Guerre e crimini contro l’umanità. Che fine ha fatto la Responsabilità di Proteggere?
- 24 Gennaio 2018

Guerre e crimini contro l’umanità. Che fine ha fatto la Responsabilità di Proteggere?

Scritto da Matteo Del Conte

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A più di dieci anni dalla sua adozione in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la dottrina della Responsabilità di Proteggere (Rdp) resta tutt’ora controversa. Il dibattito verte particolarmente intorno al suo significato politico e giuridico. Ancor più controversa rimane la possibilità di utilizzo della forza da parte degli Stati per porre fine a gravi casi di atrocità di massa. D’altronde, l’uso della forza motivata da ragioni umanitarie, è una costante della storia politica internazionale.

Secondo questa dottrina di matrice onusiana –tema centrale dell’articolo- spetterebbe agli Stati proteggere i propri cittadini dalle atrocità di massa, dalle più gravi violazioni dei diritti umani; se tuttavia lo Stato non si facesse carico di questa responsabilità, o sia esso stesso l’autore di tali violazioni, è la comunità internazionale che può e deve agire. Come è noto, in politica, teoria e prassi viaggiano su due binari paralleli. Infatti, se la dottrina della RdP rappresenta il primo passo verso una responsabilizzazione collettiva degli Stati nei confronti dei propri cittadini, come mai, alla luce dei molti conflitti aperti, di atti di ribellione e sollevazione essa trova scarsa applicazione?

Di fronte agli innumerevoli conflitti aperti[1], senza tralasciare le specificità di ognuno, e ai diversi casi di persecuzione statale[2] e collasso delle autorità di governo[3] il concetto della RdP assume un carattere di attualità. L’importanza della dottrina si deve al fatto che, a partire dal 2005, essa rappresenta il primo tentativo concettuale ed integrale della società internazionale di porre rimedio alle atrocità di massa che colpiscono le popolazioni civili a seguito di repressione statale, ribellioni, campagne di contro-insurrezione e uccisioni sistematiche. La sua conflittualità si deve al fatto che questo concetto di recente formazione all’interno del complesso sistema delle Relazioni Internazionali riporta in auge vecchi dibattiti in seno alla società internazionale. Tra questi, si annoverano il conflitto tra i principi del sistema westfaliano degli Stati e i diritti degli individui; il complicato rapporto tra etica e politica che in questo caso si manifesta nella tensione tra protezione dei diritti umani e il perseguimento degli interessi nazionali; il contrapporsi di due concezioni della sicurezza, come il paradigma della human security e la più classica concezione della sicurezza nazionale. Inoltre resta aperto lo scontro tra i partigiani del “mito di Westfalia”, sostenitori di un modello di sovranità aperta, contro coloro che appoggiano un modello di sovranità chiusa, inviolabile.

La tesi centrale di questo articolo è che il concetto della RdP, seppur nobile nella sua formulazione teorica incontra una serie di ostacoli di carattere storico, giuridico e politico-militare che ne minano non solo l’intelaiatura logica ma anche la ratio applicativa, soprattutto nei casi in cui viene invocato l’uso della forza per mettere fine ad atti di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica[4].

 

La Responsabilità di Proteggere nel sistema delle Relazioni Internazionali

Il concetto in questione nasce dalla necessità di coniugare la protezione dei diritti umani fondamentali e l’inviolabilità della sovranità statale. Infatti, l’RdP nasce alla fine della così detta golden age dell’intervento umanitario, ossia, gli anni Novanta[5]. Di quegli anni si ricordano soprattutto il genocidio ruandese e la missione NATO del 1999 in Kosovo, per ragioni diverse. Il primo fece scalpore perché la comunità internazionale, dopo il fallimento in Somalia e la ritirata statunitense[6], decise di ignorare il massacro della popolazione di etnia Tutsi da parte degli Hutu[7]. La missione Nato in Kosovo, epilogo delle guerre balcaniche degli anni Novanta, fu invece dettata dalle velleità di supremazia degli Stati Uniti d’America e dalla volontà di dare un nuovo ruolo alla Nato nel mondo del dopo Guerra Fredda, aggirando il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e agendo in maniera unilaterale. I risultati provvisori di questi interventi in termini umanitari e soprattutto le complicazioni politico-diplomatiche dovute all’unilateralità degli Stati Uniti, contribuirono al completo discredito del concetto di intervento umanitario. La Rdp vorrebbe essere una risposta a questo problema, in cui da una parte si afferma la protezione dei diritti umani fondamentali e dall’altra l’inviolabilità sovrana degli Stati, nata convenzionalmente a seguito della Pace di Westfalia del 1648, che mise fine alle guerre di religione che imperversavano sull’Europa.

