione, tra ricercatori e figure dirigenziali del Consorzio con forti accenni carismatici circondati da imprenditori follower e “seconde linee” che agivano principalmente ruoli di staff distaccati dalle loro organizzazioni di appartenenza. Nel corso del tempo si è assistito a un allargamento dei gruppi dirigenziali che hanno assunto la conformazione di “comunità di pratica” più orizzontali e paritarie e che hanno potuto contare su staff professionali (sia nel consorzio nazionale che nelle reti consortili locali). Rispetto alle vicende che qui interessano, questa evoluzione rispondeva alla necessità di poter contare su interlocutori differenziati nell’ambito della ricerca e dello sviluppo come elemento di legittimazione della nuova leadership e del suo portato politico culturale, ma anche per esigenze più pratiche legate alla necessità di approfondire aspetti specifici legati alle filiere di attività delle imprese sociali e target di beneficiari o particolari aspetti di gestione organizzativa (ad esempio in termini di rendicontazione sociale o di certificazione della qualità della produzione).

Questa evoluzione, va detto non sempre così lineare e costellata di criticità, ha portato a un assetto dove la produzione di cultura organizzativa di CGM si è dislocata su nuove unità organizzative che in molti casi si sono trasformate anche in “società di scopo” autonome rispetto al Consorzio nazionale e poste a presidio di specifici ambiti di attività o business unit (servizi al lavoro, ambito educativo, sanità, finanza, ecc.). Tali unità si sono configurate sempre più anche come produttrici e committenti di conoscenza generando così un comprensibile svuotamento (anche per questioni di sostenibilità economica) dei contesti originari come il Centro studi e l’Area della conoscenza che non a caso sono stati dismessi. CGM rimane quindi un luogo generativo di cultura organizzativa (propria e favore di altri soggetti) ma decisamente sotto “nuove spoglie”. Se inizialmente il meccanismo procedeva in senso deduttivo e per certi versi top down, ovvero macro principi identitari generali legati soprattutto alla forma giuridica poi trasferiti e applicati in ambiti specifici, in una fase successiva il percorso è induttivo e proceduralmente bottom up, ovvero da conoscenze situate ed esigenze operative si “scala” su elementi di conoscenza di taglio politico – strategico attraverso percorsi, decisamente più complessi ma forse anche più generativi, fatti di apprendimento reciproco e di fertilizzazione incrociata con svariati enti e soggetti interni ed esterni alla rete che si collocano all’interno dei già citati ecosistemi.

Per certi versi questo meccanismo è ancora quello più attivo all’interno di CGM anche in questa fase, nonostante le alterne vicende che hanno caratterizzato le sue diverse aree di interesse tematico e in particolare alcune delle società di prodotto che avevano il compito di svilupparle a beneficio della rete e della sua missione di interesse generale. Quel che forse sta cambiando è che gli investimenti del Consorzio in nuovi ambiti sono sempre più trainati dall’esigenza di intercettare le opportunità dell’innovazione tecnologica e in particolare di quella digitale, come dimostra ad esempio la sua recente startup nel campo delle piattaforme di welfare. L’esigenza di consolidare, da una parte, il suo approccio allo sviluppo e alla crescita della cultura organizzativa agendo in chiave di investimento settoriale e, al tempo stesso, di saper meglio approcciare i diversi driver di innovazione tecnologica (peraltro sempre più a impatto sociale) ha portato, in epoca recente, a individuare una nuova area organizzativa che in prospettiva dovrebbe agire anche come generatrice di cultura organizzativa. Si tratta dell’open innovation che viene quindi riconosciuta sia come interfaccia rispetto a provider e intermediari tecnologici peraltro sempre più interessati a collaborare con imprese sociali, sia come nuova mentalità in termini di apertura rispetto a opportunità che possono sostanziare nuovi progetti, investimenti, ma anche attrazione di nuove competenze. Ciò vale in particolare tra i giovani che in questi ultimi anni hanno spesso preferito fare impatto sociale con una startup piuttosto che con un’impresa sociale come invece è successo per le generazioni precedenti. L’innovazione aperta pervasiva rappresenta quindi sia uno strumento per fare matching con soggetti diversi per finalità di coinnovazione sia un processo basato su capacità di dialogo con mondi diversi che alimentano percorsi di cambiamento di sistema, oltre che stimolare l’innovazione all’interno delle organizzazioni d’impresa sociale più consolidate. Da questo punto di vista hanno giocato un ruolo importante alcuni eventi della rete che si sono progressivamente configurati come “rituali” di confronto e condivisione rispetto a competenze e risorse hard ma, attraverso queste, come elementi di conoscenza e cultura comune sia all’interno della rete ma anche sempre più spesso anche nei confronti di più vasti ecosistemi. Si pensi soprattutto agli “Stati generali” (incontro periodico aperto ai soci di CGM) e al “Social enterprise open camp” co-organizzato con il fondo a impatto Opes che consente, tra l’altro, di incontrare nuove generazioni di attivisti e imprenditori sociali.

 

Conclusioni: alimentare una cultura cooperativa per i prossimi quarant’anni

L’avvicinarsi dell’importante traguardo dei quarant’anni di CGM ma soprattutto l’avvio di un nuovo ciclo di rinnovamento della governance testimonia, di per sé, la vitalità di questa rete e il suo sapersi affrancare da fenomeni di dipendenza dal percorso rispetto alle sue stesse matrici culturali. Per questo è necessario focalizzare in questa parte finale alcune aree di investimento dove il “rendimento atteso” consiste nel rigenerare un sostrato di cultura organizzativa che guardi al futuro non solo del Consorzio nazionale, ma anche di altre imprese sociali, soggetti di terzo settore e dell’economia sociale oltre che di altre organizzazioni che, pur non essendo formalmente parte di questi ambiti, agiscono in vista di obiettivi espliciti d’impatto sociale.

