Scritto da Maurilio Menduni De Rossi
12 minuti di lettura
Introduzione: vite, morti e miracoli dell’Occidente
Gli avanzamenti scientifici dell’ultimo secolo hanno permesso di rivoluzionare il modo di vivere e di morire di Homo sapiens, secondo un’asimmetria globale tra i Paesi “sviluppati” e il resto del mondo. Si sono creati così poli diversi tra chi continua a morire di “malattie trasmissibili”, tra cui tubercolosi, polmonite o infezioni gastrointestinali (le prime tre cause di morte globali nel Novecento) e chi invece ha il “privilegio” di morire lentamente di “malattie non trasmissibili”, per lo più croniche, come malattie cardiovascolari, diabete o cancro, che nel 2019 hanno rappresentato il 74% di tutte le cause di morte globali[1].
Utilizzare una misura binaria di vita o morte per comprendere l’effettivo peso e distribuzione delle diverse malattie nel mondo rischia però di non riflettere la realtà dei fatti, soprattutto in un mondo che non muore più per condizioni acute ma che ha imparato a morire lentamente, per condizioni croniche. Invece di contare le morti possiamo usare un indice di gravità delle malattie, il Disability Adjusted Life Years (DALY), che corrisponde agli anni di vita persa a causa di disabilità o di morte prematura. Una recente analisi sistematica ha confrontato i valori di DALY di 204 Paesi dal 1990 al 2019 e ha rivelato una diminuzione globale – trainata dai Paesi non sviluppati, dove tali malattie sono ancora molto più frequenti – delle malattie trasmissibili, materne, neonatali e nutrizionali, che è stata però controbilanciata da un aumento del carico da malattie non trasmissibili, tra le quali anche i disturbi psichiatrici[2]. La cosa più allarmante è che queste analisi non hanno rivelato miglioramenti in quasi trent’anni nel DALY attribuito a dodici disturbi mentali, riscontrandone anzi un aumento – soprattutto nei Paesi ad alto indice socio-demografico. Simili risultati sono stati rilevati per altre malattie non trasmissibili.
In certe parti del mondo le preoccupazioni quotidiane sono radicalmente cambiate: si muore lentamente, mentre vaccini, antibiotici e pratiche igieniche condivise hanno conquistato lo spazio occupato da millenni di morti aleatorie causate dalle malattie trasmissibili. Come gli ultimi anni ci insegnano, la conquista di tale spazio può sempre essere messa in discussione, ma è innegabile che nell’ultimo secolo ci sia stata un’eliminazione (talvolta totale, si pensi al vaiolo) di quelle malattie aspramente temute dai nostri antenati poi non così lontani. Eppure, siamo di fronte a un paradosso: in questi stessi anni in cui le condizioni di vita di una parte del globo sono migliorate, molte delle malattie che prima erano poco rappresentate hanno iniziato a sottrarci sempre più anni di vita o sono rimaste agli stessi valori di DALY di decenni fa. Queste sono le malattie non trasmissibili, nello specifico malattie cardiovascolari, metaboliche, psichiatriche e neurodegenerative, che a loro volta rappresentano i disturbi più sensibili agli effetti negativi dello stress cronico.
Come pesci nell’acqua, l’invisibilità di un nuovo agente patogeno
In questo articolo si cercherà di analizzare come questo strano paradosso ci permetta di rendere visibili gli effetti culturali e socio-strutturali che rimarrebbero altrimenti invisibili ma di cui, ora più che mai, sentiamo gli effetti sulla salute del nostro corpo e della nostra psiche. A tale scopo si approfondirà il modo in cui la fisiologia dello stress rende la linea che separa natura e cultura mai così sottile. Utilizzando tale conoscenza come strumento di indagine, si analizzeranno i modi in cui un “agente patogeno” troppo a lungo invisibilizzato è inserito in molti e nuovi tipi di lavoro legati alla cosiddetta “gig economy”, e di come poterci tutelare da questa pandemia strutturalmente trasmissibile, molto più cronica e silenziosa.
