Lavoro sociale, welfare e diritti universali. Intervista ad Andrea Morniroli
- 14 Giugno 2025

Lavoro sociale, welfare e diritti universali. Intervista ad Andrea Morniroli

Scritto da Daniele Molteni

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Andrea Morniroli è Co-coordinatore nazionale del Forum Disuguaglianze e Diversità e socio della cooperativa sociale Dedalus.


Negli ultimi anni la frammentarietà del welfare, in Italia come altrove, è diventata sempre più evidente. È anche il risultato della crisi della globalizzazione, che ha aggravato le disuguaglianze preesistenti e ne ha generate di nuove. Qual è oggi il contesto? E in che modo l’economia sociale può contribuire a trasformare interventi isolati in politiche strutturali e sistemiche?

Andrea Morniroli: Il contesto attuale è segnato da una profonda contraddizione: le dinamiche sociali spingono verso un aggravarsi delle disuguaglianze, della povertà e della complessità del disagio, mentre le politiche sembrano muoversi nella direzione opposta. Oggi è raro incontrare situazioni di fragilità riconducibili a una sola causa, perché le biografie individuali e collettive sono segnate da intrecci di fattori che richiederebbero un welfare capace di farsi carico di questa complessità, con risposte articolate e interconnesse. Invece, assistiamo a un progressivo disinvestimento nel welfare, che non è solo economico ma prima di tutto culturale e politico. Lo Stato sembra rinunciare al proprio ruolo di garante dei diritti, arretrando su tre fronti. Il primo si basa sulla proposta di un welfare puramente contenitivo, che non punta più a risolvere i problemi delle persone, ma a gestirle nel modo più efficiente possibile. Un esempio lampante è la gestione delle politiche migratorie. Si tagliano i servizi dedicati all’inclusione e all’integrazione territoriale, e si investe invece nei centri straordinari e nei CPR, strutture pensate per contenere, non per accompagnare verso l’autonomia. Il secondo fronte è la mercificazione del disagio, dove lo Stato si piega al mercato e cede porzioni crescenti di intervento sociale e sanitario a logiche di profitto. Il terzo è un mutamento del senso comune, per cui povertà e disagio vengono sempre più spesso colpevolizzati o addirittura criminalizzati. Basti pensare alle narrazioni sui migranti, sulle persone con dipendenze, sui senza fissa dimora o sui soggetti in condizione di marginalità.

In un contesto sempre più complesso, invece di far evolvere il welfare si preferisce un approccio residuale, delegando larga parte della presa in carico alle famiglie (ritorno a un welfare familistico) o al mercato. È in questo scenario che l’economia sociale – e in particolare la cooperazione – si trova immersa in una sorta di tempesta perfetta. Serve, ora più che mai, superare derive tecnicistiche o prestazionali, e provare a costruire, attraverso le pratiche, un’alternativa concreta che tenga conto della complessità e proponga modelli diversi. Per riuscirci, occorre “sconfinare” dai settori tradizionali e intrecciarsi con altre energie e risorse. Non è solo il mondo sociale a lavorare per costruire alternative a livello locale. Bisogna dialogare con altri soggetti, rovesciare la prospettiva, e immaginare un nuovo modo di essere all’altezza della complessità. La difficoltà di fondo è che queste sperimentazioni, spesso sviluppate a livello territoriale, faticano a trovare sponde politiche. Quando le istituzioni non accolgono – se non addirittura ignorano – il lavoro innovativo che si fa nei territori, il rischio è che ciò che si costruisce resti “straordinario”, e non diventi sistemico. Senza una politica che accompagni il cambiamento non si interviene sulle cause profonde delle disuguaglianze.

 

I soggetti dell’economia sociale sono spesso relegati – anche dalle politiche pubbliche – al ruolo di meri esecutori. Come si può superare questa logica?

