Scritto da Romeo Farinella
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In Le fragole di Londra. Attraverso le città disuguali (Mimesis 2025) Romeo Farinella – Professore ordinario di Progettazione urbanistica e Teorie dell’urbanistica all’Università degli Studi di Ferrara – inquadra le relazioni tra città e disuguaglianze in una riflessione sui temi posti dai cambiamenti climatici in corso e dalla transizione ecologica.
Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’autore, un estratto del libro, tratto dall’introduzione del volume.
Negli anni Trenta dell’Ottocento, a Londra le fragole crescevano in abbondanza a Deptford e Camberwell. Venti anni dopo c’erano ancora orti a Bermondsey e Rotherhithe[1]. Deptford è un quartiere vicino all’Osservatorio Reale di Greenwich da cui è separato dal Deptford Creek, quindi sull’altro lato del Tamigi, oggi di fronte al quartiere finanziario di Canary Wharf. Anche Camberwell si trova a destra del fiume ma più a Sud, mentre Bermondsey e Rotherhithe sono nell’area di Southwark. La descrizione riportata si riferisce all’inizio dell’età Vittoriana. Tale periodo identifica, più di altri momenti, l’avvio della trasformazione industriale di Londra e di molte altre città britanniche. La rivoluzione industriale segna il punto di rottura nel rapporto uomo-ambiente e avvia quella “fase paleotecnica” descritta da Lewis Mumford che conduce alla nascita di una nuova civiltà, attraverso l’intreccio tra carbone e ferro[2]. Potremmo affermare che tale rapporto inizia ad incrinarsi circa diecimila anni fa con la “rivoluzione agricola”. L’uomo da cacciatore diventa agricoltore e quindi da girovago diviene stanziale. È grazie all’agricoltura che nascono le città. Se prima piccoli gruppi di uomini si spostavano in vasti territori naturali, in seguito, grazie al surplus generato da rudimentali pratiche agricole, inizia il processo di sedentarizzazione e l’abbandono del nomadismo. Certo, allora gli uomini sul pianeta erano pochi e la presenza dell’Homo sapiens non ha mai inciso sugli equilibri del pianeta salvo quando è diventato “industriale”. Parecchi studiosi, storici, fisici, ecologi, concordano nel definire la rivoluzione industriale come l’avvio di quella fase che il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha definito Antropocene[3]. Va però sottolineato che in questo percorso, che ha visto l’affermazione della nostra specie e la rottura dell’equilibrio con l’ambiente naturale, il ruolo dell’umanità europea e occidentale è stato determinante. Alexis de Tocqueville nel 1831, durante il suo viaggio negli Stati Uniti, esprime a tale riguardo un pensiero chiaro. Queste le sue parole: «Si direbbe che l’Europeo stia alle altre razze come l’uomo in generale sta a tutta la natura animata. Quando non può piegarle al suo uso o farle servire indirettamente al suo benessere le distrugge e le fa sparire a poco a poco davanti a sé. Le razze indiane in presenza della civiltà europea si sciolgono come neve al sole»[4].
Ritornando all’Antropocene, questa riflessione di Tocqueville ci dice che nel concetto di umanità trova spazio anche quello di conflitto, di controllo, di colonizzazione. Questo non rende tutti i componenti dell’umanità responsabili allo stesso modo della crisi che stiamo vivendo. Tale processo inevitabilmente determina un nuovo punto di equilibrio tra la natura e l’uomo. Oggi molti coltivano l’illusione che la tecnica e la tecnologia ci salverà, anche senza mettere in discussione il modello di sviluppo che ha governato il mondo per secoli, fondato sul dominio della natura, sul laissez-faire economico e politico, quindi sul passaggio dal liberalismo mercantilista al neoliberismo industriale-finanziario, sulle disuguaglianze e, non da ultimo, sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse, nella convinzione che queste siano inesauribili. Vandana Shiva nel suo testo dedicato alle guerre dell’acqua ci racconta come il controllo politico e tecnologico dell’acqua divenga, per i consulenti rooseveltiani, il passo decisivo da compiere affinché l’uomo diventi il padrone della natura[5]. A metà degli anni Sessanta, Herbert Marcuse nel suo testo più noto, dove affronta il tema dell’uomo “unidimensionale” nella società industriale avanzata, afferma che: «La tecnologia come tale non può essere isolata dall’uso cui è adibita; la società tecnologica è un sistema di dominio che prende ad operare sin dal momento in cui le tecniche sono concepite ed elaborate»[6].