L’antropologo Ralph Linton ha sostenuto che la cultura è come l’acqua in cui il pesce nuota: il pesce vede attraverso quell’acqua, ma non la vede come tale. La sfida nella lotta alle malattie non trasmissibili risiede proprio nell’invisibilità delle loro cause. Oggi la medicina si ritrova in una rivoluzione di paradigma simile a quella che vide Louis Pasteur introdurre la teoria dei germi patogeni per spiegare l’eziologia di alcune malattie infettive. In quel caso si trattava di un’invisibilità diversa, capace di essere vista con lo strumento giusto e che ha introdotto nuove spiegazioni causali per le malattie fino ad allora incomprese. La difficoltà di questa nuova invisibilità, che porta a nuovi modi di pensare alla causalità in medicina, sta nel fatto che un pesce malato immerso nel suo acquario ha difficoltà a riconoscere che il problema può essere nell’acqua e non nelle sue pinne.
Il primo atto necessario per cercare una cura a ciò che non siamo stati capaci di debellare con vaccini e antibiotici è rappresentato dal riconoscere il modo in cui queste acque che ci circondano, e che troppo spesso non vediamo o a cui non diamo dignità di causazione, hanno un reale effetto sui nostri corpi, sulla nostra salute.
La risposta allo stress
Negli anni moltissime ricerche hanno cercato di indagare le basi biologiche di diversi disturbi; è mancata però a lungo un’integrazione tra un sapere puramente biologico e una prospettiva capace di includere nei modelli di eziologia anche una componente culturale e socio-strutturale, nonostante l’evidenza che tutt’ora il codice postale di un individuo è un miglior predittore di salute rispetto al suo codice genetico[3].
Immaginiamo di essere nella savana, siamo una zebra che sta pacificamente brucando dell’erba accanto alla sua mandria, il nostro corpo ha una serie di parametri fisiologici ottimali in relazione al contesto in cui ci troviamo. Il nostro battito cardiaco ha un valore a riposo, come anche la pressione sanguigna e la frequenza respiratoria; il nostro sistema circolatorio provvede a irrorare maggiormente l’apparato gastrointestinale diminuendo la perfusione di altri settori ora meno importanti come i muscoli degli arti; nel mentre la ferita che ci eravamo procurati pochi giorni fa sta lentamente guarendo. Il nostro sistema nervoso autonomo (SNA) è sbilanciato verso l’attivazione della componente parasimpatica piuttosto che di quella simpatica e assieme agli ormoni che troviamo in circolo stimola i processi digestivi. Ecco però che improvvisamente con la coda dell’occhio notiamo un leone che sta avanzando tra l’erba alta nella direzione del nostro branco; d’improvviso capiamo che la nostra vita è in pericolo. Il nostro cervello comprende la presenza di quello che possiamo definire uno “stressor” che minaccia di mettere a repentaglio gli obiettivi di digestione e guarigione che si era anticipatamente prefissato regolando i parametri fisiologici di tutto l’organismo che ora non sono più ottimali. D’improvviso la migliore strategia per mettere in salvo la pelle (e i nostri geni per le generazioni future) non è più quella di continuare a brucare tranquillamente l’erba, bensì di lanciarsi il più velocemente possibile nella direzione opposta dalla quale sappiamo provenire il leone. Ci serve energia e ci serve subito: non possiamo più permetterci di digerire. Inibiamo subito il sistema parasimpatico e spostiamo il tono del SNA verso il sistema simpatico. Questo squilibrio del SNA, assieme alla secrezione di alcuni ormoni come i glucocorticoidi, ha effetto sulla mobilitazione rapida dei substrati energetici (glucosio e lipidi). A questo si accompagna un effetto sulla velocità e la direzione del loro trasporto attraverso il sistema circolatorio, potenziando il battito e la forza di contrazione del cuore, la pressione sanguigna e la frequenza respiratoria. Tutti quei progetti a lungo termine in cui il nostro corpo impegna grandi quantità di energie vengono soppressi: c’è una inibizione della digestione, della crescita e dei processi di riparazione, le ferite non guariscono più; ogni processo finalizzato alla riproduzione è posticipato a data da destinarsi come anche la risposta immunitaria è inibita. Infine, la percezione del dolore viene inibita e l’acuità dei sensi come le capacità cognitive potenziate. In questo nuovo stato il nostro corpo di zebra riuscirà a ottimizzare tutte le risorse energetiche per rispondere a un pericolo imminente; purtroppo, le stesse modifiche avverranno anche nel leone, questa volta finalizzate a procurarsi un lauto pasto.