L’attuale intelaiatura teorica del concetto[8], contenuto nel World Summit Outcome Document del 2005 (art. 138-139), poggia su tre pilastri fondamentali: (I) la responsabilità dello Stato di proteggere la propria popolazione, (II) L’impegno della comunità internazionale nell’assistere gli Stati nei loro obblighi nei confronti dei cittadini. (III) la responsabilità collettiva degli Stati a rispondere in maniera decisiva quando lo Stato sta fallendo in maniera manifesta nel garantire la sicurezza dei propri cittadini. Di fatto, i primi due pilastri rappresentano una “vecchia” novità, dato che in tutta la tradizione contrattualista della filosofia politica occidentale (da Hobbes, a Locke a Rosseau) il patto sociale tra governo e governati risiede proprio nella garanzia di sicurezza da parte del sovrano, toccando dibattiti che hanno ben 400 anni d’età. La vera novità è costituita dal terzo pilastro e soprattutto dagli elementi collettiva, decisiva e in maniera manifesta. Tuttavia, questa formulazione dà luogo ad una serie di interrogativi. Innanzitutto, è la comunità internazionale pronta ad agire collettivamente di fronte ai crimini suddetti? In secondo luogo, che connotazione ha l’aggettivo decisivo quando si parla di un’azione della comunità internazionale? E infine, qual è il discrimine che ci illumina sul manifesto “fallimento” delle autorità nazionali nel proteggere i propri cittadini?

Di fatto, il problema più grande dell’attuale formulazione della dottrina è che essa tende a collassare interamente sul terzo pilastro, e gli Stati, soprattutto quelli più preoccupati per la propria sovranità e indipendenza nazionale (ma in fondo chi non ne è preoccupato), tendono a percepire quest’ultimo pilastro come “vecchio vino in nuove bottiglie”[9], ovvero come l’erede dell’intervento umanitario.

Il risultato è, ed è stato, una progressiva marginalizzazione del concetto della Responsabilità di Proteggere all’interno del complesso sistema delle Relazioni Internazionali.

Le ragioni storiche di questo processo risalgono alla pratica delle Grandi Potenze nell’Ottocento. Durante la crisi della “Questione d’Oriente”, stati come la Francia, l’Inghilterra e la Russia si ersero a paladini dei cristiani e degli ebrei d’Oriente effettuando una serie di interventi all’interno dell’Impero Ottomano. Si ricordano la Guerra di Indipendenza Greca (1821-1827), l’intervento multilaterale a guida francese in Libano nel 1860-1861 e le rivolte balcaniche coronate dall’intervento russo in Bulgaria (1877). Lo spazio a nostra disposizione non ci offre la possibilità di esaminare i retroscena storici dei vari interventi. Tuttavia, si può affermare che la ratio dichiarata alla base degli interventi fu quella della protezione delle minoranze cristiane ed ebraiche dei territori Ottomani, ma di fatto la ratio autentica fu quella della corsa al Mediterraneo e la divisione delle spoglie di un ormai decadente Impero Ottomano. A tal proposito, nell’esaminare l’intervento militare, resta di grande attualità la celebre distinzione tucididea sulle cause sella Guerra del Peloponneso, tra le “cause più autentiche” e le “cause dichiarate”[10]. Dunque, il vocabolario dell’intervento umanitario, nato nella pubblicistica inglese e francese di quegli anni[11], e l’applicazione della forza per ragioni umanitarie nasce in un contesto caratterizzato dai forti connotati coloniali e frutto del gioco della politica delle Grandi Potenze.

