Scritto da Robert Burghiu
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Spesso le tecnologie appartenenti agli ecosistemi digitali vengono presentate come forze trasformative inevitabili, che promettono progresso universale mentre in realtà nascondono interessi economici specifici che hanno il potere di amplificare le disuguaglianze già esistenti. In questa intervista a Gabriele Balbi, professore di Media Studies all’Università della Svizzera italiana e autore del libro L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale (Laterza 2022), discutiamo dell’intelligenza artificiale come evoluzione non neutrale della rivoluzione digitale, analizzando quel processo di influenza reciproca che definisce il rapporto uomo-tecnologia.
La rivoluzione digitale ha rappresentato un radicale cambio di paradigma per la società contemporanea. In questo nuovo contesto, quali figure hanno avuto l’opportunità di emergere e, soprattutto, di assumere ruoli di leadership?
Gabriele Balbi: In L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale parlo della rivoluzione digitale come di quell’idea che ci troviamo a condividere in maniera pressoché generalizzata: l’idea è quella di vivere un momento della storia umana profondamente diverso rispetto al passato, perché la digitalizzazione ha cambiato tutto. Questa idea si presenta come totale, globale, capace di coinvolgere l’intero genere umano, o almeno la gran parte. Quanto questa idea sia vera non è oggetto della mia analisi, ragiono piuttosto sul fatto che venga riproposta o narrata in modi diversi almeno a partire dagli anni Quaranta del Novecento. Come ogni rivoluzione, anche quella digitale ha dei mantra e dei protagonisti specifici. Ciò che è interessante è il fatto che queste figure hanno da un lato un potere politico, dall’altro una funzione quasi religiosa, simile a quella che evangelisti, santi patroni e guru – come appunto li definisco – ricoprivano in passato. Si tratta essenzialmente di capitalisti emersi da un contesto ben specifico: gli anni Settanta, la California, la Silicon Valley, che non era ancora quel luogo della terra così simbolico per la tecnologia ma lo sarebbe diventato a partire dagli anni Novanta. Questi oggi sono tra gli uomini più ricchi del mondo, ma se guardiamo a 30, 40 o 50 anni fa le persone più ricche della Terra non facevano parte del mondo della comunicazione, anche perché la digitalizzazione era agli inizi. Questo cambiamento ha un forte significato, perché mostra che il potere che hanno queste figure non è solo economico, ma anche e soprattutto simbolico: oggi questi personaggi sono ammirati dal pubblico di massa per la loro capacità di creare e gestire grandi patrimoni attraverso una costante innovazione. Un altro aspetto che sottolineo è che si tratta, in genere, di maschi bianchi americani, e quando non sono americani chi emerge nel settore digitale aspira comunque al modello creato dall’ideologia della Silicon Valley e tenta di ripeterlo e ricrearlo.
Nell’arena digitale vediamo il potere manifestarsi in forme e modalità differenti, che non sono sempre immediatamente riconoscibili, e ancor meno prevedibili. In che misura queste nuove forme di esercizio del potere stanno ridisegnando le relazioni sociali e politiche che conosciamo?
