Scritto da Carlotta Mingardi, Andrea Pareschi
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L’allontanamento tra cittadini e istituzioni politiche rappresenta oggi un problema fondamentale per le democrazie europee e non solo. Il progetto REDIRECT (REpresentative DIsconnect RECTification), guidato da Luca Verzichelli, Professore ordinario al Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive dell’Università di Siena, studia questo distacco, definito “disconnessione rappresentativa”, attraverso indagini multidisciplinari e metodologicamente diversificate.
La ricerca, condotta in otto Paesi europei, si concentra particolarmente sui giovani, sempre più distanti dalla dimensione collettiva della politica. Tra le soluzioni proposte figurano riforme partecipative locali, quote giovanili nelle istituzioni e nuove forme di educazione politica, per ricostruire il dialogo democratico e riconnettere i cittadini e i loro rappresentanti.
Il progetto REDIRECT ruota attorno alla crisi della democrazia rappresentativa, tanto che la prima parte dell’acronimo sta per REpresentative DIsconnect, ovvero “disconnessione rappresentativa”. Che cosa si intende per “disconnessione rappresentativa”?
Luca Verzichelli: La cosiddetta “disconnessione rappresentativa” è un fenomeno multidimensionale che, come tale, è connesso a tanti fattori. Fattori che inevitabilmente sono correlati, che possono tuttavia essere ordinati, in modo da poter intervenire non solo nella spiegazione ma anche poi, sperabilmente, nella rettifica della disconnessione, ovvero nell’approcciare qualche strategia di riconnessione. Ed è un fenomeno multidimensionale che attiene a varie sfere. Noi ne abbiamo identificate tre: la sfera della governance, la sfera dell’intermediazione e la sfera affettiva, quella che ha a che vedere con i sentimenti o le sensazioni di ogni singolo individuo. Queste tre sfere comprendono i fattori che agiscono in relazione a quella rottura che chiamiamo disconnessione rappresentativa. Siamo incerti, in realtà, se definirla come una rottura o come un lento scivolamento, tant’è vero che un logo che abbiamo scelto per uno dei nostri prodotti è il palloncino di elio che si allontana nel cielo. L’oggetto di questo allontanamento, o di questa rottura se si preferisce la versione più violenta, è il demos-kratos link: sostanzialmente, il vecchio legame tra popolo e forma complessiva di governo. Siccome il legame demos-kratos è sempre stato rappresentativo, o indiretto, tutto questo ha a che vedere in fin dei conti con la rappresentanza. Ecco perché parliamo di “disconnessione rappresentativa”.
I temi affrontati dal progetto, come la preoccupazione per la disaffezione democratica e la crisi della democrazia non sono nuovi: eppure, nel tempo sono diventati non solo sempre più evidenti nelle nostre società, ma anche sempre più importanti nel loro impatto sul funzionamento delle democrazie. Perché lavorare a questo progetto ora?
Luca Verzichelli: Il progetto è molto ampio, naturalmente multidisciplinare. Abbiamo deciso di lavorare su un progetto di questo tipo quando ci siamo resi conto che questo era il momento per creare un’occasione di far comprendere che l’impegno di ogni singolo ricercatore, anche delle varie discipline che rappresentiamo, può contribuire ad invertire i processi in atto. Parliamo quindi di contributi dalla teoria politica alla scienza politica empirica, alla politica comparata, e per certi versi anche da parte della sociologia e della psicologia politica. Al tempo stesso, questo può darci anche un’opportunità come studiosi che vogliono ricominciare ad avere un ruolo diverso. Intanto, per riconnettere il nostro lavoro alla società che abitiamo, e poi, più ambiziosamente, per provare a riconnettere l’elettorato e la cittadinanza con le istituzioni e i processi della democrazia. Il tentativo è dunque quello di darci un’opportunità nuova. Questo, in qualche misura, significa anche cambiare il linguaggio; se vogliamo, cambiare un po’ anche il nostro approccio a questi temi. Tutto questo, io lo definisco come un percorso di ricerca di una “pedagogia democratica”.