Se quindi il capitalismo, sempre secondo Marcuse, con i suoi apparati produttivi “assume comportamenti totalitari” questi si riverberano non solo sul lavoro ma anche sugli “atteggiamenti socialmente richiesti”, i “bisogni e le aspirazioni individuali” e alla fine il rischio è che si affermi una tendenza totalitaria che non rende neutrale la tecnologia. La convinzione che la scienza e la tecnica costituiscano le basi del dominio dell’uomo occidentale sul pianeta ha fondamenti antichi, ma la scienza se da un lato ha posto le basi del dominio dell’uomo sulla natura (e dell’uomo “occidentale” sulle altre “razze”), dall’altro, da decenni, ci sta mettendo in guardia sulla rottura dell’equilibrio nelle nostre relazioni con il pianeta che ci ospita. La fideistica fiducia nella tecnica, dal canto suo, ha coltivato questa illusione dando vita a politiche, processi e retoriche che in particolare in questi ultimi anni hanno assunto un carattere pervasivo, grazie ai mezzi di comunicazione e a una politica fondata, più che sulla conoscenza e la ricerca, su di una informazione e cronaca che non mette mai in discussione il modello di sviluppo neoliberista. Tale idea di capitalismo ha trasformato il cittadino in sovereign consumer[7] mentre l’economia ha presto il posto della politica. I suoi presupposti si fondano sulla prevalenza dell’interesse privato a detrimento del bene collettivo, sul dominio del denaro e della rendita finanziaria in contrasto con l’idea di uno Stato regolatore delle politiche economiche, urbane e sociali. Al primato della politica si è sostituito da tempo quello dell’economia mentre la fine del Novecento ha reso evidente e misurabile, la crisi del rapporto tra uomo e ambiente, come dimostrano i rapporti dell’IPCC – Intergovernmental Panel on Climate Change – delle Nazioni Unite. La separazione tra la politica, l’economia, la tecnologia, da un lato, e la biosfera, l’ecologia, la geosfera, dall’altro, evidenzia la complessità della sfida che l’umanità deve affrontare ma anche la difficoltà di definire nuovi paradigmi che prefigurino diversi scenari di sviluppo, in grado di farsi carico anche delle disuguaglianze, delle povertà vecchie e nuove, dell’aumento dei fronti di crisi generati dai cambiamenti climatici, della necessità di avviare politiche di redistribuzione delle ricchezze.
Amartya Sen vent’anni fa ci ricordava che nonostante oggi si viva in un mondo di un’opulenza senza precedenti, altrettanto gravi sono la miseria e la privazione dei molti diritti fondamentali[8]. Anche questi temi riguardano la “transizione ecologica” ma l’impressione è che nelle pratiche di governo si pensi ad un processo che si legittima negli avanzamenti tecnologici senza porsi il problema del cambiamento delle nostre modalità di uso del pianeta e delle sue risorse, dei nostri stili di vita, del come organizziamo e facciamo funzionare le nostre città, di come garantiamo a tutti il diritto a viverci.
Va probabilmente rimesso in discussione il nostro modo di pensare i problemi della politica e della scienza così come l’agire attraverso progetti e strategie alimentate dal paradigma neoliberista. Il governo globale del real estate sta progettando città sostenibili in regioni desertiche o situazioni estreme, alleandosi con stati autoritari che negano i più elementari diritti civili e politici, e sta stringendo alleanze e accordi economici con i Paesi occidentali e democratici portatori di conoscenze e desiderosi di esportare nuove tecnologie. Se lo Stato è autoritario (ad esempio Emirati Arabi Uniti, Singapore, Egitto, Cina) o governato da false democrazie, corrotte dalle pressioni occidentali (numerosi Paesi africani), tanto meglio perché l’inerzia è minore, essendo la conflittualità repressa militarmente. Dalle cronache che ci vengono quotidianamente proposte dai nostri smartphone, questo appare essere il futuro urbano del mondo, o quanto meno un aspetto prevalente, sicuramente ricercato e sostenuto da un mondo professionale e tecnologico occidentale indifferente ai problemi etici e politici che questi processi pongono.
