“La periferia nuova”. Intervista ad Agostino Petrillo
- 10 Maggio 2019

“La periferia nuova”. Intervista ad Agostino Petrillo

Scritto da Gabriele Giudici

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La periferia oggi riveste un ruolo chiave all’interno di numerose dinamiche sociali, ma viene spesso proposta dai media esclusivamente come violenta e pericolosa, brodo di coltura del rancore sempre più diffuso, e descritta e discussa per lo più in termini generici. Per approfondire il tema, nelle sue numerose dimensioni – urbanistica, sociologica, storica, economica e culturale – abbiamo intervistato Agostino Petrillo a partire dai temi trattati nel suo recente La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, edito da Franco Angeli.

Agostino Petrillo è Professore presso il Politecnico di Milano nel Settore Scientifico Disciplinare: Sociologia dell’ambiente e del territorio. Laureato in Architettura e in Filosofia, con un dottorato di ricerca in Sociologia, si occupa di conflitti, metropoli e problematiche urbane. Più nello specifico, fra i numerosi ambiti e interessi di ricerca, si è interessato delle relazioni tra crisi urbana e trasformazioni del lavoro, dei mutamenti delle identità urbane e degli effetti che la globalizzazione ha nel contesto urbano.


Nel suo ultimo libro ‘’La periferia nuova’’[1], lei parla degli sviluppi moderni del termine periferia. È possibile rintracciare un’evoluzione del termine anche in epoca preindustriale? Adottando dunque un punto di vista prettamente storico, a quando si può far risalire il momento della nascita delle cosiddette “periferie”?

Agostino Petrillo: C’è un lungo dibattito storiografico intorno al momento iniziale delle periferie moderne, dibattito che ha anche alcuni difetti dato che non si può ragionare sulla questione senza avere un chiaro concetto di quello che si intende con il termine di periferia. Quindi prima occorre una riflessione epistemologica sulla parola periferia. Per dirla con Wilhelm Dilthey[2]: non dobbiamo pensare alle periferie del passato unicamente con gli occhi delle periferie attuali. Fatta salva questa assunzione possiamo analizzare le diverse posizioni presenti nel dibattito urbanistico. Alcune partono con una boutade dal pensiero che le periferie siano in fondo sempre esistite, qualcuno ha preso spunto addirittura da Erodoto e dal suo racconto dell’assedio di Babilonia. Da qui l’idea che anche le grandi città antiche abbiano avuto delle periferie. Idea discutibile, e continuità storica forse più apparente che sostanziale, smentita per esempio dal fatto che la città medioevale si forma e si presenta come una città conclusa e compiuta, dove si esistono certo divisioni e ripartizioni interne, ma molto lontane dal termine di ‘’periferia’’ odierno.

Quando nella società industriale, in primis con la nascita delle mushroom towns, si assiste ad una specifica ri-semantizazzione del termine “periferia”, in che maniera la sua trasformazione arriva ad influenzare le dinamiche evolutive della città stessa?

Agostino Petrillo: Qui si inseriscono le teorie successive sulla nascita delle periferie, per l’appunto emerge un altro tipo di posizione, che sostiene che le periferie europee nascano con la rivoluzione industriale e la città industriale. Una posizione che insiste sul modello di rapporto centro-periferia che si va a delineare a Parigi dopo l’intervento haussmanniano,[3] che rappresenta il modello che poi, alla lunga, si imporrà in Europa: il centro ad uso quasi esclusivo della classe borghese e una parte della popolazione che prima viveva in luoghi centrali che viene respinta ai margini dell’urbano. Alle percées e ai grands travaux haussmanniani corrisponde lo sviluppo della petit banlieue; è la nascita delle periferie concentriche, delle periferie areali ed è un modello che in Europa verrà ripreso frequentemente fino ad imporsi come egemonico. Un’altra, distinta posizione valuta che le periferie moderne nascano negli anni Venti e Trenta, in parte negli Stati Uniti d’America, quando si afferma il mezzo di trasporto individuale, e simultaneamente, dall’altra parte dell’Atlantico, in un’Europa in cui si consolida fino a divenire “normale” la produzione di abitazioni popolari: ulteriore fattore di nascita di periferie nuove. Proprio sulla questione abitativa e sullo sviluppo di una politica della casa nei sistemi welfariani si concentra una ancora differente visione delle periferie, che ne individua l’alba solo nel periodo post bellico, dopo il 1945, quale risultante delle politiche dei Governi volte a fornire su larga scala delle abitazioni sociali, a prezzi ragionevoli, ai lavoratori. La stagione della città pubblica quindi, dall’INA casa italiana agli HLM francesi. Concludendo ci sono molte risposte possibili e nessuna di esse è del tutto soddisfacente. Anche perché nelle periferie italiane ci rendiamo conto di come questi casi siano sovrapponibili e riconducibili a una periferia molto complessa, articolata, in cui antichi nuclei sono mescolati confusamente con il nuovo e in cui a tratti periferie anni Venti, successivamente gentrificate, cedono il passo a periferie degli anni Sessanta.