Questa serie di modifiche nervose e ormonali sono alla base della risposta allo stress, che ha un ruolo ben definito e adattativo per gestire un pericolo imminente e aspecifico. La logica è quella di ottenere una risposta capace di mettere a disposizione un quantitativo di energia che possa poi essere orientato in base al pericolo in una risposta d’attacco o di fuga. A dimostrazione della sua importanza, la risposta allo stress è una strategia adattativa molto antica, diffusa con meccanismi molto simili in tutti i vertebrati[4]. È invece molto più recente il modo in cui le specie di primati più socialmente sofisticate sono capaci di attivare la risposta allo stress. La stessa definizione di stressor che mette in moto tutto il processo si è estremamente allargata, includendo non solo sfide fisiche nel presente, ma anche minacce vere o supposte nel futuro. Ed è così che i primati sono capaci di attivare una risposta adattativa, evolutasi per essere acuta e di breve durata, in modo cronico e ripetitivo in casi in cui non è necessaria trasformandola in un potentissimo e silenzioso agente patogeno: lo stress psicologico.
I nostri stressor non sono più un leone che ci rincorre o una zebra ferita e vulnerabile da attaccare; la risposta allo stress invece oggi si integra con la cultura che ci circonda, la struttura della nostra società e la logica della sua economia capitalistica. Tutto questo è reso possibile dall’ampliarsi della definizione di stressor oltre il confine del pericolo fisico e immediato verso un pericolo cronico di un futuro imprevedibile e su cui non abbiamo nessun controllo, scatenando gli effetti del famigerato stress psicologico. Robert M. Sapolsky, neurobiologo e antropologo californiano, snocciola nel suo saggio Why Zebras Don’t Get Ulcers[5] il concetto di “stress psicologico” che tra tutti gli stressor è quello più comune e più letale nell’odierna società occidentale. Ma in cosa consiste nello specifico e in quali contesti è così comune da rappresentare uno tra i primi fattori di rischio per le più comuni malattie in Occidente?
Sapolsky divide i fattori che caratterizzano, in positivo o in negativo, lo stress psicologico in quattro principali macrocategorie: sfoghi per la frustrazione, supporto sociale, controllo e prevedibilità:
1) Sfoghi per la frustrazione: sono rappresentati all’interno di un contesto sociale da gerarchie di rapporti, dove il gradino più alto si sfoga sul gradino più basso per terminare una propria risposta allo stress. Ciò si è osservato sia negli umani che negli altri animali. Nei babbuini, che vivono in salde gerarchie sociali che determinano la possibilità dei comportamenti individuali, si è dimostrato che quando viene presentato uno stressor al babbuino di rango più alto, se questo si sfoga attraverso atti violenti nei confronti del rango a lui direttamente inferiore, i livelli circolanti di ormoni scatenati dallo stressor iniziale calano molto più velocemente di come farebbero senza tali atti violenti. Questa regola, che vale per ogni rango ed è stata documentata attraverso diverse specie (inclusi noi umani), è nota come “trasferimento dell’aggressione”. Si prenda il caso umano: è stato dimostrato che nei casi in cui una squadra di calcio locale perde inaspettatamente contro una sua rivale i tassi di violenza familiare aumentano fino al 20%[6]. Numerosissimi studi, inoltre, indicano come i babbuini di basso grado tendano a sviluppare molto più facilmente malattie non trasmissibili legate allo stress; tale risultato è stato analogamente ritrovato nei casi di lavoratori all’ultimo gradino della gerarchia aziendale[7].
2) Un altro modo per alleviare gli effetti di uno stressor attraverso l’interazione con altri organismi, ma più auspicabile per la nostra società di domani, è il supporto sociale. Le ricerche rappresentative di questo tema sono quelle dell’epidemiologo giapponese Ichiro Kawachi. Kawachi ha dimostrato che uno dei maggiori predittori di basso livello di salute nella popolazione generale è un più basso “capitale sociale”, rappresentato da tutte quelle organizzazioni locali e nazionali di supporto sociale[8]. Tale effetto è mediato per una sua parte proprio dalla prematura terminazione o mancata attivazione della risposta allo stress.
3) Un’altra caratteristica che implica l’aumento di stress psicologico è la mancanza di controllo. Anche qui numerose evidenze di studi sperimentali dimostrano che uno stressor incontrollato genera una risposta molto più elevata rispetto a una condizione dove l’animale può anche solo avere “l’illusione” di controllo, ponendo per esempio una leva che il topo impara ad associare alla terminazione dello stress.