Andrea Morniroli: Le politiche pubbliche hanno un ruolo decisivo, in quanto possono orientare, incentivare o scoraggiare determinati approcci. Se si continuano a proporre bandi al massimo ribasso, se il pubblico si limita ad assegnare compiti senza co-progettare, se si rinuncia a una vera integrazione tra pubblico e privato, allora si alimenta una cultura della prestazione che riduce i soggetti sociali a semplici erogatori di servizi. In questo scenario, anche pratiche inaccettabili possono diventare parte del “servizio”: se per paradosso, ma forse neanche tanto, un bando includesse, ad esempio, la somministrazione di sedativi ai migranti per tenerli tranquilli in un CPR, chi aderisce a quella logica finirebbe per accettarla, perché anche quella è tutto sommato una prestazione. Insomma, se queste politiche sono le politiche pubbliche certo non promuovono buona economia sociale ma al contrario favoriscono l’infiltrazione di quelle derive che alimentano l’invasività di cooperative fittizie, organizzazioni che mascherano il profitto dietro il sociale, insieme alla produzione di logiche di collusione e criminalità.

Detto questo, una precisazione. Lavoro nel sociale da 43 anni, 35 dei quali nella cooperazione, e se da un lato non ho mai esitato a denunciare le derive del settore, dall’altro rivendico con orgoglio il lavoro serio e coerente che tante cooperative continuano a portare avanti. Non accetto la narrazione semplicistica che divide tra “buoni” e “furbi”, tra chi fa del bene e chi specula. C’è ancora una parte significativa del mondo cooperativo che resiste e pratica alternative. Però, se vogliamo chiedere al pubblico di riconoscere la nostra funzione come attori, dobbiamo essere all’altezza della sfida. E questo significa almeno tre cose. Prima di tutto che dobbiamo essere imprese capaci di tenere in equilibrio la dimensione economica con quella valoriale. Se pendiamo troppo da una parte o dall’altra, perdiamo senso e rischiamo di diventare complici della privatizzazione dei servizi. Un secondo aspetto rilevante è che dobbiamo lavorare con le persone, non per loro. Il nostro compito è restituire potere, voce e protagonismo, non trattenerli. Terzo, ci vuole coerenza tra i modelli democratici che proponiamo all’esterno e quelli che pratichiamo all’interno delle nostre organizzazioni. Solo così possiamo ripensarci in una dimensione politica e culturale, riaprire vertenze con le istituzioni, e contribuire a creare le condizioni per politiche capaci di cambiare davvero il contesto. Mi riferisco a leggi che hanno fatto la storia e a interventi che non si sono limitati a rispondere a dei bisogni, ma hanno fatto politica. Perché, lo dico chiaramente, il lavoro sociale e educativo o è politico, o non è. Il lavoro sociale è promuovere e tutelare diritti, non si tratta semplicemente di fare del bene. Se un operatore mi dice che fa questo lavoro per “fare del bene”, istintivamente diffido.

 

In altre occasioni ha utilizzato il concetto di “intrapresa sociale”. Che cosa intende con questo termine e in che modo può essere applicato per affrontare le sfide attuali?

Andrea Morniroli: Parlare di “intrapresa” significa interrogarsi su quale futuro vogliamo costruire. È un concetto che richiama l’azione, l’impegno nel generare scenari diversi. Un esempio emblematico è ciò che fece Franco Basaglia con la chiusura dei manicomi, quando non si limitò a gestire l’esistente, ma aprì spazi di possibilità a chi ne era stato escluso. Intraprendere oggi significa lavorare per ricucire le fratture delle comunità, generare autonomia e percorsi di emancipazione, ma anche coltivare bellezza. Serve uno sguardo capace di riconoscere i desideri, le risorse e i talenti delle persone, oltre le fragilità. Significa anche ridefinire il ruolo e la funzione del pubblico, recuperando il valore politico del cambiamento, che deve tornare a essere trasformativo, non semplicemente contenitivo. È un percorso che stiamo condividendo con molte realtà – cooperative, operatori, dirigenti pubblici – proprio perché c’è bisogno di costruire nuove alleanze. Thomas Emmenegger, psichiatra e imprenditore sociale svizzero, parlerebbe di alleanze “inventive” perché capaci di inventare nuove istituzioni e visioni. È lì che l’intrapresa sociale trova il suo pieno significato. Un’impresa curiosa, che si mette a repentaglio nella ricerca di costruire quello che ancora non c’è per rendere conciliabile quello che ai più sembra inconciliabile.

