Scritto da Matteo Rossi
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Recensione a: Olivier Roy, Generazione Isis: Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2017, pp. 128, 14 euro (scheda libro).
Secondo Max Weber il compito delle scienze sociali consiste nella comprensione del senso che gli attori attribuiscono alle proprie azioni. La violenza terrorista che colpisce l’Europa ci spaventa soprattutto perché non sappiamo decifrarne la logica, perché ci appare assurda, perché lascia in noi una sensazione di straniamento, apparendo insieme estremamente arcaica ed estremamente moderna, insieme simile e altra rispetto al nostro universo simbolico. Il saggio di Olivier Roy, Le djihad et la mort, pubblicato nel 2016 (e recentemente tradotto presso Feltrinelli con il titolo Generazione Isis), cerca proprio di studiare il senso che i giovani jihadisti europei attribuiscono alla propria azione di violenza, le loro caratteristiche sociologiche ricorrenti, il loro immaginario e il rapporto che li lega alle organizzazioni jihadiste mediorientali.
Secondo Roy tutti gli attentatori che hanno agito in Europa dalla metà degli anni Novanta condividono alcuni tratti ricorrenti. In primo luogo i terroristi sono prevalentemente stranieri di seconda generazione (60%) e convertiti all’Islam (25%) (p.31): si tratta quindi per la maggior parte di giovani individui nati e cresciuti in Europa, provenienti da famiglie sostanzialmente integrate, ma spesso con alle spalle episodi di criminalità comune e un periodo trascorso in carcere.
La loro è una rivolta giovanile: una radicale contestazione di carattere generazionale, compiuta dai figli contro l’autorità dei genitori e la loro interpretazione dell’Islam, considerata tiepida e sottomessa (pp.35-36). È l’immaginario stesso degli jihadisti ad essere giovanilista, impregnato di un’estetica della violenza assolutamente contemporanea e supportata dalle tecnologie comunicative più avanzate: un’estetica in cui la rappresentazione della morte e la messa in scena narcisistica di se stessi in azione risultano decisive e collegate a dinamiche generali della comunicazione contemporanea (p.59). Lungi dall’essere arcaici e primitivisti, insomma, i terroristi appaiono pienamente figli del proprio tempo e delle società in cui sono cresciuti: «il jihadismo, almeno in Occidente (ma anche in Maghreb e Turchia), è un movimento di giovani che (…) risulta inscindibile dalla “cultura giovanile” delle nostre società» (p.10).
Sul piano religioso, sia i convertiti sia coloro che provengono da famiglie musulmane sono però dei born again (p.32), che riscoprono la fede dopo una vita profana o comunque lontana dai precetti islamici: non si tratta, quindi, di individui educati alla religione o praticanti. Il percorso di conversione o riconversione è tendenzialmente rapido e precede di poco il passaggio all’azione, ma non necessariamente comporta uno stravolgimento dello stile di vita (i fratelli Abdeslam, ad esempio, gestivano un locale a Molenbeek in cui servivano alcolici e frequentavano discoteche fino a dieci giorni prima dell’attentato al Bataclan). Il passaggio alla religione è compiuto in sostanziale isolamento rispetto alla comunità circostante, individualmente tramite internet o in gruppi ristretti di amici o fratelli.
Roy sottolinea il carattere autarchico dei gruppi radicalizzati, il loro sfasamento rispetto alla comunità, dalla quale non sono quasi mai compresi o sostenuti: i jihadisti non rappresentano l’avanguardia di un fenomeno comunitario, non hanno alle spalle alcun movimento sociale di sostegno e sono spesso allontanati dalle moschee dei loro quartieri (pp.41-42). L’isolamento dei radicalizzati rispetto al proprio ambiente circostante testimonia l’infondatezza delle tesi per cui i terroristi sarebbero prodotto esclusivo delle banlieue, tesi che sopravvalutano l’influenza delle origini spaziali nella loro formazione. Anche le rivolte delle banlieue parigine non sono mai state “islamizzate”, essendo piuttosto paragonabili ai riot di altre città europee e americane. In questo senso, per Roy, non esiste un profilo socio-economico tipico del terrorista. Non sarebbe la posizione di classe a influire sul passaggio all’azione violenta: in molti casi i convertiti provengono dalla provincia, dalle piccole città o dalla campagna, spesso da famiglie integrate e in alcuni casi hanno conseguito un titolo di studio. La banlieue povera resterebbe un luogo privilegiato di reclutamento ma solo a causa della concentrazione in essa delle seconde generazioni (pp.44-48).
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Indice dell’articolo
Pagina corrente: Profilo sociologico dei terroristi
Pagina 2: Jihadismo e nichilismo: la violenza come fine
Pagina 3: Olivier Roy e l’islamizzazione della radicalità
Pagina 4: Conflitti in Medio Oriente e terrorismo in Europa