Il tema della distanza, o proprio del distacco, fra la classe politica e la popolazione viene indagato dalla scienza politica, ma è anche presente nel dibattito pubblico, dove alcuni attori hanno idee molto connotate su quale dei due livelli abbia più colpe per questo distacco. Quali cause inquadrate come fattori fondamentali alla base del divario? È possibile ricondurre la disconnessione principalmente ai comportamenti e agli atteggiamenti dei politici o, viceversa, a quelli dei cittadini?
Luca Verzichelli: È bene premettere alla risposta un caveat. Io credo che la crisi democratica attuale sia allarmante: alla base di questa ricerca vi è quindi una preoccupazione reale. Non voglio entrare in una logica comparativa su quale crisi comporti i rischi maggiori, tra questa crisi endogena oppure una di natura esogena, come la pandemia, o la crisi economica o quella migratoria o, prima ancora, la Guerra Fredda. Credo però che ci troviamo in una crisi tutta interna al processo democratico che si palesa indipendentemente dalla presenza di fattori specifici, internazionali o domestici, che peggiorano la qualità democratica. Un fenomeno, appunto, di portata immensa. Questa preoccupazione suggerisce, da un lato, che tutti gli attori in gioco hanno responsabilità enormi; quindi, mette in guardia contro spiegazioni monocausali o, comunque, contro l’identificazione di un capro espiatorio. Dall’altra parte, richiama alle nostre responsabilità o, per lo meno, alle responsabilità dei decisori. È evidente che c’è una responsabilità di un sistema di decisori, di un sistema di élite: certamente non possiamo dare la responsabilità soltanto agli “apatici” o ai “disconnessi”. Va però considerata anche la sfera affettiva di cui parlavamo, che ci prende tutti, a livello individuale, e che ci spinge ad essere sempre meno attenti alla dimensione collettiva della vita oltre che della politica. Ecco perché non basta la spiegazione sul piano della governance, che prevede di migliorare le istituzioni. O la spiegazione sul piano dell’intermediazione, che punta a ridare una chance a tutte quelle meravigliose esperienze di scuola politica che sono state, nel XX secolo, i grandi intermediatori verso la politica: penso soprattutto ai partiti politici, ma non solo. Non è sufficiente. Bisogna lavorare anche, e subito, sulla dimensione affettiva individuale.
Prima abbiamo menzionato il tentativo, da parte del progetto, di riportare la figura dell’accademico e della ricerca scientifica più a contatto con le società che si studiano, e di come questo progetto sia inteso anche come un lavoro di natura multidisciplinare. A livello di metodo, come si approccia un tema come la disconnessione rappresentativa? Come lo si studia e come lo si misura?
Luca Verzichelli: L’obiettivo è quello di cominciare ad allineare le nostre spiegazioni, le nostre interpretazioni, per arrivare a una teoria che sia autenticamente condivisa, non solo da diversi studiosi ma anche da coloro che seguono questi diversi studiosi. Penso agli studenti e ai cittadini, che già in qualche misura si “nutrono” di queste teorie leggendoci, ma che potrebbero e dovrebbero partecipare al dialogo e alla disseminazione mediatica. Per il momento, ci siamo mossi sul livello multidisciplinare, nel quale gli strumenti di ogni ricercatore rimangono separati. Nel contempo, abbiamo pensato questo progetto come un lavoro di comunità: ci troviamo ogni lunedì in un meeting online, dove tutti coloro che sono parte del progetto possono intervenire e gli altri ascoltano ciò che, da prospettive disciplinari diverse, è stato portato avanti. In questo modo i metodi, inevitabilmente, diventano misti. Guardando anche soltanto la parte empirica, vi è stato per prima cosa un lavoro di rassegna teorica della letteratura trasversale rispetto alla disconnessione democratica e rappresentativa. Abbiamo unito quattro tipi di ricerche. Innanzitutto una ricerca qualitativa intensiva, sui feelings di una serie di “addetti ai lavori politici”, ovvero persone che hanno esperienze da condividere riguardo il processo rappresentativo. Contestualmente, stiamo portando avanti un’analisi quantitativa, tramite sondaggi che si rivolgono sia, di nuovo, ai rappresentanti politici, sia ai cittadini. Poi abbiamo previsto un’analisi del discorso e delle narrazioni di un gruppo di portatori di conoscenza, al fine di indagare anche il tema della dimensione affettiva nei confronti della rappresentanza politica. Abbiamo preferito farlo con un metodo, il Delphi, che si basa su un esercizio ripetitivo e sulla interazione tra i soggetti e i ricercatori. Infine, vi è una parte del progetto più attenta allo studio dell’aspetto deliberativo, che prevede un’esperienza con dei mini-publics, corpi di cittadini selezionati casualmente per deliberazioni collettive su specifiche questioni di interesse generale. Abbiamo quindi a disposizione strumenti molto diversi, tutti già testati. Non c’è niente di particolarmente innovativo, se vogliamo. Ma la novità è far parlare tra loro queste esperienze e riconnettere le tante piccole comunità di studi.