 

In riferimento al Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna, che insiste molto sulla fase di co-programmazione e co-progettazione tra diversi attori, cosa serve, secondo lei, per evitare che questi strumenti restino solo dichiarazioni formali e diventino invece pratiche reali di democrazia e corresponsabilità?

Andrea Morniroli: Sarò diretto: il nodo vero è capire se questi strumenti comportano o no una reale condivisione del potere. Possiamo chiamarli come vogliamo, ma se la co-progettazione consiste nel Comune o un’altra istituzione pubblica che arriva con un progetto già definito – scadenze, cifre, modalità – e chiede semplicemente di spartire le risorse, allora non è co-progettazione. È solo una scatola svuotata di senso. Se poi si confonde l’ascolto con la partecipazione, siamo fuori strada. Partecipare non è essere auditi in un’ennesima “consulta”. Io vorrei un pubblico competente, autorevole e visionario, che rivendichi giustamente il proprio ruolo di coordinamento e governo, e che sia anche disposto a condividere orientamenti e risorse. Non si tratta solo di co-progettare o co-programmare, ma di co-determinare il cambiamento. È questa, secondo me, la parola chiave. E non parlo per amore delle formule o delle parole d’effetto, si tratta di sostanza. Condividere potere vuol dire ridefinire insieme gli indirizzi e creare alleanze in cui la mediazione non sia un compromesso al ribasso, ma un percorso condiviso per redistribuire le responsabilità e costruire, insieme, risposte adeguate alla complessità che abbiamo di fronte.

 

Tra i nodi centrali del Piano vi è la costruzione di alleanze territoriali tra istituzioni, cooperative, cittadinanza, imprese e soggetti finanziari. Quali condizioni concrete servono per dare forma a queste alleanze e affrontare, in modo integrato, sfide come l’abitare, il lavoro e la costruzione di un welfare di prossimità?

Andrea Morniroli: La prima condizione è che il coinvolgimento di tutti gli attori territoriali – fondazioni, imprese, nuovi investitori, eccetera – sia funzionale a un impianto in cui l’universalità dell’accesso ai diritti sia garantita dalla funzione pubblica. Non è in discussione il fatto che una fondazione possa contribuire; il punto è dove e come si decide di utilizzare quelle risorse. Se la decisione avviene in uno spazio realmente governato dal pubblico, dove la fondazione è una delle voci ma non l’attore unico che determina l’indirizzo delle politiche pubbliche, allora si è dentro una logica democratica. Se invece è la fondazione, o qualunque altro soggetto privato, a orientare le scelte pubbliche, allora si introduce un elemento distorsivo, che rischia di compromettere l’universalità stessa del welfare. Su questo spesso si fa molta confusione: il pubblico che si appoggia a una fondazione o a un altro tipo di finanziatore privato non è di per sé un problema; lo diventa quando quella fondazione condiziona o orienta l’agenda pubblica. Il secondo punto riguarda la capacità di “sconfinare” che citavo prima, cioè di superare la logica settoriale degli interventi. Oggi, ad esempio, non basta aprire un centro antiviolenza, ma bisogna riconoscere che molta della violenza di genere si fonda sulla dipendenza economica che le vittime hanno nei confronti dell’uomo carnefice. Quindi quel centro deve poter accompagnare le donne anche in percorsi di emancipazione economica, lavorativa, abitativa. Lo stesso vale per gli spazi di socialità, che non devono essere solo luoghi d’incontro ma contenere risposte articolate a bisogni complessi. In altre parole, oggi servono servizi capaci di integrare dimensioni diverse, per rispondere a una complessità che non si lascia frammentare. Il terzo punto, più radicale, è quello di riconoscere – come ormai affermano anche molti economisti – che non esiste sviluppo economico senza sviluppo sociale e educativo. Il sociale, il welfare, l’educazione non sono un effetto dello sviluppo, ne sono il presupposto. Se si ignora questo, si finisce per promuovere uno sviluppo ingiusto, diseguale, come quello che oggi avanza.