 

La periferia nuova

Restando nel contesto italiano, a suo avviso qual è stato il ruolo dell’attore pubblico nei processi di costruzione e sviluppo della periferia soprattutto negli ultimi trent’anni, considerando anche i processi emersi con la globalizzazione e la difficoltà di trovare modalità di gestione virtuose che sappiano tradurre le dinamiche globali in processualità virtuose suoi singoli territori e quartieri periferici? È mai esista una forma di coordinamento nazionale sul tema?

Agostino Petrillo: In Italia tutta la grande stagione della casa popolare si conclude nei primi anni Novanta per tutta una serie di ragioni storico-politiche. In primo luogo perché si diffonde la convinzione che gli italiani siano diventati un ‘’popolo di proprietari di case’’, il che è parzialmente vero considerando però che questo fenomeno è il risultato di una trasformazione del sistema bancario che in effetti permette a molti di acquistare la casa di proprietà, vincolandosi però a mutui di lunga durata. Detto ciò la grande stagione della casa popolare termina in quegli anni in maniera brusca, cosa che invece non avviene in altri paesi europei, in cui pur essendoci una riduzione sostanziale di una buona parte del budget vengono costantemente confermati gli investimenti nell’edilizia. Parliamo di un investimento che per Francia e Germania resta al 3% del bilancio statale mentre l’Italia si arresta solo allo 0,2% circa. Questo è il risultato di una situazione nella quale si riteneva non ci fosse più una domanda abitativa per le fasce medio-basse. Addirittura con la legge Nicolazzi del 1993[4] inizia la svendita e la cartolarizzazione del patrimonio statale, cosa che influirà sulla mala gestione delle periferie da parte degli enti che amministrano gli edifici pubblici, poiché se nello stesso tipo di edificio si individuano situazioni sempre più diverse e frammentate con una varietà di situazioni di proprietà e di affitto si determina una difficoltà gestionale oggettiva e si rischia di provocare un malessere sociale crescente.

Venendo poi alla seconda questione ovvero se qualcuno ha pensato di occuparsene in maniera sistematica devo dire che a lungo non fu fatto nulla. Dobbiamo attendere gli anni recenti affinché si formalizzino le prime commissioni parlamentari sul tema, i cui prodotti restano spesso semplici dichiarazioni di intenti più che veri e propri programmi di intervento. Questo perché a lungo trova spazio l’illusione postmoderna della fine delle periferie. Testimoniata, per fare un esempio dell’egemonia del pensiero post-moderno, dalla voce ‘’periferie’’ della Enciclopedia Treccani, ad opera dell’Arch. Pippo Ciorra, l’articolo è intitolato significativamente ‘’la fine delle periferie’’. Il postmodernismo, infatti, parlava e parla delle periferie come di una questione tutto sommato residuale, ereditata dalla città fordista, e insisteva su come nel mondo metropolitano postmoderno, esse perdessero alcune loro caratteristiche storiche, e si andassero lentamente omologando al resto della città. Una vulgata che insiste sulla teoria della ‘’città infinita’’, sulla attraversabilità urbana e sulla fine delle barriere. La periferia in una simile prospettiva è una “sopravvivenza” di una passata separatezza delle diverse parti della città. Come se le divisioni fordiste dal punto di vista sociale ed etnico scomparissero di colpo e si assistesse quindi ad un orizzonte nuovo, in cui perdono di validità più i vecchi strumenti di controllo. Si è trattato di un colossale fraintendimento, dovuto al fatto che nessuno all’epoca si era accorto che il nuovo modo di produzione che si andava affermando, la cosiddetta produzione immateriale, aveva comunque in sé un portato di frammentazione e disuguaglianza; diverso nei modi e nei tempi ma altrettanto importante sulle disuguaglianze allora in gestazione. A vecchie modalità di separatezza se ne stavano sostituendo nuove, ma non certo meno importanti. 

