Scritto da Giacomo Bottos
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Rita Ghedini è Presidente Legacoop Bologna.
Quale interpretazione date della categoria di economia sociale?
Rita Ghedini: La categoria dell’economia sociale è fortemente inscritta in una certa fase della costruzione europea, l’epoca di Jacques Delors a metà degli anni Ottanta, in cui sembrava che l’edificio europeo potesse compiersi in maniera decisamente più integrata, diventando capace di caratterizzare il proprio sviluppo secondo la definizione di economia sociale di mercato. Negli ultimi anni abbiamo ricominciato a parlare a molti livelli di economia sociale, quasi considerandola una “ciambella di salvataggio” a cui attaccarsi dopo la crisi pandemica incrociata con altre crisi insorgenti e altri elementi strutturali. Di fatto una condizione dell’economia stagnante segnata, soprattutto in Italia, da un aumento così importante delle disuguaglianze da essere esso stesso un freno alla crescita economica. Nel 2022, dopo la pandemia, la riflessione in Europa ha ripreso quel framework che era stato di slancio europeo, in cui si discuteva della Costituzione Europea.
Per noi l’economia sociale di mercato e l’economia cooperativa sono due cose molto prossime, che condividono l’idea di uno sviluppo partecipativo, mutualistico, in cui la nozione di mutuo aiuto, di relazione interna e scambievole fra gli attori dell’economia, in primis le persone, siano imprese di persone e le comunità territoriali, le cittadine e i cittadini, disegna per l’appunto un modello generativo, partecipato, democratico. A me piace dire alternativo, poi comprendo bene la portata del limite dell’impatto di ciò che si è potuto costruire nel corso del tempo con le forme dell’economia collaborativa e quindi dell’economia sociale. Alternativo sostanzialmente al modello dell’economia capitalistica. O meglio, per essere più precisi, al modello della concentrazione della proprietà privata, che comunque non demonizziamo. Riteniamo che l’economia sociale e la cooperazione siano da intendersi non certo come elementi di riparazione o compensazione, ma proprio come un modello diverso, auspicabilmente estendibile nella misura massima possibile. D’altra parte, facendo riferimento alle categorie su cui è incardinata la Repubblica Italiana e la nostra democrazia, non è un caso, come ci ha ricordato lo scorso anno in occasione della Biennale dell’Economia Cooperativa il Presidente della Repubblica, che la funzione sociale per le cooperative sia iscritta nella Costituzione come un fine, mentre per le imprese private esiste il limite invalicabile di non produrre danni sociali e, con la modifica dell’Articolo 9 della Costituzione, anche ambientali.
Perché la categoria di economia sociale è preferibile rispetto ad altre categorie come Terzo settore o simili?
Rita Ghedini: Non siamo d’accordo con definizioni che siano sostanzialmente sovrapponibili solamente all’economia realizzata dalle forme sociali che popolano l’area del Terzo settore. Il concetto di economia sociale ricomprende, come chiarisce la raccomandazione europea, tutta la cooperazione. Questo concetto definisce un metodo, un modo di produrre e non un perimetro di soggetti o una mera valutazione degli esiti della produzione. Non ha quasi niente a che fare, per capirci, con la responsabilità sociale, come direbbe Stefano Zamagni, realizzata con le azioni che si compiono dopo la linea dell’utile.
Questo concetto di economia sociale è stato il punto di partenza di tutta una serie di iniziative che sono legate in un percorso partecipato che avete promosso, che ha incluso diversi momenti e progettualità, anche prima del Piano Metropolitano per l’Economia Sociale. Quali sono stati vari passaggi di questo percorso?