Il percorso, che questo libro cerca di tracciare, ruota attorno a due parole chiave: città e disuguaglianze, e alle relazioni che esse stabiliscono con l’idea di transizione ecologica. Si tratta di categorie ampie, difficili da approfondire se non si precisa il contesto al quale sono riferite. Si tratta di parole che esprimono dimensioni a noi note ed esperite nella nostra quotidianità, ma come è possibile intrecciarle e definirle? In riferimento a quali situazioni? Dopo la rivoluzione industriale, il concetto di città è divenuto vago. Il suo ampliamento ha prodotto una serie di definizioni che cercano di coglierne il suo carattere mutevole. Potremmo iniziare a parlarne in riferimento ad un’altra categoria oggi comune, quando si parla di insediamenti, che è quello di urbanizzazione. Che quest’ultima non sia necessariamente sinonimo di città è una delle questioni che ci pone Françoise Choay[9]. Qualunque sia la risposta, le forme dell’urbanizzazione non sono uguali ovunque e vanno quindi definite in relazione ai contesti geografici, culturali ed economici di cui sono espressione.
Dobbiamo abituarci alla relatività del tempo, dello spazio e dei punti di vista se vogliamo leggere e interpretare un fatto che può essere periodizzato e raccontato in modi diversi. Potremmo, per il momento, limitarci a dire che, se il concetto di città presuppone un centro (perlomeno in Occidente), quello di urbanizzazione lo nega o ne cambia il senso, banalizzandolo e diffondendolo, quantomeno in termini morfologici e rappresentativi. Ma anche il concetto di centro, come ci insegna Roland Barthes, cambia a seconda delle culture. Se in Occidente ha coinciso storicamente con un pieno di funzioni che determinano delle relazioni che si identificano in vuoti dall’alto valore evocativo (il sagrato della chiesa, la piazza civica del palazzo comunale e quella del mercato), in Cina o Giappone coincide con un pieno fisico (il palazzo dell’imperatore) che si pone come un vuoto simbolico, non fisico, separato e isolato dal tessuto urbano circostante, non essendo accessibile ai suoi abitanti[10].
Il rapporto fra città e urbanizzazione va definito anche in relazione alle politiche economiche di sviluppo, in questi ultimi decenni, fortemente influenzate dalle dinamiche neoliberiste, che hanno accentuato le disuguaglianze socioeconomiche e spaziali, creando delle divisioni sempre più evidenti tra ricchi e poveri nel mondo urbanizzato e tra diverse regioni del mondo. Secondo il sociologo urbano Neil Brenner, l’adattamento delle città ad un mercato globale sempre più competitivo e il sempre più forte bisogno di estrarre materie prime, di accedere alle risorse naturali, di luoghi per la logistica globale e locale ha di fatto reso planetaria l’urbanizzazione, condizionando anche le campagne, le periferie sempre più estese, le regioni remote di molte parti del mondo. Ne consegue che anche gli spazi non associabili in maniera diretta al mondo urbano, in realtà, sono integrati dentro le dinamiche dell’urbanizzazione con forti implicazioni sociali e ambientali riscontrabili nella mutazione climatica in corso, nella distribuzione di molti ecosistemi e non da ultimo nel rafforzamento delle disuguaglianze sociali[11]. Brenner, partendo da una rilettura di Henri Lefevre e di altri autori che, dagli anni Sessanta del secolo scorso, hanno cercato di definire criticamente la “questione urbana”, mette in discussione la distinzione tra “urbano” e “non urbano”, già individuata dal sociologo francese, fornendo stimoli per la riflessione sulle dinamiche urbane post-fordiste e post-keynesiane spinte dalla cultura del neoliberismo.
Come possiamo ricondurre alle nostre categorie di lettura degli spazi urbani, gli scenari del futuro prossimo che ci parlano di città del Sud globale sempre più affollate ed estese? La metà della popolazione mondiale vive ormai in aree urbane di varia grandezza e forma e si stima che questa progressione arriverà nel 2050 a lambire il 70% degli abitanti del pianeta. Una popolazione concentrata nel 2/3% del territorio mondiale. Molte di queste mega-urbanizzazioni stanno crescendo in territori estremamente delicati e vulnerabili come le coste e i delta. In questi ultimi trent’anni, le metropoli costiere sono passate da sette a dodici, dislocate in gran parte in Asia e in misura minore in Sud America e Africa. Sono oggi gli insediamenti a maggior rischio a causa dei cambiamenti generati dal clima e dal conseguente innalzamento del livello del mare. Secondo James Lovelock, la terra è un insieme auto-organizzato che vive della regolazione e degli intrecci tra le sue componenti viventi e inorganiche[12]. L’equilibrio e le relazioni che si stabiliscono tra gli organismi viventi e l’ambiente si riassume nella biosfera, dove ritroviamo le condizioni ambientali che consentono la vita. Le questioni poste dall’urbanizzazione vanno pertanto riferite a questo quadro di riferimento.