Gabriele Balbi: Molte delle battaglie politiche contemporanee si giocano sui social network, ma non penso che siano questi a far vincere direttamente le elezioni, così come in passato non è stata la televisione a farlo, e decenni di ricerca storica lo hanno chiaramente dimostrato. Non c’è un determinismo tecnologico per cui la piattaforma ha un impatto diretto sulla politica ma ci sono alcune dimensioni importanti da considerare. In primo luogo, miliardi di persone oggi si informano attraverso i social. Il Reuters Institute nel 2024 ha pubblicato un interessante report dal quale emerge che il 60% delle persone intervistate non crede alle notizie a cui è sottoposto, ma la cosa forse più interessante è che il 40% afferma di evitare di informarsi del tutto. È un dato straordinariamente rilevante, perché il modo in cui le persone si informano è collegato con le decisioni che prendono, e questo è cruciale dal punto di vista politico. Sono d’accordo nel vedere l’arena digitale come un’arena di potere, però resta da capire bene di quale tipo di potere si tratti. Considerando che miliardi di persone evitano di esporsi alle notizie o non credono a ciò che leggono non la definirei un’arena informativa, bensì un’arena – come la chiamano molti studi – di intrattenimento, di gioco e purtroppo di disinformazione. Oggi c’è un discorso nuovo e complesso sugli influencer e sull’influencing. L’influenzatore non è un mestiere “nuovo”, esisteva anche in passato, ma il contesto digitale l’ha trasformato come scrive bene Gabriella Taddeo in Persuasione digitale. Se per gerarchie intendiamo quelle dei social media possiamo far riferimento ad alcune teorie della comunicazione degli anni Quaranta e Cinquanta, come il modello del flusso di comunicazione a due fasi, che ci mostra come gli opinion leader indirizzavano le persone allo stesso modo di come fanno oggi gli influencer. Se invece parliamo di gerarchie in termini di fruizione mediatica e di “diete mediatiche” è chiaro che sempre più persone si stanno spostando dall’uso dei media tradizionali, come stampa, radio o televisione, verso i social media, e altrettanto fanno gli investitori pubblicitari. Sulle gerarchie politiche, che potrebbero rappresentare il terzo punto, c’è un’oscillazione di opinioni, nel senso che da sempre il potere tecno-economico ha flirtato con il potere politico. In fondo, i milionari delle Big Tech sono sempre stati presenti alle inaugurazioni presidenziali statunitensi, anche quando ad essere eletti erano dei democratici. Il capitalismo della Silicon Valley non ha un proprio partito politico, ma persegue interessi politici che si manifestano e si ridefiniscono progressivamente. Fino a un decennio fa, la Silicon Valley si credeva saldamente schierata a sinistra, in un’area più progressista, mentre oggi ha avuto uno spostamento quasi di massa verso la destra, anche estrema. Un chiaro segnale di come queste figure si muovano nella direzione che segue il potere politico. Ci sono però delle differenze. Il “modello Zuckerberg” segue e si adegua perfettamente al potere: sotto Biden promuove l’informazione pro-vaccini, per poi rivedere la propria posizione con Trump. Il “modello Musk”, invece, è un modello nuovo, in cui emerge l’ambizione ad agire da un punto di vista politico esponendosi in prima persona. È un modello nuovo per i social, ma non lo è per la comunicazione in generale; nel contesto televisivo italiano Berlusconi per decenni ha mescolato potere mediale e potere politico.
Si dice che la rivoluzione digitale ha coinvolto in maniera totalizzante ogni aspetto della nostra vita quotidiana: tempo libero, istruzione, lavoro, interazioni sociali. Come possiamo interpretare questo passaggio così rapido al digitale? Si tratta di un’adesione volontaria, di una “strategia di sopravvivenza”, o di una forma di coercizione?
Gabriele Balbi: La rivoluzione digitale è stata presentata con molta enfasi come un cambiamento epocale, ed è forse una delle prime volte nella storia che un cambiamento viene presentato come rivoluzionario mentre lo si sta vivendo. Il fatto che nessuno metta in discussione che si tratti di una rivoluzione è piuttosto indicativo; tutti riconoscono di vivere in tempi molto diversi rispetto a 50 o a 20 anni o anche solo 10 anni fa. Un aspetto importante è però che la rivoluzione digitale ha coinvolto solo una parte della popolazione mondiale. Non si tratta semplicemente della differenza tra chi è stato toccato dalla rivoluzione e chi no, che rappresenta solo il primo livello di digital divide. Il secondo e