Manlio Sgalambro: il filosofo empio che salvò il cantante mistico
- 31 Dicembre 2024

Manlio Sgalambro: il filosofo empio che salvò il cantante mistico

Scritto da Luca Farruggio

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I cantanti, da sempre, hanno avuto una grande influenza sulle giovani generazioni. Non a caso i bambini, per dormire, spesso hanno bisogno della ninna nanna. Come è antica, la “cosa”. Talmente antica che Ramón Andrés, in Il mondo nell’orecchio[1], parla del rapporto originario-esoterico che lega il cosmo e l’uomo attraverso la magia della musica. Quindi, la musica è fondamentale nella vita di ogni vivente. Tuttavia, oggi sembra diffusa una certa preoccupazione riguardo l’influenza esercitata da alcune figure artistiche sui giovani; molti sostengono come sia preferibile che l’impatto culturale provenga da alcuni cantanti anziché da altri, soprattutto in un contesto in cui le nuove generazioni sembrano disorientate e, a volte, prive di punti di riferimento solidi.

Fenomeni analoghi si riscontravano già in passato, con comportamenti tipicamente legati a certi gruppi musicali come il consumo di sostanze stupefacenti – nonostante si potrebbe osservare che la qualità sonora di allora fosse spesso superiore a quella odierna. Resta il fatto che non tutti i fruitori di quelle tendenze culturali hanno superato indenni il loro impatto. Nulla di nuovo, dunque: il rapporto magico tra musica e uomo, in molte tradizioni, è segnato sin dalle origini dall’uso rituale dall’elemento “ciceone”, la bevanda che rompeva il digiuno rituale dei riti misterici eleusini nella Grecia antica.

E cosa accade quando la musica ha la pretesa di essere “sacra” come in Franco Battiato? Nella celebre canzone Shock in my town, scritta con il filosofo lentinese Manlio Sgalambro, e contenuta nell’album Gommalacca (1998), viene tracciato in maniera originale e catastrofica uno scenario tremendo, ma realissimo. Il fatto evidente di un popolo caduto nella confusione, viene tratteggiato con immagini fortissime: “rozzi cibernetici signori degli anelli, orgoglio dei manicomi”; e tra droghe e allucinazioni (chiaro il riferimento alla generazione appartenente alla rock band statunitense Velvet Underground), ci si imbatte in “tribù di sub-urbani” che devono ricorrere alla mescalina “per scappare via dalla paranoia”. Un viaggio che evidentemente “finisce male”. Di fronte a questa visione, Battiato, che da sempre si è contraddistinto per la sua eclettica e complessa ricerca spirituale, ricorre con “urla” alla dottrina gurdjieffiana degli shock addizionali e del risveglio della kundalini.

Tuttavia, è bene soffermarsi soprattutto su questo passo del brano: “ho sentito urla di furore di generazioni senza più passato, di neo-primitivi”. Le droghe, le allucinazioni, le elucubrazioni mentali del fantasy, il caos ecc., sono gli effetti di questo grande e vero male: un popolo senza radici. E non è un caso che, nella canzone, il rimedio venga cercato proprio in ciò che è stato perduto: il senso spirituale della vita. Infatti, da tante generazioni (si pensi alla non dignità che nelle scuole viene assegnata all’insegnamento della religione cattolica), non si prende più in considerazione lo studio delle religioni.

Nonostante ciò, ascoltare Battiato è sia un rischio sia un privilegio. Il rischio sta nel fatto che – proprio per questa sua tendenza spirituale mai ben delineata e sempre ricca di infiniti rimandi a dottrine tra loro confuse e mischiate – ci si può smarrire facendo di lui un santone da seguire ciecamente, un creatore di una nuova religione “fai da te”. Un privilegio, invece, è che il cantautore siciliano apriva finestre su mondi che nemmeno la Chiesa occidentale conosce bene: Isacco di Ninive, il Monte Athos, i sufi e tante altre cose molto interessanti.

È vero, come ha sostenuto Massimo Cacciari, che Manlio Sgalambro (grande amico dello stesso Cacciari) ha in qualche modo appesantito Battiato. I testi (volendo lasciare immacolata La cura) sono diventati duri, acerbi, densi di filosofia occidentale. Ma il filosofo/teologo di Lentini (che da poco avrebbe compiuto cento anni) non essendo religioso, paradossalmente, col suo pessimismo e con la sua empietà lo ha forse salvato, facendolo aderire alla realtà. In che senso?