Rita Ghedini: Legacoop è convinta del livello profondo di consonanza tra l’impianto ideale e fattuale delle nostre cooperative e i contenuti della raccomandazione europea. Nel 2023 abbiamo invitato Ruth Paserman, l’allora Direttrice del Piano europeo per l’economia sociale, che è stato delineato prima dell’adozione della Raccomandazione da parte del Parlamento, a raccontare l’impianto del piano alla platea delle nostre cooperative associate. La reazione è stata così interessata che abbiamo deciso che non bastava dichiarare la condivisione, ma occorreva costruire un percorso di azioni che potessero sostenere gli indirizzi politici e le pratiche utili a calare sul territorio i concetti e le indicazioni pragmatiche del Piano europeo. Considerandolo come l’adozione di un piano industriale finalizzato a promuovere un modello di sviluppo diverso. Ci siamo resi conto che per farlo avremmo dovuto oltrepassare il nostro perimetro, cercando di condividere con gli stakeholder di Legacoop Bologna innanzitutto la cultura di riferimento, la conoscenza e gli strumenti. Successivamente, abbiamo progettato la prima edizione del progetto “ecooS.lab” per discutere intorno ai pilastri dell’economia sociale insieme ai nostri interlocutori, con l’obiettivo della condivisione di un linguaggio, di conoscenza comune degli strumenti già esistenti nell’interfaccia pubblico-privata, per fare del cosiddetto public procurement uno strumento di politica industriale finalizzato allo sviluppo di un’economia territoriale diversa, inclusiva, partecipata, con una distribuzione di valore più equa fra i soggetti partecipi. La prima edizione, che è durata sei mesi a cavallo tra il 2023 e il 2024, in cui abbiamo analizzato i perimetri culturali, gli strumenti normativi, le buone pratiche, è stata molto partecipata dalle cooperative, da qualche rappresentanza d’impresa, dalle pubbliche amministrazioni del territorio e dai sindacati. Poi, nell’autunno scorso abbiamo lanciato la seconda edizione, “ecooS.lab – missioni cooperative per la sostenibilità”, individuando due macro-focus su cui ragionare e discutere di quali siano gli strumenti e le pratiche migliori per generare sviluppo in termini coerenti con il concetto di economia sociale. I focus individuati sono stati quello del lavoro in una prospettiva intergenerazionale per rendere più attrattivo il nostro territorio e la costruzione di modelli energetici di territorio democratici e diffusi. Temi orizzontali la governance territoriale multi-stakolder dei processi e la misurazione di impatto delle missioni. Questa seconda edizione si concluderà con dei seminari nel mese di luglio e successivamente avremo poi la fase di restituzione con gli indicatori di impatto sociale.
In questo quadro si inserisce, appunto, il percorso del Piano della Città Metropolitana di Bologna. Qual è la vostra valutazione di questa progettualità e in che modo avete contribuito, con i percorsi che ha evidenziato, alla messa a punto del Piano? Che valutazione si può dare di come è stato declinato tutto il percorso di costruzione di questo Piano da parte dell’amministrazione pubblica e quali sono le modalità migliori di interazione tra un’associazione di rappresentanza come la vostra, il mondo dell’economia cooperativa e le istituzioni?
Rita Ghedini: La valutazione è positiva, come abbiamo riconosciuto anche recentemente in occasione della presentazione pubblica del PES Metropolitano. Innanzitutto, è positiva la volontà di affermare un orientamento e di farlo dotandosi di una strumentazione concreta e programmatica. È una scelta che la città metropolitana di Bologna è stata fra le primissime a fare in Italia, in un momento nel quale l’adozione del piano nazionale, e insieme ad essa gli strumenti sia normativi che programmatori che devono rendere possibile la sua adozione, sta procedendo lentamente e con un’interlocuzione abbastanza diradata, pur essendosi costituito il tavolo con le parti sociali di confronto presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze in collaborazione con il Ministero del Lavoro. Gli aspetti su cui le nostre organizzazioni di rappresentanza di livello nazionale hanno potuto interloquire con i ministeri interessati sono soprattutto relativi all’impianto normativo di definizione di perimetri che, per le ragioni che richiamavo prima, secondo noi è un approccio quantomeno insufficiente. Va quindi riconosciuto alla Città Metropolitana di Bologna lo sforzo di cercare di dotarsi, come dicevo, di uno strumento programmatorio, anche senza aspettare la normativa nazionale. Questa è, ovviamente, una doppia sfida, perché in assenza di un quadro nazionale significa caricarsi direttamente della ownership e mettere in campo azioni coerenti, senza poterle coordinare con altri livelli. La Regione Emilia-Romagna ha annunciato a sua volta nel programma di mandato la stessa intenzione, e credo che siano in linea di costituzione anche in quella sede gli strumenti di progettazione del percorso per un piano regionale per l’economia sociale.
A Bologna il metodo è stato partecipativo e per noi il confronto con l’amministrazione è cominciato addirittura dentro il nostro percorso. Ci siamo ritrovati quindi a discutere gli stessi temi avendo frequentato insieme una sorta di palestra e questo ci ha consentito di rendere più efficace il percorso. Il risultato è complesso e articolato, di cui condividiamo sia la parte definitoria, sia di individuazione degli ambiti di azione prioritarie. Molte sollecitazioni che sono arrivate dalla cooperazione sono state accolte; nella fase di attuazione sarà necessario garantire la coerenza di impianto e la messa in campo non solo degli strumenti procedurali, ma anche di individuazione delle risorse che servono a sostenere un piano promozionale. La coerenza può essere e deve essere ritrovata fin da subito nelle pratiche concertative della pubblica amministrazione, nelle pratiche del public procurement, e negli strumenti di dialogo non solo tra la pubblica amministrazione e i soggetti che hanno interloquito nella redazione del piano e hanno contribuito a costruirlo, ma proprio nell’impostazione del governo del territorio, ovvero delle politiche economiche, sociali, ambientali, relative ai piani d’azione della pubblica amministrazione.