terzo livello ci mostrano che anche chi è al suo interno può non essere in grado di trarne un vero beneficio, e che la disponibilità di una rete Internet non trasforma automaticamente i contenuti online in conoscenza pratica, spendibile nella vita di tutti i giorni. Naturalmente c’è un elemento geografico rilevante: alcune zone del mondo hanno più possibilità, altre meno. Inoltre, esistono governi repressivi che sfruttano il digitale per controllare, zittire e indirizzare i loro cittadini. Per tornare alla domanda, direi che si tratti soprattutto di un’adesione volontaria. È vero che l’ideologia della rivoluzione digitale ci porta a considerare la digitalizzazione come un processo inevitabile verso cui tutti dobbiamo tendere, ma noi abbracciamo volontariamente i dettami di questa rivoluzione perché ci semplifica la vita, ci distrae, ci permette di riempire i tempi morti scorrendo contenuti e interagendo con le piattaforme digitali. Anche il fatto che tutti sembrano concordare sull’essere nel mezzo di una rivoluzione mi fa escludere l’idea che si tratti di una coercizione. Certamente, questa rivoluzione è stata spinta da un punto di vista imprenditoriale e finanziario, come si diceva, perché è nell’interesse di molte aziende che noi interagiamo sempre più coi social network e che compriamo i loro prodotti digitali, per cui c’è un chiaro interesse economico. In fondo, però, abbracciare questa rivoluzione è un interesse condiviso da tutti noi, perché ci rende più connessi, ci permette di comunicare costantemente con gli altri, ci fa sentire sempre a casa. Non c’è coercizione in questo senso, ma piuttosto un lavoro narrativo che da decenni ci racconta di vivere in un’epoca di grande trasformazione, e questo lavoro funziona così bene anche perché altre ideologie e altre visioni – politiche, filosofiche, religiose – sono in crisi, e a differenza di queste la rivoluzione digitale ti fa sentire parte di essa ma non ti chiede dei sacrifici particolari né una fedeltà assoluta.
Abbiamo visto come molti dei grandi protagonisti della rivoluzione digitale sono figli dell’ideologia californiana della Silicon Valley. Nello scenario internazionale è ancora l’Occidente a tirare le fila di questa rivoluzione?
Gabriele Balbi: Se osserviamo le tendenze degli ultimi decenni vediamo un processo di “asianizzazione” dei contenuti, delle modalità d’uso da parte degli utenti e delle stesse piattaforme digitali. Pensiamo a TikTok, Temu, Alibaba e ad altre piattaforme simili, ma anche a fenomeni culturali come il K-pop. Quindi no, non credo che l’Occidente guiderà l’Oriente. Anzi, nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad una tendenza opposta: molte piattaforme e molte tendenze che sembravano non poter arrivare in Occidente si sono invece affermate e rimangono tutt’ora solide. Ricordo ancora quando un decennio fa in Cina ero stupefatto dai messaggi vocali via WeChat e scettico che questi potessero imporsi anche in Occidente. Mi sbagliavo. Certamente ci sono anche tendenze opposte: se guardiamo l’ecosistema digitale globale e la forza delle grandi aziende del settore, le prime società per capitalizzazione di mercato legate alla digitalizzazione nel 2024 sono americane. Le aziende americane sono ancora al centro di questo gioco, in cui l’Europa non è presente, ma più che un dominio dell’Occidente sull’Oriente vediamo piuttosto due modelli distinti, quello americano e quello asiatico (cinese principalmente), che sono entrati progressivamente in frizione e che si stanno scontrando sotto tanti punti di vista. Sicuramente un piano di questa guerra digitale è quello politico-economico: negli Stati Uniti si discute se bloccare o meno TikTok, mentre la Cina ha già bloccato tutte le app straniere e ha creato le proprie. Un nuovo terreno di scontro riguarda le infrastrutture, in particolare i cavi sottomarini, attraverso cui passa oltre il 90% del traffico Internet globale, e per non passare dai cavi americani la Cina ha costruito una rete propria. Se c’è però un lascito dell’ideologia californiana è proprio l’idea della digitalizzazione come orizzonte e come modello da seguire, un aspetto che ha portato molti Paesi a provare a imitare gli Stati Uniti o, per lo meno, a prenderli come ispirazione, tanto che anche in Nigeria, un grande Paese in ascesa nei settori del digitale e delle comunicazioni – e in futuro potremmo trovare proprio qui le basi per la costruzione di un terzo polo africano – le figure di riferimento restano quelle dei grandi innovatori americani: Bill Gates, Steve Jobs, Elon Musk.