Leggendo le opere di Manlio Sgalambro sicuramente si rimane colpiti immediatamente dal suo stile provocatorio e ricercato, dal suo linguaggio asciutto e inconfondibile. Basti pensare all’incipit di Anatol: “Il mistero del filosofo è tale che un numero incredibilmente piccolo di individui lo conosce. Egli è pacifico, con l’aria di un conciapelli in vacanza – per via della duplicità delle sostanze –, eppure i segreti del mondo passano per le sue mani. In effetti egli non sa più di quello che sanno gli altri, ma lo sa”[2]. Oppure si pensi all’incipit di Dell’indifferenza in materia di società: “Che ‘io’ debba essere governato: ecco da dove inizia lo scandalo della politica. Solo per canaglie e miserabili, incapaci di autogovernarsi e decidere, c’è la politica come unica via di scampo”[3].

In nessun autore si può trovare qualcosa di simile alla filosofia di Sgalambro. Infatti, collocandosi in uno spazio tutto suo, il filosofo di Lentini era un pensatore libero da ogni istituzione, esplosivo e vulcanico, ma anche consolatorio e calmo come il mare in estate. Potremmo dire che la sua filosofia affronta tutto con disincanto, con questo atteggiamento kantiano: de nobis ipsis silemus, de re agitur.

Nella sua prima opera matura, La morte del sole[4],Sgalambro fa iniziare la filosofia non dalla “Meraviglia” (il ϑαῦμα aristotelico), ma dal “Terrore” e dal “Timore”. In principio vi è il Terrore. Ma anche alla Fine: “Il vero non è più che il certo. Ciò che la coscienza complice riconosce con evidenza essere tale. La mostruosa, terribile cogenza della verità si trasforma nella soddisfazione che si prova a intenderla: se la verità è ciò di cui la coscienza è certa, non c’è niente da temere. L’individuo si libera dall’unico terrore senza la cui intollerabile tensione si annulla la violenza inaudita della conoscenza. L’inizio del sapere è il timore, ma anche la sua conclusione”[5].

Un concetto già espresso da altri filosofi a lui contemporanei, ma Sgalambro aggiunge una sorta di lutto matematico. Tutto è destinato alla dissoluzione, all’entropia, alla morte del sole, alla morte termica (Wärmetod). L’idealismo imperante, inteso come prodotto esclusivo del soggetto, come immanenza della realtà alla coscienza, ha dimenticato l’esteriorità come il tremendo che ci avvolge e ci distrugge. Proprio per questo l’uomo non può che farsi, già da ora, “contemporaneo della fine del mondo”. Niente a che vedere con sentimenti apocalittici e religiosi. Si tratta di un atteggiamento matematicamente preciso, un mondo fatto di numeri che “non si possono amare”[6]. Ciò porta l’uomo alla consapevolezza della distruzione a cui tutto il cosmo è destinato. Da ciò si può intuire perché, nel Trattato dell’età[7], per Sgalambro solo il vecchio è colui che possiede una “vera” età. Il corpo del vecchio è la testimonianza ancora viva e immanente della Fine di tutti gli enti. Proprio questa interpretazione cosmologica lo porterà anche a una riflessione aspra e durissima in materia di società.

In questo scenario della Fine, può forse essere un Dio a dare salvezza? Cos’è e chi è Dio per Sgalambro? Domande che ci riportano alla sua seconda grande opera, il Trattato dell’empietà[8], e al successivo Dialogo teologico[9]. In Sgalambro un altro nome del Terrore è Dio. Dio non agisce a nostro favore e non è contro il cosmo che ci opprime. Dio è proprio il Mondo, perciò “metafisica è quel quid che registra l’occulta presenza di ciò che scavalca l’individuo da tutti i lati e che, alla fine, lo schiaccia come un pidocchio”[10]. Si tratta di un panteismo legato necessariamente al peggio: “La teologia è conoscenza del peggio; ciò è almeno tanto vero, quanto falso che essa sia conoscenza del meglio”[11]; e ancora: “Chi ne vuole sapere di più su Dio sappia che non è diverso dal mondo”[12]. Dio è contro l’uomo così come lo è il Mondo. Dio e Mondo coincidono nell’essere “pesanti”, nell’essere “contro”, nell’essere “datori di morte”. Per Dio, dunque, non ci può essere alcun amore erotico o agapico, semmai si deve praticare sempre l’odium dei. Dio va studiato freddamente, chirurgicamente, sezionato come un insetto. Dio un giorno ci distruggerà e noi non possiamo credere religiosamente “in” lui, ma solo teologicamente “a” lui, alla sua esistenza opprimente. Questa è l’empietà di Sgalambro. Empietà che scaturisce sicuramente da un “mondo pessimo”. Dio e il mondo si possono comprendere e conoscere, ma nessuna speranza può salvare l’uomo. L’uomo può solo sapere, conoscere e vivere con questa consapevolezza, facendosi contemporaneo della morte di tutti e di tutto.