Le metamorfosi che hanno interessato le forme abitative negli ultimi due secoli hanno portato anche ad un profondo ripensamento del senso degli spazi di vita facendo emergere una forte polarizzazione tra spazi di vita privati e spazi di vita pubblici. Queste due dimensione del vivere collettivo acquistano particolari connotazioni all’interno delle aree periferiche. È d’accordo con questa lettura? In che modo ciò determina la coesione sociale e il vivere comunitario nelle aree periferiche?

Agostino Petrillo: Spazio pubblico e privato, di nuovo se vogliamo ritornare alle considerazioni precedenti c’è una questione di fondo: l’idea che la gestione della città post fordista e neoliberale sia una gestione che può prescindere dalle classi sociali. Questo argomento prevale nelle posizioni neoliberali. La città non esiste come dimensione collettiva, comune, ma viene gestita come una sommatoria di individui. In urbanistica e in architettura, ad esempio, si hanno posizioni estreme nelle quali c’è chi afferma che la città vada progettata e pensata per singoli edifici. La città è una sommatoria di case. Abbiamo a lungo subito l’egemonia culturale di questa posizione che tende a cancellare la dimensione pubblica della città non solo aggredendo gli spazi pubblici dal punto di vista fisico, depotenziandoli e privatizzandoli, ma che sostiene esistano solo individualità singole, e non gruppi e classi sociali riconoscibili e spazialmente collocati. Ma da questa assunzione di fondo a una crescente frammentazione della dimensione pubblica e quindi al tramonto di alcune forme della rappresentanza politica il passo è breve. È chiaro che quando esistevano dei sensori sui territori (Partiti, Sindacati, Associazioni) anche il tipo di rappresentanza politica che ne derivava era più consapevole delle realtà territoriali rispetto alla formazione e alla consapevolezza media che troviamo in quella successiva. Sono temi da tempo analizzati dalla filosofia politica, c’è comunque una crisi oggettiva dei corpi intermedi, che non è unicamente legata al venir meno degli attori storici, ma che è anche legata alle trasformazione dello stato nel post-fordismo. C’è l’onda lunga di quella che era stata chiamata la crisi della razionalità, che si ripercuote sulle istituzioni, creando un orizzonte in cui da una parte le realtà locali hanno sempre meno possibilità di avere voice come diceva Hirschman[5]; dall’altra c’è anche una situazione in cui sarebbe necessario dare spazio a istanze nuove ma non si riescono a individuare gli strumenti che consentano questo passaggio. 

 

Una grande questione sociale

Partendo da questo ultimo punto, è quindi possibile una mobilitazione e attivazione degli abitanti delle periferie in grado di generare una coscienza politica e un conseguente agire che possa sfociare in impegno diffuso evitando forme di segregazione e disinnescando i meccanismi che portano alla nascita di un sentimento di rancore?