Ci sono degli ambienti o dei settori che stanno opponendo resistenza a questa rivoluzione o che faticano a adattarsi alle logiche di un mondo digitalizzato? Quale potrebbe essere il loro futuro?
Gabriele Balbi: Attualmente ci sono alcuni settori che hanno largamente beneficiato della digitalizzazione, orientando i loro modelli di business verso questa direzione. Pensiamo ai settori della comunicazione, della musica, dell’intrattenimento audiovisivo; ma anche al mondo dell’istruzione e del lavoro. Accanto a questi settori, in cui la digitalizzazione ha avuto un impatto in positivo, possiamo trovare anche alcune resistenze. Per esempio, la vendita di vinili oggi ha toccato il punto più alto degli ultimi quindici anni. Questo è un esempio di una resistenza di un settore che è ritornato all’analogico quando il suo futuro sembrava essere completamente digitalizzato, e lo stesso si può dire per la fotografia. Una prima forma di resistenza è quindi questo ritorno all’analogico come una realtà considerata più “autentica” rispetto al digitale. Un secondo fenomeno rilevante, su cui in Italia stanno lavorando autori come Piermarco Aroldi, Francesca Pasquali e Barbara Scifo (loro è un capitolo nel nuovo companion di media studies Studiare i media recentemente uscito per Carocci), è la disconnessione digitale. Un numero crescente di giovani oggi decide di allontanarsi momentaneamente dai social per provare a recuperare un senso di benessere mentale, e questo ci mostra una certa insofferenza percepita dalle fasce più giovani della popolazione nel vivere in questo universo digitale. Una terza categoria spesso trascurata è quella delle persone anziane. Con la dottoranda Petra Mazzoni all’USI di Lugano stiamo analizzando l’uso dei media tra gli over 65 e stanno emergendo aspetti piuttosto interessanti. Un piccolo esempio: non ci riflettiamo, ma gli smartphone contemporanei non sono adeguati alle dita delle persone anziane, che spesso faticano nell’adoperarli, e il loro uso non è sempre intuitivo, e questo li porta a sentirsi tagliati fuori dalla rivoluzione digitale. Non si tratta propriamente di una categoria che resiste, ma certamente non viene inclusa dalla digitalizzazione contemporanea. Infine, un’ultima categoria di resistenza è rappresentata dai media tradizionali, che spesso tendono a dipingere i media e le piattaforme digitali come problematici e ad associarli a fenomeni di dipendenza. Questa demonizzazione è dovuta anche, e soprattutto, a motivi economici: con la digitalizzazione gli investitori pubblicitari si sono spostati dai media tradizionali verso le nuove piattaforme. È interessante vedere come negli ultimi anni si sia creata una polarizzazione di opinioni tra chi considera la digitalizzazione come un fenomeno positivo e ne evidenzia le utilità e le potenzialità, e chi invece demonizza il fenomeno e i suoi strumenti. Tuttavia, nonostante il termine “dipendenza” venga comunemente usato tra queste posizioni, non esistono studi che dimostrano clinicamente e in maniera inequivocabile una dipendenza dallo smartphone.
L’intelligenza artificiale è sempre più spesso al centro del dibattito sulla rivoluzione digitale. Che ruolo potremmo attribuire all’IA all’interno di questa rivoluzione? È una molla del processo, un carburante, o un prodotto?