 

La marginalizzazione della Responsabilità di Proteggere

In un mondo caratterizzato dall’anarchia, intesa come mancanza di un governo al di sopra degli Stati e di insicurezza come è possibile discernere tra le “cause più autentiche” e le “cause dichiarate” per questo tipo di interventi? Inoltre, la comunità internazionale, non agisce come un attore unitario, con responsabilità collettiva. Questo è un sogno dei pensatori della tradizione liberale delle Relazioni Internazionali, ma di fatto assegnare responsabilità collettiva alla comunità internazionale, caratterizzata dalle sue fratture e divisioni, è un mero esercizio di fede. Quello che si è potuto riscontrare durante gli anni Novanta, è che la risposta alle crisi internazionali, e nel nostro caso quelle umanitarie, ha bisogno di attori-guida che si assumano la maggior parte dei costi politici, militari e umani della missione. Il modo di fare la guerra è cambiato (prevalenza dell’arma aerea, reclutamenti di forze locali come fanteria degli Stati esterni ai conflitti) e il significato della vita ha assunto un altro valore (shock demografici, maggiore peso dei figli nell’economia affettiva della famiglia).

In secondo luogo, dal punto di vista giuridico, la Responsabilità di Proteggere è il frutto di un accordo in seno al Summit Mondiale del 2005. Di fatto si tratta di un evento svoltosi all’interno dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e di fatto non si tratta di un accordo vincolante giuridicamente[12]. Di nuovo, la Responsabilità di Proteggere sarebbe una promessa politica degli Stati di intervenire collettivamente nei casi più gravi di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica. Intervenire non significa necessariamente usare la forza militare, ma ad esempio applicare gradualmente un potere coercitivo (pressione diplomatica, uso di sanzioni, embarghi) atto a persuadere i governi ad interrompere i peggiori atti di repressione. Inoltre, la struttura dell’attuale giustizia penale internazionale non aiuta il sanzionamento degli autori di efferati crimini. L’esempio della persecuzione dei Rohingya da parte del governo birmano è un caso attuale e lampante. Di fatto, a fronte di atti che costituiscono genocidio e pulizia etnica (dallo status giuridico poco definito) non solo è difficile intervenire ma bisogna che uno Stato sia motivato a presentarsi di fronte alla Corte Penale Internazionale, e dopo aver individuato i responsabili esponga denuncia per crimini contro l’umanità. La domanda è, chi è disposto ad assumersi il rischio?

Sulla possibilità di intervento, lo “spettro del Kosovo” gioca un ruolo importante. Gli Stati che stanno cercando di esercitare una crescente influenza internazionale, come la Cina e la Russia, sembrano poco propensi ad accettare nuove velleità umanitarie degli Stati Uniti e dell’Occidente (salvo poi giustificare in termini umanitari gli interventi russi in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014). L’effetto cumulativo degli interventi dell’Occidente in Afghanistan e Iraq hanno portato alla delegittimazione dell’uso della forza nelle crisi internazionali. Ma il caso davvero problematico fu quello dell’intervento NATO in Libia nel 2011. Ad ora, rimane l’unico caso di applicazione coercitiva della Responsabilità di Proteggere. Tuttavia, quello che doveva essere un intervento motivato dalla protezione dei civili dell’area ad est di Benghazi nel quadro dei sommovimenti creati nelle Primavere Arabe, è culminato in un cambio di regime non autorizzato ed effettuato, ancora una volta, da Stati Uniti, Francia ed Inghilterra. Nonostante casi di successo come in Kenya nel 2008-2009, in Costa d’Avorio nel 2011 e in misura minore in Mali nel 2013, ciò che si tenderà a ricordare sarà la eco dei misfatti in Libia, in cui Gheddafi fu ucciso barbaramente ma soprattutto il vuoto politico in cui attualmente imperversa l’ex Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista.

Il risultato effettivo di questi fatti è la progressiva marginalizzazione nel discorso diplomatico e nella pratica della Responsabilità di Proteggere, soprattutto di fronte ai casi più gravi degli ultimi anni: la crisi siriana, la guerra in Yemen, le persecuzioni dei Rohingya e la ormai conclusa guerra in Iraq[13]. Che si tratti di un concetto morto prima di nascere?


