Scritto da Alessandro Foti
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Questo articolo riprende alcuni dei temi trattati nel libro di Alessandro Foti: Stai fuori! Come il Belpaese spinge i giovani ad andare via, uscito nel 2024 per le Edizioni Dedalo, con una prefazione di Riccardo Iacona e una testimonianza di Ilaria Capua.
Il tema della mobilità tocca la vita di tantissime persone: cambia le abitudini, il modo di mangiare, gli amici, gli odori e i colori. Spinge verso il nuovo. Negli ultimi decenni in molti hanno sostenuto che essere mobili, così come flessibili, era un bene inevitabile. Oggi, infatti, siamo mobili come non lo siamo mai stati nella storia umana. Questo è uno dei tratti distintivi di un mondo globale che sembra a portata di mano, ma è anche uno degli aspetti più edulcorati del nostro stile di vita.
Ma non stiamo forse esagerando con l’essere troppo mobili? Non tanto per il fatto di andare in vacanza in luoghi lontani come le Maldive o il Sud America (che rimane una cosa sulla quale comunque si dovrebbe discutere), che rimane un’esperienza di pochi, quanto per quel tipo di “mobilità stabile” che riguarda l’avere amici, genitori, lavoro, affetti, e interessi in città, regioni, Paesi o continenti diversi, così da dover stare in continuo movimento per evitare di perdersi qualcosa. Una condizione per cui si è sicuri che, per una ragione o l’altra, a breve ci si muoverà. Questo tipo di mobilità non è intesa come evento sporadico, bensì come regolarità. Da qui il nome di mobilità stabile, una condizione che appare ormai insostenibile sotto diversi punti di vista. In poche generazioni, infatti, si è passati dal vivere in contesti geograficamente limitati, al vivere da seminomadi – digitali e non; dal vivere in comunità, villaggi, città, a essere “cittadini del mondo” per cui si parla con espressioni come “cosmopolita” o “internazionalista”. La struttura sociale in cui viviamo ci ha fatto credere che non ci sono confini, che soprattutto chi vive in Paesi occidentali può avere accesso a ogni esperienza e realizzare ogni tipo di desiderio, andando e tornando.
Ma il termine cosmopolita è un ossimoro, poiché non è possibile vivere in una comunità e nel mondo intero contemporaneamente. I rapporti umani si creano e si mantengono con la vicinanza, con la costanza, con l’aiuto, con in contare sulla presenza dell’altro. E nonostante l’aiuto delle tecnologie, per il momento vivere i rapporti umani nella realtà fa ancora la differenza. La visione contemporanea, che contrappone solitamente il “cosmopolitismo”, tipicamente con una valenza positiva, al “localismo”, che indica comunemente chiusura di vedute e mentalità arretrata, ha influenzato anche moltissimi giovani che hanno deciso, a volte spinti a farlo, di spostarsi dai luoghi originari per cercare maggiori possibilità altrove.
Questi concetti però, oggi dovrebbero essere ridiscussi e aggiornati ai tempi attuali. Non per proporre necessariamente di tornare a vivere nei piccoli centri dei nostri bisnonni, e nemmeno per trovare colpe o meriti. Ma per sottolineare che la mobilità non è gratuita e il prezzo da pagare, ovvero gli effetti collaterali, sono ormai evidenti, dallo spopolamento all’emigrazione fuori controllo, soprattutto in Italia. Il termine emigrazione, in particolare, spesso si confonde con il termine mobilità o circolazione. La mobilità o la circolazione indicano un periodo di esperienza e lavoro o formazione al di fuori del posto di residenza, ma a carattere temporaneo e dinamico. Un andare e un venire. Include un movimento, non uno stanziamento. Qualche anno di mobilità per accumulare esperienza e nuove idee è importante per la vita di molti individui. Ma quando questi spostamenti si protraggono per periodi più lunghi si dovrebbe parlare di emigrazione: dal tardo latino emigratio-onis, che significa trasferirsi o spostarsi dal luogo di origine. L’emigrazione, parola un po’ fuori moda che si tende a sostituire per parlare di “expat” o “cervelli in fuga”, indica una specifica e spesso comune condizione per molti italiani, con ripercussioni sulla vita privata, relazionale e familiare a lungo termine. Vivendo all’estero per periodi duraturi si instaurano relazioni, nuove amicizie, o spesso ci si crea una famiglia, e questa non è mobilità, ma mettere le radici altrove: una vera e propria emigrazione. Ed è quello che sta succedendo in Italia da circa un quindicennio, un ritorno all’emigrazione di massa che viene ostinatamente chiamata mobilità internazionale. L’ambiguità linguistica emigrazione-mobilità ricorda quella di precarietà-flessibilità. Con la parola flessibilità, infatti, si è addolcita, almeno linguisticamente, quella condizione di mancanza di certezze professionali, sicurezze economiche (e quindi di vita) che sarebbe più corretto chiamare precarietà.