Gabriele Balbi: Ho scritto L’ultima ideologia prima del boom di ChatGPT; quindi, nel libro non si troveranno molti riferimenti all’intelligenza artificiale – di più ce ne sono nell’adattamento e traduzione inglese The Digital Revolution per Oxford University Press. Vorrei però sfidare i lettori a fare un piccolo esercizio se e quando vorranno leggere il mio libro: sfogliare le pagine e sostituire alcuni termini o alcune tecnologie con la parola “intelligenza artificiale”. Sorprendentemente, il discorso funzionerà perfettamente e il senso rimarrà spesso invariato. Quello a cui assistiamo oggi è il bisogno della next big thing, la prossima grande novità che promette di rivoluzionare il mondo, e anche l’intelligenza artificiale può essere inquadrata in questa logica. Nel mio libro utilizzo la metafora del serpente che muta continuamente lo strato superficiale della pelle affinché resti elastica, ma non cambia nella sua essenza di serpente. Lo stesso vale per il capitalismo digitale: al di là delle trasformazioni apparenti, gli interessi di fondo rimangono invariati. Non a caso, molte delle aziende oggi protagoniste dello sviluppo dell’intelligenza artificiale sono le stesse che hanno dominato la digitalizzazione negli ultimi decenni, come Microsoft, Google, Meta, Apple o Amazon. Certo, ci sono nuovi attori, in particolare in Cina, ma nella maggior parte dei casi sono sempre le stesse aziende che hanno investito su molteplici futuri possibili, e l’intelligenza artificiale è uno di quelli che ora si sta realizzando.
A volte sembriamo dimenticarci che l’intelligenza artificiale è un prodotto dell’uomo, e tendiamo a considerarla come un’entità estranea. Da cosa potrebbe derivare questa percezione?
Gabriele Balbi: Anche in passato ci siamo dimenticati che certe tecnologie erano prodotti umani. È successo con Internet, per esempio. A volte la tecnologia ci sembra una forma di magia, ma in fondo la storia della comunicazione è piena di magia, pensiamo per esempio a quando Guglielmo Marconi, tra Ottocento e Novecento, riuscì a trasmettere segnali senza fili. Oggi accade qualcosa di simile con l’intelligenza artificiale. Kate Crawford in Né intelligente né artificiale mette in luce il lavoro umano necessario per allenare l’intelligenza artificiale, evidenziando che spesso nell’IA non c’è nulla di “intelligente” o di “artificiale”: le decisioni algoritmiche sono prodotti da scelte umane, e spesso i bias umani si trasferiscono nell’intelligenza artificiale, come quando le risposte di ChatGPT presentano bias di genere o di razza. Quindi chi presta un po’ più attenzione riconosce immediatamente di star parlando con una macchina. Però, e questo non riguarda solo ChatGPT ma in generale il rapporto che abbiamo con la digitalizzazione, noi “sentiamo” di parlare con delle persone. Paolo Bory ha scritto un bellissimo articolo divulgativo che si intitola Bambini artificiali, sul fatto che tendiamo a trattare l’intelligenza artificiale come un bambino: la mettiamo alla prova, le chiediamo di ripetere, la correggiamo con frasi come “forse non hai capito bene” o “ripeti in modo più semplice”. Trovo interessante questa infantilizzazione dell’IA. Anche la mediazione vocale di questi dispositivi, tra l’altro con voci soprattutto femminili, attenua la sensazione di avere a che fare con delle macchine. Noi chattiamo con l’IA, interagiamo attraverso forme umane di comunicazione, e questo contribuisce a dare l’illusione che ci sia una persona dall’altra parte, e di conseguenza a intrattenere discorsi tipicamente umani. Questa percezione deriva anche da una narrativa fantascientifica ottocentesca e novecentesca incentrata sul rapporto tra esseri umani e macchine, e rileggendo alcuni testi del secolo scorso vediamo come molte delle idee che questa letteratura ha proposto sembrano essersi realizzate. Se pensiamo ad un classico della fantascienza come Blade Runner, tratto da un romanzo di Philip Dick, vediamo come già lì era presente l’idea di ChatGPT: il test di Turing, che serviva a mettere alla prova gli androidi e capire se fossero come gli esseri umani. Il non distinguere tra uomo e macchina ha da sempre stuzzicato la fantasia sia degli scienziati che degli scrittori. Che l’intelligenza artificiale sia un prodotto umano lo sappiamo bene, che ci interessi che sia un prodotto umano è un altro discorso. Le persone non sono ingenue, sanno perfettamente che si tratta di una macchina con i propri limiti e bias, e proprio per questo li mettono alla prova. Ma, come quando facciamo una ricerca su Google, tendiamo comunque a fidarci dei primi risultati mostrati, perché spesso il tempo è limitato e non siamo sempre portati ad approfondire e a mettere in discussione.