Rispetto alle prospettive di successo del piano, il quadro europeo inizialmente era molto favorevole alla prospettiva di mettere al centro l’economia sociale, mentre ora l’indirizzo è un po’ mutato. Come può incidere questo fattore?
Rita Ghedini: Questo mutamento vale per l’economia sociale così come per gli obiettivi di sostenibilità. Nutriamo preoccupazioni, che abbiamo espresso pubblicamente, anche recentemente in un incontro fatto con alcune rappresentanze dell’Unione a Bruxelles. La chiusura della Direzione per l’economia sociale dentro la DG Grow crediamo sia sbagliata, in quanto rinuncia a porre un’enfasi, declinata con strumenti operativi specifici, che, viceversa, la scorsa Commissione guidata sempre da Ursula von der Leyen aveva accentuato fortemente con le decisioni prese nel 2023. Vedremo che cosa accadrà nella dialettica tra Commissione e Parlamento. Paradossalmente, mentre nella legislatura precedente la Commissione sembrava anticipatrice rispetto alle decisioni del Parlamento, oggi sembra che nella dialettica che si è innestata rispetto alla vicenda del Rearm EU, sia il Parlamento a richiamare la Commissione ad una maggior coerenza con decisioni irrinunciabili assunte nel mandato precedente. Ci siamo espressi in maniera contraria all’idea di unire, in un unico fondo, i fondi destinati allo sviluppo e alla coesione, lasciando molta autonomia ai Paesi membri per l’utilizzo delle risorse. Non solo perché è un passo indietro rispetto a politiche comuni coerenti rispetto a un impianto europeo sempre più unitario, ma anche perché è una scelta controfattuale rispetto a quegli obiettivi che erano stati chiaramente indicati, di scelte economiche importanti, ad esempio quelle messe in campo con il Next Generation EU e non solo.
È vero anche che rispetto alle scelte che sono state fatte con la cosiddetta direttiva “Stop the Clock” e il deferimento, con la cosiddetta direttiva omnibus, delle scadenze per la rendicontazione d’impatto, con l’alleggerimento degli obblighi rispetto alla rendicontazione ESG, quello che raccogliamo nel mondo imprenditoriale è un certo sollievo, perché l’impianto di quegli strumenti era oggettivamente molto burocratico, e soprattutto le PMI erano angosciate dalla scadenza prossima. Ma nella prospettiva di maggiore coesione europea, di investimento sulle forme dell’economia sociale e di investimento sulla sostenibilità, sia sul piano ambientale che sul piano sociale, le fratture in corso danno luogo ad effetti così negativi, anche per lo sviluppo, che non si possono non adottare scelte e comportamenti favorevoli alla limitazione degli impatti ambientali e votati al mantenimento dei livelli di coesione sociale per i quali l’economia sociale è uno strumento fondamentale. Siamo preoccupati perché le fratture attuali rischiano esse stesse di limitare lo sviluppo. Confidiamo però sul fatto che le dinamiche dell’economia, forse prima di quelle della politica, porteranno a scelte più lungimiranti e di maggiore integrazione.
Un tema importante che ritorna anche nel Piano Metropolitano è quello dell’affrontare le transizioni. In questo ambito voi avete alcune progettualità specifiche?
Rita Ghedini: Sì. Lo dicevo prima richiamando la seconda edizione di “ecooS.lab”. Stiamo svolgendo da qualche anno un lavoro faticoso, ma che ci sembra stia dando frutti, ovvero quello di accompagnare le cooperative nella transizione digitale. Si tratta di un lavoro su più piani, informativo, formativo, quasi cognitivo, perché riteniamo che gli apprendimenti e le progettualità necessarie per approcciare la transizione digitale, non siano solo di natura tecnica, ma anche di natura culturale e politica, e riguardino un diverso modo di pensare e di approcciare la realtà, che ha che fare con i sistemi umani, quindi con le relazioni tra le persone. Abbiamo diversi progetti, alcuni sviluppati con l’Università di Bologna, scalati anche a livello nazionale; la collaborazione con IFAB, con le strutture tecnologiche, e con le reti scientifiche del Tecnopolo per portare avanti sia la formazione che la concreta sperimentazione dei processi di transizione digitale, per cui il Tecnopolo sta diventando un punto di riferimento a livello europeo e mondiale.