4) La mancanza di prevedibilità è un’altra caratteristica di uno stressor che genera una risposta allo stress più elevata e duratura, che può tendere a cronicizzare. Assieme al controllo rappresenta il quadro degli stressor più comuni che influenzano la salute umana, soprattutto in relazione al lavoro.
Il lavoro come performance: il caso dei gig worker
Molte delle categorie che definiscono gli stressor psicologici tendono a comparire assieme in alcune modalità di ingaggio lavorativo capaci di proliferare in un sistema di gig economy. La gig economy è infatti un modello economico dove i gig worker sono lavoratori autonomi o impegnati in lavori accessori. Il termine gig è uno slang americano utilizzato per indicare le singole performance che i musicisti o comici vengono chiamati a svolgere, venendo quindi pagati non secondo uno stipendio regolare ma secondo le singole gig. Nell’economia gig il lavoratore è un performer: quello che viene valutato costantemente – grazie anche alle numerose tecnologie di raccolta e analisi dati di cui fanno largo utilizzo le aziende della gig economy – è proprio la sua performatività nella singola mansione che gli viene assegnata e da cui dipende – come per un vero musicista – se verrà o meno richiamato per una prossima performance e quanto verrà pagato.
Robert Karasek – psicologo e sociologo svedese – cercando di comprendere in che modo l’attività lavorativa può impattare negativamente sulla salute umana, elaborò il modello di “job demand-control”[9], con cui definì fonte dell’effetto deleterio l’alta domanda assieme all’assenza di controllo del lavoratore sulle proprie mansioni. Questo pone diversi elementi di criticità di fronte alla totale assenza di controllo che il lavoratore gig ha sui propri orari di lavoro, all’imprevedibilità di una prossima mansione che dovrà svolgere e ad un sistema algoritmico che premia la performance massima sempre, la quale viene spasmodicamente misurata e valutata nella sua efficienza. Questi lavori gig fanno ampio utilizzo proprio dell’attivazione della risposta allo stress; quello che interessa alla compagnia è avere due algoritmi principali: uno che permetta un’efficienza puntuale per la singola mansione, e un altro che permetta di identificare in modo repentino i singoli lavoratori poco performanti e licenziarli, spesso senza che il lavoratore conosca le ragioni specifiche del suo licenziamento. Stimolare quindi una risposta di allarme nell’organismo in modo tale che questo mobiliti le riserve di energia ed efficientare la singola mansione diventa un obiettivo aziendale.
Un esempio calzante sono le aziende di consegne di cibo e i loro lavoratori, i rider. In queste aziende i rider vengono ingaggiati grazie a una semplice applicazione; non hanno un luogo fisico dove concentrare lo svolgimento delle loro mansioni, il cui carico e numero non è stabilito ma dipende dalla diretta richiesta del consumatore. L’attivazione della risposta allo stress di un rider è funzionale alla massima efficienza della singola consegna, grazie ai processi fisiologici di risposta allo stress di cui abbiamo discusso. Ciò permette una modificazione del corpo e della psiche del lavoratore incentrata su un solo scopo. Il rider è la zebra, solo che qui il leone è invisibile. Gli stessi cambiamenti neuro-ormonali della risposta allo stress che i nostri antenati avrebbero intelligentemente usato per scappare da un leone nella savana vengono ora attivati in cronico dalle prossime consegne del rider, su cui egli non ha nessun controllo – né sa quando arriveranno né quali saranno le loro difficoltà – ma da cui dipende il suo guadagno.
Ciò che per l’azienda è strategia aziendale e per l’individuo è precarietà è codificata dal secondo “algoritmo”. Un licenziamento può avvenire all’improvviso: è noto il caso di Sebastian Galassi, giovane rider fiorentino che nell’ottobre del 2022 morì in un incidente proprio durante la sua ultima consegna e sul cui telefono il giorno dopo la famiglia si ritrovò un messaggio di licenziamento: «Per mantenere una piattaforma sana ed equa, talvolta è necessario prendere dei provvedimenti quando uno degli utenti non si comporta in modo corretto»[10]. La gig economy è un modello che senza la precarietà strutturale su cui si fonda non sarebbe lo stesso: implica infatti un tale livello di coinvolgimento biologico tramite la sua forte carica di stressor psico-sociali con cui efficienta il suo guadagno che a medio o lungo termine vi è un alto rischio che porterà a un deterioramento delle condizioni di salute del singolo lavoratore, compromettendone l’efficienza e producendo come esternalità centinaia di migliaia di persone affette da patologie croniche e debilitanti.