[1] Penso alla Siria, allo Yemen, al Sudan.

[2] Mi riferisco ad esempio alle persecuzioni del governo birmano nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya.

[3] L’esempio più lampante ad oggi rimane la Somalia.

[4] Questi sono i quattro crimini, campo di applicazione della Responsabilità di Proteggere, così come sono elencati nei paragrafi 138-139 del World Summit Outcome Document.

[5] Si ricorda la missione della coalizione multinazionale nel 1991 in Iraq, a seguito della Guerra del Golfo; le missioni in Somalia del 1992, il caso del Ruanda, di Timor Est ma soprattutto il caso kosovaro.

[6] Il 3 ottobre 1993, nel tentativo di cattura del principale capo-miliziano somalo Mohamed Aidid, in un raid diurno, tre Black Hawks furono abbattuti e 18 rangers delle Quick Response Forces americane uccisi da miliziani somali fedeli ad Aidid. Evento che convinse il presidente Clinton alla ritirata dal Paese, il 31 marzo del 1994.

[7] SI stimano, nel solo periodo che va dal 6 aprile alla metà di luglio, dalle 500.000 alle 800.000 vittime, massacrate sistematicamente a colpi di arma da fuoco, machete e mazze chiodate. Il genocidio, fu ritenuto concluso a seguito dell’Opération Turquoise, un’operazione multilaterale a guida francese, avvenuta in maniera tardiva, con regole d’ingaggio restrittive e capacità di manovra molto limitata. La critica principale mossa a questa operazione, è che essa sia stata il risultato di un calcolo d’interesse nazionale francese nel confermare la propria presenza in quell’area dell’Africa e strappare terreno alla sfera di influenza anglofona. Non trascurabile il fattore commerciale, infatti il governo Hutu era uno degli acquirenti degli armamenti dell’industria francese e le truppe erano addestrate dalle forze armate dell’Esagono.

[8] La versione originaria del concetto risale al 2001 ed è contenuta nel rapporto della International Commission on Intervention and State Sovreignty. (http://responsibilitytoprotect.org/ICISS%20Report.pdf). La commissione fu istituita su volontà del governo canadese e previde la riunione di esperti di etica delle Relazioni Internazionali, uso della forza e di diritto internazionale per la formulazione teorica del concetto. La Responsabilità di Proteggere originaria era un concetto molto più ampio e poco chiaro in termini applicativi, cosa che spinse gli Stati a rivederlo e restringerlo ai casi di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica.

[9] Gli inglesi dicono “old wine in new bottles”

[10] Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2013 (14.ed), I, §23.

[11] Un corpus di diritto internazionale che ruotava attorno ai temi dell’ingerenza si stava sviluppando in questo contesto. Inoltre, in coincidenza di questo periodo storico, iniziò a svilupparsi un vocabolario della politica europea che serve a conferire un’evidenza terminologica e categoriale al ricorso alle armi in difesa di popolazioni ingiustamente perseguitate: Intervention d’humanitè, intervention on the ground of humanity, intervention on behalf of the interests of humanity e humanitarian intervention. La visione dominante dei giuristi dell’epoca collocava l’Europa al vertice degli standard d’eccellenza della civilizzazione, e su queste basi i paesi non-europei venivano considerati “barbari”. Mentre il principio di non-interferenza era diventato centrale nelle relazioni tra gli stati europei, lo stesso non si applicava all’Impero Ottomano. Esso era considerato al di là di ogni standard di civilizzazione, e in quanto “barbaro” e “dispotico” a esso non si applicavano i diritti e i doveri del diritto internazionale

[12] Gli atti dell’Assemblea Generale non sono atti vincolanti giuridicamente ma vanno valutati a seconda del loro peso politico.

[13] La lista non è esaustiva, serve solo a illustrare la possibilità di utilizzo del concetto.

Scritto da
Matteo Del Conte

Nato ad Ancona nel 1992. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Bologna. Si occupa di Politica e Sicurezza Internazionale, con un taglio multidisciplinare che spazia dalla filosofia alla sociologia agli Studi Strategici, con particolare riferimento ai problemi dell’uso della forza, della sicurezza e dei diritti umani.

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