L’altro tema è quello delle sfide per la sostenibilità, dove stiamo operando con percorsi integrati. Molte delle scelte per ridurre l’impatto ambientale e generare soluzioni vantaggiose passano attraverso la tecnologia; quindi, anche qui con le tecnologie digitali c’è un livello di integrazione molto forte e vediamo le nostre cooperative sempre più ingaggiate. Poi c’è il grande tema del lavoro. Oggi siamo relativamente poco preoccupati del fatto che l’economia digitalizzata possa portare ad una perdita di lavoro, perché riteniamo che la transizione digitale possa generare nuova offerta. Come è ben noto, siamo da quasi tre anni in una fase in cui la domanda di lavoro supera largamente l’offerta. C’è senz’altro un tema di possibile spiazzamento delle competenze su cui stiamo lavorando e investendo risorse, per il cosiddetto upskilling e reskilling delle occupate e degli occupati, che è centrale. La maggiore fatica la vediamo nell’acquisizione dei diritti digitali dei lavoratori. La normativa europea è una delle più avanzate, ma la sua traduzione in pratica in certi settori deve fare ancora molta strada. Le prime sperimentazioni che abbiamo fatto finora non sono riuscite a scalare e sono rimaste, purtroppo, solo degli episodi. Inoltre, sul tema dei diritti digitali dei cittadini il regolatore si sta cimentando, e anche lì la traduzione in pratica è potenzialmente foriera di sviluppi imprenditoriali interessanti, ma con i modelli partecipati è molto difficile. Abbiamo a che fare con una concentrazione enorme del potere digitale. Esistono il modello delle cooperative di dati e delle cooperative di utenti digitali, che per adesso sono ancora realtà episodiche; c’è molto lavoro da fare per scalare a dimensioni significative per creare una vera alternativa.
Dei temi specifici particolarmente rilevanti e interessanti del Piano, il primo, ovviamente, è quello dell’abitare. Che riflessioni avete fatto su questo tema e che contributo avete dato?
Rita Ghedini: Recentemente ho partecipato a un’assemblea di una cooperativa di abitazioni a proprietà indivisa. Il tema è caldissimo. Non perdo tempo nel dire quale sia la condizione di bisogno, come ho avuto modo di dichiarare già più volte, il diritto all’accesso alla casa oggi si configura per il nostro territorio metropolitano, in particolare per la città di Bologna, non più e non soltanto come un diritto individuale, ma come un elemento che condiziona lo sviluppo territoriale, delle imprese, anche di quelle cooperative, e come tema di coesione sociale e territoriale. A diversi livelli noi abbiamo fatto delle proposte, dal livello territoriale a quello europeo, di collaborazione e di partnership pubblico-privato. L’accesso alla casa in affitto secondo modelli cooperativi significa l’accesso agli alloggi realizzati e gestiti dalla cooperazione fra abitanti a proprietà indivisa, così come l’accesso ad un mercato per l’acquisto della casa però a prezzi accessibili ai redditi medi, assumendo che i redditi medio-bassi possano orientarsi più all’affitto, oggi richiede necessariamente la messa a disposizione di progettualità e di risorse pubbliche e private.
Il nostro modello è quello della cooperativa fra abitanti, che per moltissimi decenni ha realizzato l’offerta per questo target sul territorio nazionale, in particolare al Centro e al Nord del nostro Paese. A Bologna sono ancora circa 4.000 gli alloggi gestiti in questo modo e migliaia costruiti e ceduti ai soci a prezzi inferiori alle medie di mercato ma, con poche eccezioni che riguardano anche in questo caso degli episodi, sono almeno dodici anni che non si realizzano nuovi insediamenti, perché è sparita una programmazione pubblica sulla base della quale, nel corso dei decenni, si è sviluppata anche l’iniziativa della cooperazione. Manca a livello nazionale da quasi trent’anni, con l’unica eccezione dell’episodio di un piano finanziato se non ricordo male con 5 miliardi nel 2008 per il social housing. Manca da almeno due lustri un piano regionale, e purtroppo le amministrazioni locali non hanno le risorse adeguate. Il Comune di Bologna, dal canto suo, ha rimarcato la volontà di adottare e di alimentare anche finanziariamente un piano territoriale per l’abitare. Lo strumento cooperativo, se può contare sull’utilizzo di aree pubbliche e di contributi pubblici finalizzati alla realizzazione di alloggi che siano di fatto un patrimonio indivisibile, quindi a tutti gli effetti abbiano le caratteristiche della pubblica utilità e del pubblico interesse, è disponibile e interessato non solo a gestire, ma anche a cofinanziare. Abbiamo presentato, a questo proposito, un piano in sede europea, interessando la Banca Europea degli Investimenti, per cofinanziare la realizzazione di 20.000 alloggi a livello nazionale. Facendo perno su un’esperienza molto importante si può lavorare seriamente, ma serve, anche in queste casi, una collaborazione strettissima fra pubblico e privato e un’iniziativa che non sia contigua, ma comune.