Uno dei temi di interesse per il progetto REDIRECT è, in particolare, il rapporto fra i giovani e la democrazia. Qual è il motivo, o quali sono i motivi, per cui i giovani sembrano essere piuttosto sfiduciati dalle modalità tradizionali della politica? E quali caratteristiche contraddistinguono la generazione più giovane, al momento, sul piano politico?
Luca Verzichelli: È un aspetto a cui teniamo molto. E ci teniamo non solo per la particolare attenzione che sviluppiamo vivendo in mezzo ai giovani e rendendoci conto, sempre di più, che questa disconnessione riguarda, purtroppo, molti di loro. Come dicevamo, la disconnessione è un fenomeno complesso che riguarda tutti. Tuttavia penalizza specialmente i giovani, in modo paradossale. Li penalizza più delle generazioni meno avvezze alla comunicazione digitale, perché li isola, e perché al tempo stesso li lascia particolarmente chiusi all’interno delle loro bolle. Questo è meno evidente nelle generazioni più anziane che, comunque, hanno avuto l’opportunità di socializzare in precedenza con una dimensione collettiva della politica. A questo aggiungiamo che, per la generazione più giovane, ci sono costi enormi anche sul piano delle aspettative e delle paure: qui entra in gioco la questione delle guerre e delle grandi crisi internazionali, che ha rafforzato ulteriormente questo genere di sensazioni. Ecco perché il tema ci sembrava e ci sembra di per sé molto rilevante, e da affrontare in maniera specifica. Le interviste qualitative a cui facevo riferimento prima riguardano in particolare una serie di atteggiamenti dei giovani rappresentanti, così come andremo anche a valutare fra il pubblico, in particolare, l’isolamento o l’auto-isolamento di alcuni giovani. Abbiamo raccolto alcuni dati significativi. Possiamo confermare che, riguardo ai soggetti dell’intermediazione politica, il distacco dei giovani è evidente. Ci sono lodevoli eccezioni, naturalmente. E i giovani mostrano grande generosità in alcuni aspetti associativi, per esempio nella cooperazione. Ma in generale, tra di essi non sono frequenti l’impegno nei partiti e anche l’impegno di tipo associativo. I giovani non collegano immediatamente la loro generosità sociale ad una capacità di azione e di interazione a livello pubblico e politico. E questo mi pare un primo problema: una crisi di membership o una crisi di appeal dei leader politici, di per sé, non rappresenterebbero colpi mortali. Ma se un’intera generazione si rifiuta di avere fiducia, indipendentemente dai partiti o dai leader in gioco, nella dimensione collettiva della politica, il disconnect rischia di diventare assoluto.
Noi non ci siamo inizialmente soffermati sul tema dei partiti, perché il progetto non aveva considerato questo specifico oggetto, sul quale esiste una solida letteratura. Ma i dati sulla membership partitica rivelano davvero uno scenario preoccupante. Di nuovo, è cruciale il problema dei giovani: essi possono anche evitare di fare politica, delegando questa attività ad altri segmenti sociali. Però devono avere la percezione che qualcuno la fa per loro, e rimanere dialoganti con la politica. Nella partecipazione elettorale, così come in quella legata agli strumenti di democrazia diretta, vi sono segnali di allontanamento dei giovani. Questi dati, preoccupanti, sono trasversali rispetto a tutti i Paesi che stiamo studiando.
Ragionando invece in termini di correzione di questa tendenza alla disconnessione, che idea vi siete fatti riguardo a quali potrebbero essere le eventuali proposte per invertire, o perlomeno contenere, gli effetti di questo processo?
