Scritto da Lorenzo Cattani
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Di recente si è sviluppata nel nostro Paese una discussione sul tema del salario minimo, anche con proposte parlamentari che andavano in questa direzione.
La proposta, tuttavia, non ha mai raccolto consensi unanimi. Una delle critiche a cui viene sottoposto il provvedimento è relativa al suo potenziale impatto negativo sull’occupazione e al possibile contributo all’aumento del costo del lavoro. La misura non è però criticata solo dal mondo imprenditoriale, ma spesso anche dai sindacati. In questo senso l’Italia non è un’eccezione: il segretario della CGIL Maurizio Landini si è detto contrario al suo inserimento.
Occorre dunque comprendere le ragioni di queste critiche e valutare, più in generale, se l’adozione del salario minimo possa essere una scelta adeguata per un paese come l’Italia. A questo fine può essere molto utile adottare una prospettiva comparata. Dal momento che questo istituto è stato adottato in alcuni paesi e non in altri, può essere utile capirne il perché.
Da un’analisi iniziale emerge subito che fra le economie avanzate dell’Europa Occidentale in cui non è stato introdotto un salario minimo legale vi sono cinque assenze che saltano all’occhio: Italia, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia. Questo sembrerebbe fornire un argomento ai detrattori del salario minimo: se i paesi scandinavi, noti a tutti per il loro alto livello di benessere e per il loro modello di sviluppo inclusivo non hanno adottato il salario minimo ciò significherebbe che l’adozione di un simile strumento potrebbe rivelarsi dannosa per i lavoratori. Un’argomentazione simile è vera soltanto in parte e solo se in relazione a determinati “regimi di produzione”.
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Indice dell’articolo
Pagina corrente: Il salario minimo in chiave comparata
Pagina 2: Il salario minimo e i modelli di capitalismo
Pagina 3: E l’Italia?
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