Agostino Petrillo: In questo contesto si staglia il tramonto del lavoro salariato, che era il veicolo di una integrazione e era anche uno strumento di connessione dei quartieri periferici con il resto della città. Una volta rotto quello che Giovanni Arrighi chiamava ‘’Il diamante del lavoro ’’, una volta che il lavoro industriale è andato in frantumi, risulta chiaro che anche tutta una serie di legami e connessioni tra le periferie e il centro vengono meno, acuendo l’isolamento delle prime. Ciò rende per alcune periferie ancora più drammatico il destino presente di quanto già non lo fosse la situazione precedente di città-dormitorio. La città dormitorio aveva ancora il versante della fabbrica: luogo di aggregazione e conoscenza, alternativa all’universo domestico, luogo a volte di progettualità collettiva e di rivolta. Rompendosi questa connessione, l’isolamento di alcuni quartieri è aumentato, e non è legato solo all’assenza dei servizi ma è una più radicale separazione, che passa dal venire meno del collante del lavoro. Per cui in alcune periferie, che nel libro ho chiamato ‘’periferie al quadrato’’, si vive oggi una dimensione di ancora maggiore segregazione si quanto non avvenisse nel passato industriale. E questo senza nostalgie del passato, segnato dall’istituzionalizzazione di profonde differenze tra periferia e centro, ma diversa dalla situazione di oggi di un totale distacco di alcune componenti rispetto al resto della società. Io ho anche insistito proprio sul fatto che le periferie siano oggi dei contenitori diversi dal passato (ci vivono giovani precarizzati, migranti, pensionati). Questo mix sociale senza precedenti contiene in sé delle risorse e delle potenzialità. Le periferie celano una intelligenza, delle capacità che non trovano applicazione. Ma questa varietà si pone anche come ostacolo poiché la sua eterogeneità non fornisce possibilità di formazione di un’unica voce politica, al di là di esempi ‘’una tantum’’ com’è il caso di alcune periferie milanesi. Comune a tutte è comunque una richiesta inarticolata di intervento del pubblico, che trova però esempi incredibili, sfacciati di negazione. Al di là dei fiumi di retorica sparsi sulla questione, lo stato in genere si ritira, si sottrae, si nega a questa domanda che cresce. E non tutti parlano, alcuni votano e basta… sono epifenomeni che non devono fare dimenticare che esiste una questione delle periferie molto più vasta e che ha i tratti di una grande questione sociale inevasa: che ne facciamo del popolo delle periferie? che ne facciamo dei nuovi squilibri spaziali-territoriali?

Si sente spesso parlare di nuove povertà, ma quando sentiamo questi discorsi continuiamo a rimanere meravigliati della vaghezza e della approssimazione con cui vengono valutati i dati che riguardano proprio la questione della progressiva marginalizzazione di parti importanti della popolazione. Finora abbiamo sentito ripetere a nausea la liturgia della sicurezza come se i gravi problemi sociali si potessero ridurre unicamente a questioni di sicurezza. È come se il rendere più sicure parti di città potesse risolvere i problemi delle crescenti disparità che si disegnano sulla città. È chiaro che qui si apre una grande partita che deve prendere le mosse dal modo in cui si muove il capitalismo contemporaneo, che con buona pace dei post moderni, ridisegna disuguaglianze, in maniera diversa ma altrettanto efficace e pesante per i territori stessi. Qui si apre un campo di ricerca anche sociale poco esplorato. Bisognerebbe cercare di comprendere come la nuova catena della logistica e della localizzazione industriale e insediativa operano producendo squilibri nei territori di cui beneficiano, obbligando a un ripensamento complessivo delle condizioni generali in cui si sviluppa e prospera il capitalismo contemporaneo.


[1] A. Petrillo, La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, FrancoAngeli Milano 2018.

[2] Wilhelm Dilthey: filosofo e psicologo tedesco, rappresentante dell’indirizzo filosofico post-hegeliano della seconda metà del XIX secolo.

[3] Con ‘’modello Haussmanniano” si intende la rivoluzione urbana operata dal Barone Hausmann nella Parigi della seconda metà dell’Ottocento su mandato di Napoleone III.

[4] L. 24 dicembre 1993, n. 94 – Norme sull’alienabilità del patrimonio pubblico.

[5] Albert Otto Hirschman è stato un economista tedesco naturalizzato statunitense, autore di diversi libri di economia politica.

Scritto da
Gabriele Giudici

Vicesindaco di Ciserano, laureato al Politecnico di Milano e libero professionista nel ramo dell’Architettura. Attivista nel Partito Democratico.

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