Luca Verzichelli: Questo è il lato più ambizioso del progetto: stiamo cercando di capire, in maniera sobria e pragmatica, come correggere – la parola inglese nel nostro slogan è RECTification, da cui la seconda metà dell’acronimo del progetto – questa tendenza. Da questo punto di vista, ci aiuta molto l’esperienza che stiamo facendo con alcuni esperimenti. Stiamo cercando di far ragionare i nostri esperti e i nostri intervistati su situazioni in mutamento. Vogliamo, assieme a loro, intravedere alcune soluzioni, anche recuperando idee che erano un po’ passate di moda, o che sono state “parcheggiate” di lato. Mi riferisco, in particolare, all’idea che i parlamenti, pur abbandonando le leve legislative, o quantomeno lasciando sempre più strada ai governi nel processo decisionale, possano essere reinvestiti di funzioni di collegamento sociale e anche, appunto, pedagogico. Un altro aspetto che stiamo ancora valutando, ma che potrebbe essere il valore aggiunto della ricerca, è quello di riportare all’interno del quadro di riconnessione anche i partiti, con qualcosa che assomigli, magari con un nome diverso, ad una scuola di partito. Una “scuola” di cittadinanza che possa costruire ponti tra soggetti politici, università pubbliche, fondazioni, e tutti coloro che vestono un abito “pubblico” e che vogliano far conoscere il volto più propositivo e umano della politica alle nuove generazioni. Il mio punto è che, lavorando assieme ad attori che i giovani conoscono meglio, le fondazioni di partito non sarebbero più concepite come cenacoli di élite, escludenti e anacronistici. Lo stesso vantaggio potrebbero averlo i soggetti che si occupano di disseminazione scientifica, e così via. L’intento è quello di aumentare la fiducia reciproca tra tutti coloro che hanno a che fare con la democrazia. Questo ridurrebbe la percezione di polarizzazione e aiuterebbe a condividere linguaggio e stili. Ecco. Abbiamo l’ambizione di poter migliorare il linguaggio di chi fa politica.
Un’altra questione riguarda in effetti le possibili riforme istituzionali da attuare per contrastare questa crisi della democrazia: in particolare, se si possa pensare a riscoperte, magari in altre forme, di soluzioni che sono state valide per la democrazia rappresentativa in passato, o se si debba pensare a innovazioni radicali. Vi aspettate che il progetto possa approdare a suggerire modifiche che sono dei correttivi al margine, oppure anche riforme pervasive che cambiano il nostro concetto di democrazia rappresentativa come l’abbiamo conosciuto fin qui?
Luca Verzichelli: Questa è una questione che mi sta a cuore. Credo che sia una specie di quesito permanente che dovrebbero porsi in tanti. Certamente se lo pongono, accanto a REDIRECT, i “progetti sorelle”, come li chiamiamo, finanziati dalla Commissione Europea tramite il bando Democracy in Flux. Siamo in contatto con vari studiosi di diverse discipline che lavorano in questi network. Il 16 maggio saremo a Bruxelles a discutere di scenari futuri per la democrazia in Europa, ragionando proprio su questi problemi insieme a diversi stakeholder dell’Unione Europea. Non a caso, abbiamo chiamato questo evento Soul Searching Democracy. Io penso che vi sia spazio per riformare dal basso le democrazie senza stravolgerne le istituzioni. Nel livello subnazionale è forse possibile sperimentare di più e riattivare dei legami che poi potrebbero rafforzarsi anche sul piano nazionale. La mia personale visione è che abbiamo già sperimentato il fallimento di una richiesta di democrazia “decidente”. Questo non significa sposare in toto la visione lijparthiana della superiorità della consensus democracy. Credo però che varie esperienze ci abbiano insegnato a guardarci da soluzioni semplificatorie come sono molte ricette iper-maggioritariste. Insomma, se mi si chiede se credo, per esempio, che una riforma come l’elezione diretta del capo dell’esecutivo possa costituire la risposta a tutti i problemi dell’Italia, la mia posizione rimane chiara: “grazie ma no grazie”. Al tempo stesso penso che si possa, anzi si debba, mettere mano a ogni possibile tentativo per far funzionare le istituzioni che ci sono – a casa nostra il parlamentarismo – discutendo laicamente come integrarle con pratiche deliberative nuove.