Purtroppo, questa consapevolezza si scontra con un impianto neoliberale che, soprattutto dopo la pandemia, è tornato ad affermarsi con ancora maggiore arroganza, senza neppure più lo sforzo di giustificarsi. Se prima ci si diceva che era necessario “lasciar crescere il mercato” per poi raccogliere i benefici anche alla base della piramide, oggi nemmeno questo viene più detto. Basta leggere la relazione di Draghi, accolta favorevolmente anche in ambiti democratici e progressisti, per capire la direzione. Lì si dice chiaramente che il welfare europeo deve servire a evitare che si infiltri – sottolineo che usa il verbo infiltrare – nella testa della gente nuovamente l’idea che la globalizzazione generi disuguaglianza e povertà. In sostanza, un’idea del sociale come funzione puramente contenitiva. In questo contesto, se le cooperative sociali e le imprese del Terzo settore accettano questa impostazione senza coltivare un’alternativa culturale e politica, finiscono per essere ridotte a meri esecutori, a contenitori funzionali all’ordine esistente. Finiscono, come diceva Don Luigi Di Liegro, per diventare “gli spazzini del capitalismo”.

 

A proposito del rapporto Draghi e dell’indirizzo europeo, nel mandato precedente la Commissione Europea ha promosso una visione di economia sociale, mentre oggi, anche guardando ad alcune scelte recenti, sembra che questo tema venga marginalizzato o svuotato. In questo quadro, quanto è difficile agire quando non solo non c’è un cambio di paradigma, ma anzi si assiste a un arretramento? Che giudizio dà rispetto a ciò che si era provato a fare in precedenza?

Andrea Morniroli: Già nel mandato precedente, pur in presenza di buoni documenti sull’economia sociale – che parlavano di coesione, emancipazione, partecipazione come possibili indicatori di buona economia sociale – c’era una forte contraddizione tra le enunciazioni e le politiche concrete, soprattutto al livello degli Stati membri. Negli ultimi vent’anni molte delle scelte che oggi sembrano estreme – penso alla flessibilità spinta del lavoro o ai centri per migranti in Albania – sono state in realtà preparate da chi governava prima. Questo governo, semmai, ha il merito (o demerito) di essere coerente: dice chiaramente di voler costruire un welfare paternalistico, identitario, corporativo, e agisce di conseguenza. Se c’è qualcosa che la sinistra dovrebbe imparare da questo governo paradossalmente, è proprio questa capacità di rendere coerenti tra loro affermazioni e pratica politica. In Europa oggi non ci si pone nemmeno più il problema di tenere insieme sviluppo e coesione. Lo sviluppo economico passa attraverso la concentrazione della conoscenza, il controllo tecnologico, il riarmo e la chiusura dei confini. È una scelta precisa, a mio avviso sbagliata, anche da un punto di vista economico, perché l’Europa – proprio per la sua storia e per la sua cultura di pace e coesione – avrebbe potuto e dovuto giocare un ruolo diverso nello scenario globale. Questo arretramento rende il lavoro a livello locale ancora più difficile, perché si somma alle politiche nazionali che vanno nella stessa direzione. Realisticamente, penso che oggi l’unico spazio dove sia ancora possibile costruire alternative sia però quello locale. È uno spazio limitato, certo, e i suoi tempi sono lenti rispetto alla velocità con cui stanno avvenendo le trasformazioni globali, ma al momento non vedo alternative. In questo scenario, presidiare i territori, costruire alleanze, rigenerare le comunità, può ancora fare la differenza. 

 

Questa possibilità dipende forse anche da un humus culturale che, in alcuni territori, è più presente: pensiamo ad esempio al ruolo storico delle cooperative, alla loro identità. Forse è più semplice parlare di economia sociale in contesti come Bologna, mentre a livello nazionale è più difficile soprattutto perché manca una sensibilità politica a riguardo?