Spesso si sente dire che l’intelligenza artificiale è l’invenzione che determinerà il passaggio verso una nuova fase dell’umanità. È davvero così secondo lei?
Gabriele Balbi: Sì, ma lo è stato per molte altre tecnologie: la ruota ha rivoluzionato i trasporti e i commerci, la scrittura ha trasformato il rapporto che l’uomo ha con la cultura e il sapere, il telegrafo e il telefono hanno permesso di abbattere le distanze fisiche, la rete elettrica ha reso possibili innovazioni di cui ormai nemmeno ci accorgiamo per quanto la diamo per scontato (risulta chiarissimo durante i blackout però), e l’intelligenza artificiale non è un’eccezione. Non ci sono tecnologie ed esseri umani separati, questo lo insegnano gli studi sulla storia della tecnologia, che descrivono questo rapporto come un mutual shaping, cioè un’influenza reciproca: una stessa tecnologia può essere impiegata per usi e fini completamente diversi, e allo stesso tempo il suo uso cambia l’essere umano che la impiega. Quando si tratta della maniera con cui queste tecnologie vengono impiegate bisogna però stare attenti nel considerarle neutrali. Lo storico Melvin Kranzberg, nella prima delle sue sei leggi sulla tecnologia sostiene che: «La tecnologia non è né buona né cattiva; non è neanche neutrale». Un coltello, per esempio, non è di per sé buono o cattivo, ma non è nemmeno uno strumento neutrale, perché il semplice fatto di possederlo offre un certo empowerment a chi lo utilizza, un fattore che spesso ha portato l’essere umano ad essere più cattivo che buono. Ma al tempo stesso, per esempio, ha portato a tagliare i cibi e quindi a nutrirsi in maniera più semplice, a digerire meglio, a proteggere anche la dentatura. Non possiamo semplicemente classificare una tecnologia come positiva o negativa in assoluto, ma allo stesso tempo non possiamo nemmeno considerarla neutrale. Ogni tecnologia ha una sorta di agency interna, poi chiaramente sono le persone a decidere come impiegarla e quali sono i suoi limiti.
Ripercorrendo lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, è possibile prevedere l’evoluzione di questa tecnologia?
Gabriele Balbi: Direi di no, anche se all’inizio del boom di una tecnologia si fanno comunque tante previsioni. Negli anni Novanta non si sarebbe mai pensato di poter navigare su Internet attraverso i cellulari, eppure oggi è la normalità. Questo perché le tecnologie cambiano, e ciò che viene introdotto come un’invenzione diventa un’innovazione quando le persone la fanno propria e le attribuiscono un uso. Una tecnologia di per sé non vuol dire nulla, ChatGPT di per sé non vuol dire nulla, sono le modalità con cui usiamo ChatGPT a cambiare ChatGPT. Qui all’USI di Lugano, per esempio, ci chiediamo se all’università ha ancora senso richiedere che si scriva una tesi, sapendo che gli studenti usano ChatGPT per farlo. E allora cosa fare? Proibirne l’uso sarebbe come proibire la macchina da scrivere o il computer. Dobbiamo invece andare verso un uso consapevole. La rivoluzione digitale ha avuto un impatto notevole sul sistema scolastico, ed è evidente che continuerà ad averlo. Spesso non ce ne rendiamo conto, ma l’intelligenza artificiale ha già modificato molti aspetti della nostra vita quotidiana: le riunioni di lavoro online che funzionano bene anche grazie alla IA, il correttore automatico nelle tastiere dei nostri telefoni, le auto a guida autonoma… Diciamo che l’intelligenza artificiale ci fa paura, ma in realtà la utilizziamo già decine di volte al giorno senza nemmeno accorgercene. Tra qualche anno il termine apparirà banale, così come avvenuto per altri termini-hype del passato come radio, cyber (da cibernetica) e molte altre. Solo allora, probabilmente, lasciando da parte tutto il sensazionalismo positivo o negativo, riusciremo a studiarla e capirla meglio.