Si è diffusa l’idea che la mobilità sia un fenomeno circolare. Certo, lo è per alcuni, ma per molti altri no. E soprattutto, nel caso italiano, non c’è un movimento dall’estero verso l’Italia. Gli italiani si trasferiscono in Gran Bretagna, Germania e Francia, ma i britannici, i tedeschi e i francesi non si trasferiscono in Italia allo stesso modo. In più, la propaganda e l’opportunismo politico di parte della classe dirigente rifiuta una razionale e controllata accoglienza e integrazione dei migranti cosiddetti extracomunitari, potenzialmente importanti nel compensare il vuoto lasciato nei territori che si spopolano creando una desertificazione sociale e potenzialmente economica. Perché andarsene lascia un vuoto di impronte, visione, lavoro, tasse e affetti. E l’Italia è diventata nuovamente un Paese di emigrazione. Negli ultimi quindici anni 1,3 milioni di italiani sono diventati residenti all’estero, in una vera e propria emigrazione di massa. Molti sono giovani con una formazione specifica, e questo avviene in un Paese che vive il cosiddetto “inverno demografico”. Nel 2027, inoltre, l’Italia sarà il primo Paese al mondo ad avere una popolazione con più ottantenni che diciottenni[1]. Ma la cosa più grave è che l’Italia non attrae dall’estero a causa dei record negativi su lavoro giovanile e condizione sociale, che spingono tantissimi giovani con una buona formazione a scegliere altri luoghi. Da emigrato che vive queste esperienze sulla propria pelle, chi scrive ha ragionato su questi temi per raccontarli in un libro, dal titolo Stai Fuori! Come il Belpaese spinge i giovani ad andare via (Edizioni Dedalo 2024).
Evasione, non invasione
L’Italia negli ultimi dieci anni ha visto emigrare all’estero oltre un milione di persone – più degli abitanti di Napoli, terza città d’Italia – tornando così a livelli di emigrazione che non si vedevano dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Di questi, circa la metà è composta da giovani tra i 15 e i 38 anni. Ma la novità rispetto alle precedenti ondate migratorie italiane è che una buona parte degli emigranti ha una formazione specifica; circa un quarto del totale (incluse tutte le fasce di età) è infatti costituito da laureati (231.114 nel periodo 2011-2020).
L’Italia è un Paese che ha un saldo demografico, cioè la differenza tra nuovi nati e morti, negativo da venticinque anni. Un Paese in cui ogni anno, come afferma l’Istat, i morti sono circa 250.000 in più rispetto ai nuovi nati. La fuga dei giovani va vista dunque nell’ottica di un Paese in deficit demografico, soprattutto nel Sud. Molte delle Regioni italiane stanno vivendo una desertificazione sociale e un invecchiamento accelerato, amplificati dalla crescente emigrazione giovanile, un fenomeno complesso, di natura multifattoriale ed effetti solo parzialmente prevedibili e quantificabili. Ciò lo rende distante dalle attenzioni del grande pubblico, oltre al fatto che negli ambienti culturali italiani chi ne parla o ne scrive spesso non è né emigrato né giovane, e affronta il tema in maniera distaccata e accademica.
Nonostante l’importanza e l’urgenza di queste tematiche, è interessante notare come esse non siano all’ordine del giorno nel dibattito pubblico, o sulle prime pagine dei principali media. La percezione che gli italiani hanno di questi temi sembra offuscata da altri argomenti. Ad esempio, negli ultimi anni, soprattutto durante il periodo 2018-19, si è avuta in Italia un’attenzione spasmodica nei confronti del fenomeno dell’immigrazione, che da alcuni media generalisti e parte della propaganda politica è stato definita un’invasione. Ma mentre in Italia dal 2018 al 2021 sono sbarcati 131.210 migranti, negli stessi quattro anni hanno spostato la residenza all’estero 497.240 italiani[2]. Più che scegliere l’Italia come destinazione, le persone escono dal Paese. Quindi, più che di invasione sarebbe corretto parlare di evasione.
Cosa sta succedendo?