Come dicevo, possiamo lavorare a partire dai meccanismi più bassi della catena delle deleghe. Per esempio, incentivando la partecipazione. Si può fare. Si possono creare strumenti deliberativi, non in opposizione alle assemblee locali, ma come un canale aggiuntivo messo a disposizione dei cittadini. Ai consiglieri di quel Comune, quindi, si dirà: “Signori, voi d’ora in poi avrete più responsabilità, ma dovete ascoltare due volte all’anno, tre volte all’anno, il city meeting”. Un’altra strada da percorrere: quote di rappresentanza per i giovani (e naturalmente quote rosa). Ne avevo scritto in un libro del 2010, ma all’epoca non ci credevo fino in fondo nemmeno io. A distanza di tanti anni, però, mi chiedo: cosa ci costa sperimentare le quote – su cui abbiamo già discusso molto – a vantaggio dei giovani e al livello delle istituzioni locali? Potrebbero diventare la “palestra” per riportare dei ventenni e dei trentenni dentro le istituzioni. E forse molti loro coetanei potrebbero riscoprire il brivido del voto. Sono un forte assertore, quindi, del “correttivo”, partendo da quelle istituzioni che è più facile cambiare perché non hanno implicazioni di alta politica e non sono legate a troppi vincoli costituzionali.
Dal vostro punto di osservazione, dal panorama che voi vedete a livello europeo, riferito perlomeno ai Paesi che state studiando, emergono dei punti in comune? Vi sono delle differenze, magari nelle proposte, nelle problematiche, o il quadro è abbastanza omogeneo?
Luca Verzichelli: È un quadro purtroppo omogeneo per quello che riguarda il disconnect, la cosiddetta disconnessione democratica. In un tale quadro però operano anche fattori specifici dei Paesi analizzati, che spiegano ancora molto bene perché la resilienza – chiamiamola così, anche se ho qualche riserva su questo termine – di alcune pratiche democratiche sia diversa tra un Paese e l’altro. Il progetto studia soltanto alcuni Paesi, nello specifico otto Paesi europei e dell’Unione Europea (sei Paesi UE più Regno Unito e Norvegia). Non abbiamo quindi, naturalmente, la presunzione di spiegare tutto. Però possiamo avanzare qualche interpretazione comparata. Ciò che vediamo per adesso è intanto la differenza Nord / Sud. Può essere paradossale, se pensiamo alla storia dell’intervento pubblico, e anche ai successi della sinistra nell’Europa meridionale. Tuttavia, l’Europa “nordica”, diciamo così, che pure su alcuni aspetti si è mostrata tutt’altro che solidale – ricordiamo l’atteggiamento dei cosiddetti Paesi “frugali” che si opponevano alla condivisione dei costi della crisi migratoria – difende certamente meglio di noi alcune politiche partecipative e inclusive che fanno da antidoto contro apatia e polarizzazione. Penso alle politiche di cittadinanza attiva, a quelle di educazione al civismo e alla sostenibilità. Quegli stessi Paesi sono ancora in grado di offrire politiche di welfare come la disoccupazione e il diritto allo studio, soprattutto a vantaggio delle ultime generazioni, che noi abbiamo praticamente perduto. Per cui, possiamo dire che la dimensione collettiva della politica oggi si vede in modo molto difforme da un Paese all’altro. Di conseguenza, anche la paura degli altri, l’impatto di certi messaggi, che abbiamo definito populisti, sono diversi. Al netto di questo, però, i segnali rimangono simili: e sono simili anche tra Est e Ovest, non solo tra Nord e Sud. Non ci sfuggono le differenze, certamente. Che Viktor Orbán e il suo governo abbiano ridotto di molto le libertà – l’Ungheria è uno dei Paesi che stiamo studiando – è sotto gli occhi di tutti. Ma il problema del disconnect riguarda tutte le democrazie.
È possibile che il modo di intendere la politica da parte degli individui nelle democrazie liberali contemporanee passi un po’ di più per categorie psicologiche e sociologiche. Si pensi a fenomeni come la sovraesposizione ai social media e l’incasellamento in bolle dell’informazione, che si legano a un certo tipo di bisogno di autostima, di affermazione dello status, di veder convalidate le proprie posizioni senza il rischio di sentirsi dire che si ha torto. Sembra che questi sentimenti stiano diventando centrali nell’approccio delle persone, che la scienza politica negli ultimi anni si sia dedicata di più al ruolo delle emozioni. Voi come inquadrate questa sfera, dal punto di vista del problema e anche delle possibili soluzioni?