La presenza di tali pratiche lavorative in assenza di riconoscimenti in termini di contributi previdenziali, coperture sanitarie, ferie, giorni di malattia retribuiti e assicurazioni contro infortuni rappresenta a medio o lungo termine un grave danno all’economia di un Paese nel suo complesso. Infatti, delle malattie croniche di questi lavoratori dovrà prendersi carico il sistema sanitario nazionale (SSN) – con un esborso di fondi pubblici a fronte di profitti conseguiti da soggetti privati attraverso modalità di lavoro che portano a danni cronici per le persone. In questa logica, la tutela e il finanziamento del SSN diventano un cardine politico attraverso il quale ottenere il riconoscimento dei diritti dei lavoratori. Non solo: se si fosse un po’ più lungimiranti, attraverso la tutela di un diritto, quello alla salute, se ne tutelerebbero molti altri, fondamentali per una vita senza malattie e senza ingiustizie. Fortunatamente qualcosa si sta muovendo, il Tribunale di Milano ha dichiarato illegittimi i licenziamenti che Uber Eats Italy aveva intimato a circa quattromila rider, con un decreto del 28 settembre 2023. Ciò è avvenuto dopo che la società ha annunciato l’intenzione di uscire dal mercato italiano e di chiudere definitivamente la sua piattaforma digitale italiana. Il giudice ha riconosciuto le concrete modalità con cui si è svolta l’attività lavorativa dei rider come un rapporto di lavoro subordinato piuttosto che autonomo rispetto a Uber Eats Italy.
In una direzione simile sembra andare l’Unione Europea, dove le aziende gig non potranno più considerare i rider come lavoratori autonomi. Per alcune aziende, come Just Eat in Italia, era stata già raggiunta nel 2021 una prima intesa con i sindacati, in base alla quale i rider sono considerati dipendenti a cui applicare il contratto collettivo del settore logistica. A ogni dipendente spetta una retribuzione oraria fissa, oltre a congedo parentale, congedo per malattia, ferie e trattamento di fine rapporto. Secondo le previsioni dell’Unione Europea, già entro il 2025 quarantatré milioni di europei lavoreranno su piattaforme digitali. Un dato che evidenzia la necessità di una profonda riflessione sul tema.
[1] Global Burden of Disease Collaborative Network, Global Burden of Disease Study 2019 (GBD 2019), Results (Institute for Health Metrics and Evaluation – IHME) https://vizhub.healthdata.org/gbd-results/.
[2] GBD 2019 Mental Disorders Collaborators, Global, regional, and national burden of 12 mental disorders in 204 countries and territories, 1990–2019: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2019, «The Lancet Psychiatry», 9(2) (2022), pp. 137-150.
[3] A. Gómez-Carrillo, L.J. Kirmayer, N.K. Aggarwal, K.S. Bhui, K.P.L. Fung, B.A. Kohrt, e R. Lewis-Fernández, Integrating neuroscience in psychiatry: a cultural–ecosocial systemic approach, «The Lancet Psychiatry», 10(4) (2023), pp. 296-304.
[4] L.M. Romero e B.M. Gormally, How truly conserved is the “well-conserved” vertebrate stress response?, «Integrative and Comparative Biology», 59(2) (2019), pp. 273-281.
[5] R.M. Sapolsky, Why Zebras Don’t get Ulcers, Holt Paperbacks, 2004.
[6] D. Card e G. Dahl, Family Violence and Football: The Effect of Unexpected Emotional Cues on Violent Behavior, «Quarterly Journal Economics», 126 (2011): 103.
[7] A. Singh Manoux, N. Adler e M.G. Marmot, Subjective social status: its determinants and its association with measures of ill-health in the Whitehall II study, «Social Science and Medicine», 56 (2003): 1321.
[8] I. Kawachi, B.P. Kennedy, K. Lochner, e D. Prothrow-Stith, Social capital, income inequality, and mortality, «American Journal of Public Health», 87(9) (1997), pp. 1491-1498.
[9] R.A. Karasek Jr., Job demands, job decision latitude, and mental strain: Implications for job redesign, «Administrative Science Quarterly», 285-308 (1979).
[10] L. Mastrodonato, Glovo ha licenziato un rider morto in un incidente, «Wired», 4 ottobre 2022