L’evoluzione del rapporto tra l’uomo e l’ambiente è certamente mediata dalla costruzione delle città, ma in questi anni la complessità del pensiero architettonico e urbanistico si è indebolita. Le immagini che girano sul web evidenziano come l’architettura non sia più una componente della struttura urbana in grado di portare complessità (morfologica, ambientale e sociale). Al contrario, essa tende a sublimarsi in una ricerca estetica e tecnologica indifferente ai contesti storico-geografici ma autoreferenziale rispetto a strategie di marketing che accomunano progettisti e committenti e associabili ad un ecologismo di facciata. Un approccio dove la complessità del rapporto con la natura è divenuta la cartina di tornasole di una retorica ambientalista che ammanta di verde le logiche speculative neoliberiste che pervadono l’architettura gridata del nostro tempo. Tale retorica è emersa con grande evidenza durante e dopo la recente pandemia dove la cultura architettonica, più esposta con i media, ha inondato giornali e televisioni di luoghi comuni privi della capacità di farsi carico della complessità e varietà dei problemi dell’abitare contemporaneo. Numerosi articoli sulla stampa e testi divulgativi hanno proposto visioni di futuro e soluzioni per chi vive in condizioni sociali esclusive, senza approfondire le relazioni tra pandemia, crisi ambientale e disuguaglianze e le ricadute sui cambiamenti delle nostre città e nei contesti socialmente ed economicamente più deboli e marginali[13].
Non ci rimane dunque che essere “resilienti” se vogliamo reagire ai cambiamenti in atto? Resilienza è un termine pervasivo, ormai anche retorico, ed è in buona compagnia. Sostenibilità, smart, transizione, circolarità, resilienza, nature urbane, prossimità dei 15 minuti, sono sostantivi che accompagnano da tempo le nostre letture e riflessioni sul futuro delle città, dell’economia, sui modelli di vita e le scelte da perseguire. L’uso ridondante di tali categorie ne ha sicuramente ridotto la portata e il significato qualitativo, prestandosi a banalizzazioni determinate dalla necessità di generare consenso. Nessun politico può oggi esimersi dal loro uso, analogamente una strategia di marketing, che si occupi di cibo o di case, di energia o di turismo, non può permettersi di non utilizzarle. Rimane il fatto che quando si utilizzano categorie ampie come queste, se non si esplicitano le pratiche che le sostanziano il rischio è di trasformarle in parole vuote.
[1] Asa Briggs, Città vittoriane, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 21.
[2] Lewis Mumford, Tecnica e Cultura. Storia della macchina e dei suoi effetti sull’uomo, il Saggiatore, Milano 2005, p. 179
[3] Paul Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene. L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Mondadori, Milano 2005.
[4] Alexis de Tocqueville, Viaggio negli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1990.
[5] Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 65-66.
[6] Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1967, p. 14.
[7] Niklas Olsen, The Sovereign Consumer. A New Intellectual History of Neoliberalism, Palgrave Macmillan, Londra 2019.
[8] Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano 2020, p. 5.
[9] Françoise Choay, Pour une anthropologie de l’espace, Seuil, Parigi 2006, p. 165.
[10] Roland Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1970, p. 39.
[11] Brenner ha sviluppato la sua teoria critica dell’urbanizzazione in più testi, si segnala un testo sintetico che riassume i vari temi del suo lavoro: Neil Brenner, Stato, spazio, urbanizzazione, Guerrini scientifica, Milano 2016.
[12] James Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino 2021.
[13] Il riferimento è a recenti testi di alcuni autorevoli protagonisti del dibattito architettonico e urbanistico quali: Stefano Boeri, Urbania, Laterza, Roma-Bari 2022; Carlo Ratti, Urbanità. Un viaggio in quattordici città per scoprire l’urbanistica, Einaudi, Torino 2022; Carlo Piano e Renzo Piano, Atlantide. Viaggio alla ricerca della perfezione in sedici grandi progetti, Feltrinelli, Milano 2019.