Un primo ambito di azione consiste nella già citata capacità nel contribuire a “curvare” i driver di innovazione tecnologica rispetto agli obiettivi di una “transizione giusta”, cioè sostenibile ed equa. È la “missione delle missioni” di quest’epoca che naturalmente può essere perseguita attraverso un deciso rafforzamento delle competenze interne e una maggiore strutturazione delle partnership ecosistemiche. Da questa saldatura l’aspettativa è una ridefinizione delle culture di riferimento, consapevoli del fatto che il digitale rappresenta, nel bene e nel male, “l’ultima ideologia” che fagocita le altre, compresi segmenti importanti di quella sociale. Basti pensare, ad esempio, al ruolo delle community digitali o al modo in cui anche i servizi sociali possono essere trasformati in senso digitale (e non semplicemente “digitizzati”).

Un secondo contesto dove attendersi un rinnovamento anche in senso culturale coincide con un cambio di strategia nei confronti del principale capitale delle imprese sociali ovvero le persone. L’impressione, infatti, è di trovarsi, per la prima volta nella storia di questo settore, nel bel mezzo di una “tempesta perfetta” che mina i principali fattori di attrazione e permanenza di coloro che decidono di lavorare in questo settore. Tra “grandi dimissioni” e “quiet quitting” (cioè un approccio al lavoro scevro da qualsiasi elemento di adesione ulteriore che esuli dalla prestazione) molte imprese sociali rischiano di compromettere il loro funzionamento se non si dotano di una vera e propria people strategy basata su rapporti di lavoro meglio retribuiti in termini economici e arricchiti anche da ulteriori fattori – reputazione, formazione, welfare aziendale – che siano meglio contrattualizzati e rendicontati, non limitandosi alle sole dichiarazioni di valore rispetto alla rilevanza del lavoro sociale che rischiano di essere controproducenti. Da qui passa la possibilità di attrarre risorse umane che peraltro subentrano alle prime generazioni ormai in età pensionabile, attraendo persone portatrici di nuove competenze e relative culture di riferimento, arrivando a permettersi profili tecnico-specialistici (come quelli Steam) che oggi appaiono preclusi.

Il terzo elemento consiste nel rigenerare risorse imprenditoriali e manageriali attraverso percorsi di alta formazione da innestare all’interno dei principali ambiti di formazione specialistica a livello universitario e post-universitario. Non basta più formare imprenditori e manager “generalisti” rispetto alle competenze gestionali e ferrati, a volte eccessivamente, in termini identitari. È a partire dalle competenze hard che si costruisce appartenenza, sensibilità e cultura rispetto all’impresa sociale, come peraltro dimostra la storia recente di CGM. Un aspetto, tra gli altri, appare di particolare urgenza e rilevanza in tal senso ovvero la capacità di gestire organizzazioni attraverso approcci di tipo data-driven in una fase in cui molte imprese sociali, e lo stesso Consorzio, si stanno dotando di sistemi informativi sofisticati che espandono in aree molto articolate il classico “controllo di gestione”, ad esempio creando interoperabilità con la generazione d’impatti e la compliance rispetto agli standard richiesti dall’offerta pubblica.

Infine, ma non per ultimo, va ridefinito il tema della sostenibilità economica: da sempre la cultura dell’impresa sociale si fonda, anche in chiave dialettica, intorno ai principali flussi di generazione di risorse guardando alla loro provenienza: pubbliche e private principalmente, ma anche di mercato o non di mercato. Occorre però un salto di qualità rispetto a quest’ottica riduzionista del “mix di risorse” dando quindi per scontato che queste siano in qualche modo sempre e comunque disponibili, anche perché da destinare a organizzazioni che perseguono finalità sociali. In realtà anche per questi soggetti alcuni stream di risorse sono in fase di profonda ridefinizione mettendo sotto pressione i loro budget, bilanci, investimenti. Basti pensare alle scelte di consumo di persone e famiglie nel campo del welfare, alla concezione di welfare aziendale da parte delle imprese e, non da ultimo, alle logiche sempre più centralistiche e burocratiche che governano l’allocazione delle risorse pubbliche. Occorre quindi grande cura in sede di definizione delle risorse di input al fine di non sprecare nulla, o almeno il meno possibile, e avere capacità di rigenerare. Ciò vale non solo per le risorse naturali – si pensi ad esempio a quanto anche il welfare può essere energivoro – ma anche quelle sociali: relazioni e comunità non sono un bene sempre e comunque disponibile, quasi come una commodity, ma un bene comune. In quanto tale va gestito e governato al fine di renderlo disponibile non solo per le organizzazioni di oggi ma anche per altri attori e soprattutto per nuove generazioni.

Scritto da
Flaviano Zandonai

Sociologo, è open innovation manager presso il Gruppo cooperativo CGM. Si occupa di terzo settore e impresa sociale attraverso attività di ricerca applicata, formazione, consulenza e divulgazione editoriale. Ha lavorato per istituti di ricerca e coordinato reti tra comunità scientifica e imprenditoria sociale. Collabora con enti di ricerca, società editoriali e reti di innovazione sociale a livello nazionale. È autore di: “Neomutualismo. Ridisegnare dal basso competitività e welfare” (Egea 2022), “Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” (Egea 2019), “Imprese ibride. Modelli d’innovazione sociale per rigenerare valore” (Egea 2016) e “L’impresa sociale in Italia. Pluralità dei modelli e contributo alla ripresa” (Altreconomia 2012), tutti scritti insieme a Paolo Venturi.

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