Andrea Morniroli: Sì, questo è un punto interessante. Ed è vero quello che dice, cioè che Bologna, come l’Emilia-Romagna in generale, ha un sistema di welfare più strutturato, più solido, quindi in grado anche di reggere meglio certe derive. Ma c’è un punto critico: questo sistema così forte rischia a volte di essere troppo rigido, e quindi di non riuscire a intercettare le nuove vulnerabilità, i disagi complessi che oggi emergono. Questo perché chiede alle persone di adeguarsi a compartimenti troppo separati. Paradossalmente, vedo esperienze capaci di innovare e creare alleanze proprio in contesti dove il welfare è più debole. Per necessità, lì si sperimenta di più. Detto questo, penso che proprio da territori come l’Emilia-Romagna, la Toscana e altri che hanno una storia e una cultura cooperativa forte, se si accetta di rimettersi in gioco, possono nascere esperienze molto interessanti. Quindi sì, esiste un substrato favorevole, ma bisogna che si adatti, che si evolva.


Evolversi seguendo appunto quel concetto di innovazione sociale che il Piano stesso richiama?

Andrea Morniroli: Sì, però bisogna intendersi bene. A mio parere l’innovazione sociale è la capacità concreta di cambiare le cose, di agire sulle cause che generano le fragilità. Tutto il resto è retorica. Il rischio è che si faccia passare per innovazione sociale qualsiasi trovata tecnologica o narrativa. Ecco, è necessario fare attenzione a questa deriva, e lo dico da operatore sociale e non da accademico. Forse è anche per questo che fatico a seguire certi sofismi sull’innovazione sociale, che trovo a volte un po’ irritanti. Poi, certo, ci convivo perché mi rendo conto di quanto la ricerca e l’università servano. Ma se un dipartimento di innovazione sociale non porta gli studenti sul territorio, non funziona. Se conoscono tutte le bibliografie e le citazioni ma poi, al primo impatto con un servizio, si scontrano a muso duro con la realtà, c’è qualcosa che non va. E allora anche lì bisogna costruire alleanze di senso. Perché non pensare a percorsi formativi dove c’è il professore, ma anche l’operatore sociale? Dove si progettano programmi insieme, tra chi studia e chi lavora sul campo? Altrimenti tutto quel lavoro sull’innovazione sociale rischia di diventare autoreferenziale, utile magari solo per fare carriera accademica.

Nel libro che ho scritto con Gea Scancarello, dal titolo Non facciamo del bene. Inchiesta sul lavoro sociale tra agire politico e funzione pubblica, uscito da poco per Donzelli, si parla proprio del rapporto tra agire politico e funzione pubblica nel lavoro sociale. Ecco, io penso che oggi le imprese sociali, in particolare le cooperative, debbano investire su due cose fondamentali. La prima è la leadership interna, perché serve un vero ricambio generazionale nei gruppi dirigenti. Spesso non avviene non solo per autoreferenzialità, ma anche per protezione, per la paura che, se chi guida oggi se ne va, l’impresa non regga. E in parte è comprensibile, però è un nodo da affrontare. E la seconda è lo sguardo di genere, perché non si può continuare a guardare il mondo con uno sguardo neutro. Le cooperative devono riflettere al proprio interno su questo aspetto, perché se nel lavoro sociale troviamo il 70% di operatrici donne, ma nei ruoli dirigenti la percentuale scende al 15-30%, c’è chiaramente una contraddizione di fondo. E allora bisogna interrogarsi: non è che, magari inconsapevolmente, si asseconda l’idea che il lavoro di cura sia “femminile”, e quindi meno visibile, meno riconosciuto? La lente di genere serve per guardare fuori, ma anche all’interno del mondo cooperativo. Anche per dare finalmente valore alla riproduzione sociale.

Scritto da
Daniele Molteni

Editor di «Pandora Rivista», si è laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano e ha collaborato con diverse realtà giornalistiche, tra cui «Africa Rivista», «Lavialibera» e «Modern Insurgent». Si occupa di politica internazionale, questioni sociali e tecnologia. È membro del collettivo giornalistico “Fuorifuoco”.

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