Per quanto riguarda invece il tema del lavoro dignitoso e inclusivo?
Rita Ghedini: A Firenze abbiamo tenuto la nostra assemblea di metà mandato che porta il titolo “Un buon lavoro”, è un titolo con due significati: rendicontiamo due anni di lavoro del mandato, ma parliamo anche di tutto quello che abbiamo fatto in questi due anni per migliorare la qualità del lavoro cooperativo. Ci siamo impegnati sul rinnovo dei contratti di lavoro con un investimento importante e un numero di contratti rinnovati in due anni che non ha precedenti; ci stiamo impegnando sulle risorse integrative al reddito e sul welfare contrattuale, sulla previdenza e sulla sanità integrativa, con alcune necessità assolute nella relazione con il pubblico, in primis a livello nazionale.
Abbiamo presentato, insieme ad altre 19 organizzazioni di rappresentanza, il manifesto per il lavoro nei servizi, condiviso anche da organizzazioni private non cooperative, perché la cooperazione di servizi è cooperazione di lavoro. Siamo contrari alla scelta di distinguere le modalità per la revisione dei prezzi nei contratti pubblici per i lavori e per i servizi, con una penalizzazione enorme per i servizi, per cui sostanzialmente non è riconosciuto l’incremento del costo del lavoro. Non entro in dettagli tecnici, ma questa è una battaglia di primaria importanza. Un’altra battaglia di primaria importanza è quella per l’appunto sulla modalità di collaborazione, e qui torniamo al tema del public procurement come leva di sviluppo e di qualificazione del rapporto tra pubblico e privato: servono una programmazione a lungo termine e degli strumenti condivisi per un investimento comune e corresponsabile in tutti gli ambiti che rientrano nel perimetro dei servizi di pubblica utilità e di pubblico interesse, che sono ambiti ad alta intensità di lavoro. Chi gestisce queste attività di servizio insieme alla pubblica amministrazione deve avere la possibilità di programmare a lungo termine e di escludere qualsiasi meccanismo di definizione dei contratti che non riconosca il valore del lavoro in quell’ambito. C’è, infine, un tema culturale per cui gli strumenti che descrivevo prima sono il puntello economico e sociale di recupero del valore del lavoro, in generale, e del valore del lavoro nell’ambito dei servizi e dei servizi alla persona. Non è accettabile che attività sostanziali per la qualità della vita delle persone e delle comunità – l’assistenza sanitaria, l’assistenza per la non autosufficienza, il lavoro educativo, i lavori nei i servizi essenziali, la pulizia, l’igiene pubblica, i trasporti – non abbiano una valorizzazione sociale tale da sostenerne anche una valorizzazione economica adeguata. La nozione di lavoro nella vita delle persone è molto indebolita e ciò richiede a tutti noi uno sforzo per capire quali siano gli elementi attraverso i quali le generazioni più giovani possano trovare nel lavoro non solo un elemento di sostentamento economico, ma anche un elemento di senso, di valore, e di realizzazione personale.
Più in generale, come è necessario agire sul tema del welfare e sul welfare di prossimità?
Rita Ghedini: La grande questione del welfare è quella della riprogettazione di un modello che tenga conto in maniera strutturale del cambiamento demografico. Ciò significa non solo occuparsi della curva di invecchiamento della popolazione, ma anche delle politiche migratorie, di quelle per l’abitare, della salute e del miglioramento delle condizioni di lavoro. Noi dobbiamo pensare agli strumenti di welfare in funzione di una società più anziana, ma anche potenzialmente più integrata, in cui l’integrazione implica il confronto tra culture diverse e un’idea di invecchiamento che non ha più a che fare solo con l’assistenza, ma con il tema dell’invecchiamento attivo e della partecipazione attiva delle coorti più adulte e anziane alla vita sociale ed economica. Il dato di incremento degli occupati oggi è composto anche dal trattenimento al lavoro delle coorti più anziane e questo cambia i modelli di organizzazione sociale e del lavoro. Finché non ci convinceremo tutti che le politiche di welfare sono uno strumento di politiche industriale non riusciremo a modificare il nostro modello di sviluppo in una direzione sostenibile.