Tuttavia, e lo affermo come elemento positivo, come novitas, in Sgalambro sembra esserci qualcosa che va misteriosamente – seppure per qualche istante – oltre il Mondo, oltre Dio. Questo avviene, appunto, nel “momento felice dell’arte”. Niente, nemmeno l’arte può salvarci dalla Distruzione. Ma il Bello sembra essere l’arma contro Dio, l’arma per un momento di tregua dall’oppressione del Mondo: “Là dove il bello appare tutto si trasforma: non è così?”[13]. Non c’è nulla di “mistico”, ma il Bello ha comunque un suo potere contro il Mondo: “Nella bellezza la stessa opera d’arte scompare inghiottita dal sacro fuoco. La bellezza distrugge l’opera d’arte attraverso cui appare. L’irriverenza del bello non si ferma davanti all’opera d’arte, ma la travolge per trionfare sola”[14]. Rientra nell’Arte anche una certa Retorica (e qui Sgalambro si avvicina cautamente al conterraneo Gorgia) che crea un’etica breve, un’etica di cinque minuti. L’arte con il suo linguaggio, con la sua parola, può divenire strumento “edificante”[15] – seppur non duraturo – di consolazione. Allo stesso modo la musica può essere fonte di distrazione e di divertimento nell’epoca del pessimismo. Ma di una distrazione (non a caso Sgalambro cita-canta una canzone dei Doors) pur sempre legata alla Fine del Mondo: “Nell’età del pessimismo, cioè la nostra, il divertimento è la risposta di chi sa. In questo stupido mondo, ridere e divertirsi è la massima che dovrebbe stare sul frontespizio di un’etica. Una buona etica si conosce dal riso che concede. La musica è la risposta della nostra epoca al pessimismo più cupo. L’addio al mondo sarà cantato. “This is the end, beautiful friend / This is the end, my only friend / The end of our elaborate plans / The end of everything that stands / The end[16].

Quasi sicuramente, dunque, si può affermare che il “potere” dell’Arte, della musica, Battiato lo abbia sperimentato seriamente proprio nella sua collaborazione con Manlio Sgalambro. La gente ha dimenticato Sgalambro (nessuno legge i suoi libri e le conferenze, anche quelle per ricordare i suoi cento anni, non hanno avuto molto senso) e ha santificato Battiato. E se i giovani non sapranno “salvarsi” col misticismo, con la religione… allora si faranno certamente filosofi, aderiranno alla realtà e saranno a loro volta veri maestri di altri giovani. Proprio come ha fatto Manlio Sgalambro con il più giovane Franco Battiato. Sgalambro, in un suo testo recitato, ha sostenuto che la Sicilia è vera – come abbiamo visto – solo nel momento felice dell’arte. E penso che, collaborando artisticamente con Battiato, Sgalambro lo abbia “salvato” molto più del tanatologo padre Bormolini o dell’ex monaco benedettino Camisasca (entrambi ricolmi di sincretismi e di facili ricette spirituali). Sì, il filosofo empio, paradossalmente, ha salvato il cantante mistico!


[1] Ramón Andrés, Il mondo nell’orecchio, Adelphi, Milano 2021.

[2] Manlio Sgalambro, Anatol, Adelphi, Milano 1990, p. 9.

[3] Manlio Sgalambro, Dell’indifferenza in materia di società, Adelphi, Milano 1994, p. 9.

[4] Manlio Sgalambro, La morte del sole, Adelphi, Milano 1982.

[5] Ivi, pp. 20-21.

[6] Ivi, p. 79. “1 NUM3R1 NON 51 POSSONO AMAR3” sarà pure il sottotitolo dell’Opera Campi magnetici di Franco Battiato, Sony Music Entertainment 2000.

[7] Manlio Sgalambro, Trattato dell’età, Adelphi, Milano 1999.

[8] Manlio Sgalambro, Trattato dell’empietà, Adelphi, Milano 1987.

[9] Manlio Sgalambro, Dialogo teologico, Adelphi, Milano 1993.

[10] Manlio Sgalambro, La morte del sole, cit., p. 71.

[11] Manlio Sgalambro, Trattato dell’empietà, cit. p. 38.

[12] Ivi, p. 45.

[13] Tratto da Lettera a un giovane poeta, in Luca Farruggio, Bugie estatiche, Il Filo, Roma 2006.

[14] Manlio Sgalambro, Anatol, cit., p. 31.

[15] Concetto che attraversa tutta l’opera di Sgalambro La consolazione, Adelphi, Milano 1995.

[16] Manlio Sgalambro, Teoria della canzone, Bompiani, Milano 1997, p. 26.

Scritto da
Luca Farruggio

Filosofo, poeta e giornalista pubblicista. Si è laureato in Filosofia della storia al San Raffaele di Milano, dove ha seguito i corsi di Massimo Cacciari, Emanuele Severino e Giovanni Reale. Tra le sue pubblicazioni: “Illuminismo taborico” (2024), “Del pessimismo teologico” (2017), “L’esicasmo e la difesa di Gregorio Palamas” (2013) e “Bugie estatiche” (2006, prefazione di Manlio Sgalambro e postfazione di Enzo Bianchi).

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