Luca Verzichelli: Molti studiosi, soprattutto delle ultime generazioni, si sono dedicati a questi problemi, anche con studi sofisticati. Quello che mi spinge ad entrare in questa discussione – tentare di dare un contributo – è l’idea di aiutare l’avanzamento di tutta la comunità scientifica. Penso che abbiamo un po’ peccato di spiegazioni molto “micro” e a volte inutilmente sofisticate. Per così dire, abbiamo guardato il dito, dimenticandoci della luna. Guardare la luna oggi significa chiedersi come si fa a riportare gli individui ad un’attenzione verso la cosa pubblica senza naturalmente togliere loro la libertà, anzi, continuando a garantire quelle libertà che, in fondo, hanno generato questo grande senso di individualismo. Abbiamo dato, nel progetto, una particolare attenzione alla dimensione affettiva proprio per capire cosa spiega le paure e il disagio nei confronti della pratica democratica. La nostra proposta è semplice: “spacchettare” attraverso il nostro lavoro di ricerca empirica – i nostri working packages appunto – i vari meccanismi specifici. Il lavoro su giovani rappresentanti e politica è uno di questi. E miriamo a portare i giovani dentro il nostro ragionamento, non semplicemente ad “intervistarli”. Puntiamo a sperimentare processi di interazione. Altri pacchetti di ricerca si riferiscono allo studio delle reazioni che i soggetti politici possono avere: ecco perché procedere tramite esperimenti. Ed ecco perché troviamo importante capire se i nostri intervistati – non importa se sono persone politicamente versate o semplici membri dell’opinione pubblica – si rendono conto degli effetti del framing a cui sono sottoposti alcuni problemi. Anche nei nostri sondaggi troviamo piccole situazioni sperimentali in cui andiamo a toccare queste corde. Ad esempio, cerchiamo di capire i disagi degli intervistati su temi come la paura della guerra, la paura di doversi sobbarcare i costi eccessivi della solidarietà. Ma anche la paura che nel proprio mondo – tra i propri familiari, amici, colleghi – vi siano soggetti troppo “diversi” da noi. O troppo simili “agli altri”.
Qual è la vostra speranza? Che impatto vorreste avere sul futuro della democrazia nelle società europee?
Luca Verzichelli: Per questo vi diamo appuntamento a dopo il 16 maggio, quando terremo l’evento a Bruxelles, speriamo partecipato e proficuo, soprattutto a livello di Unione Europea. In questi mesi, ci siamo occupati di molteplici aspetti: di politica internazionale, di politica commerciale. Ma è importante tornare a riflettere sulle regole, sui processi democratici. A livello delle nostre singole democrazie, contiamo essenzialmente di portare quelle idee parsimoniose a cui facevo riferimento, per cercare in qualche misura di “impattare” sulle regole del gioco, anche a livello sperimentale, o di democrazia locale. Ed è per questo che tutti questi pacchetti di lavoro dovrebbero comportare anche dei momenti di discussione pubblica. A settembre faremo un convegno a Oslo che metterà al centro del dibattito il rilancio dei partiti: questo perché, come si diceva prima, ci siamo resi conto che si deve ripartire da questi attori, cosicché speriamo di essere capaci, all’indomani di questo convegno, di avere una discussione pubblica con politici sensibili su come riportare la vita dei partiti e la responsabilità delle élite di partito al centro del dibattito. Faremo, naturalmente, la stessa cosa sui temi della connessione tra democrazia rappresentativa e democrazia deliberativa. Per questo realizzeremo tutorial, podcast e video-interviste, che faremo anche con l’aiuto di media partner e di addetti ai lavori. Inoltre, spero di coinvolgere più studenti possibili e in generale più giovani possibili: loro possono insegnarci molto, anche a utilizzare dei linguaggi di cui sono utenti naturali. Ritengo che questo sia il modo migliore per forzare il gioco e cercare di imprimere un trend di correzione rispetto al muro di gomma di disconnessione che si è creato.