Dai calcoli dell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), gli italiani residenti fuori dal Paese sono quasi sei milioni, circa il 10% della popolazione residente in Italia, e sono in continua crescita. Quindi, all’incirca un italiano su dieci vive fuori dai confini del proprio Paese di origine. È una sorta di “ventunesima” Regione d’Italia, che sta crescendo sempre più. È importante notare però che questi dati includono i nuovi nati all’estero, che sono anch’essi in continua crescita, indicando che in prospettiva futura la comunità italiana all’estero diventerà sempre più numerosa. Parallelamente all’emigrazione verso l’estero, negli ultimi anni si è tornati a una grande emigrazione dal Sud verso il Nord Italia, con ritmi di circa 100.000 persone all’anno[3].
Va ricordato che l’Italia è invece venticinquesima al mondo per popolazione complessiva, mostrando una tendenza alla perdita di popolazione nel lungo periodo. Se è vero che anche gli altri grandi Paesi europei generano molta emigrazione verso l’estero, la differenza con Paesi come Germania o Gran Bretagna, però, è che attraggono molti stranieri dai Paesi vicini e non solo. Inoltre, i cittadini di questi Paesi che si spostano all’estero, ritornano e in seguito vengono riassorbiti dal mercato del lavoro da cui erano partiti, dopo aver maturato esperienza e competenze, diventando così molto preziosi per la loro terra d’origine. L’Italia, invece, non attrae i corrispettivi giovani stranieri, né riesce ad attirare di nuovo i propri cittadini espatriati, che al contrario maldestramente continua a spingere fuori.
Un fenomeno sottostimato
Le fonti statistiche sul numero delle persone partite dall’Italia e quelle arrivate nei Paesi di destinazione spesso confliggono: gli uffici anagrafici dei Paesi esteri riportano un numero più alto di italiani arrivati rispetto alle cancellazioni anagrafiche registrare da noi. Ad esempio, l’ufficio statistico nazionale tedesco riporta per il 2020 l’arrivo e la registrazione ufficiale di 45.000 italiani, mentre le cancellazioni ufficiali registrate dall’anagrafe italiana verso la Germania ammontano a sole 17.000 persone. Per il 2016 il dato fu addirittura il quadruplo: 17.299 italiani cancellatisi all’anagrafe e 74.105 registrati dall’ufficio anagrafico tedesco[4]. Il fatto che arrivino all’estero molti più italiani di quanti ne partano dall’Italia è a dir poco indicativo delle difficoltà nei sistemi di rilevazione. Questo è accaduto perché le stime italiane si basano sulle cancellazioni anagrafiche, formalmente obbligatorie ma non sanzionate, pertanto sostanzialmente a discrezione dei singoli. Inoltre, molti italiani andati via non hanno cancellato la residenza in Italia anche perché, non sapendo quanto tempo avrebbero dovuto passare all’estero, non hanno voluto rinunciare ai diritti connessi alla residenza, come l’accesso al sistema sanitario.
Il vero problema è lo squilibrio, non la fuga
L’emigrazione dei giovani italiani non sarebbe un problema se l’Italia fosse in grado di attirare altrettanti giovani dagli altri Paesi. Abbiamo visto che tanti italiani si trasferiscono in Germania, Francia, Gran Bretagna e Spagna. È interessante notare che a loro volta i cittadini di questi Paesi sono anch’essi sempre più mobili, come capita agli italiani. Nel 2022, 83.000 tedeschi, 92.000 britannici e 87.882 spagnoli hanno lasciato i loro Paesi per trasferirsi altrove. Peccato che pochissimi di loro abbiano deciso di trasferirsi in Italia. Tra il 2021 e il 2022 c’è stato un saldo negativo negli arrivi dai principali Paesi europei, cioè Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, all’Italia. I dati anagrafici ufficiali ci dicono che i cittadini tedeschi che risiedevano in Italia nel 2021 erano 35.091, e nel 2022 sono diventati 32.984. I francesi sono passati da 31.354 a 28.735, i britannici da 30.325 a 28.355 e gli spagnoli da 32.637 a 26.417 (dati Istat). Quindi, sembra che non siano solo gli italiani a lasciare il Paese, ma anche i nostri cugini europei stabilitisi in Italia tendono ad andar via. Infatti, tra le principali mete di destinazione dei cittadini europei, l’Italia è assente. Nel decennio 2011-2021 il numero degli italiani che si sono trasferiti stabilmente in Germania è cresciuto di circa 100.000, arrivando a 750.000 persone (cifra che varia in base alle stime dei diversi istituti presi in analisi). Negli stessi dieci anni, il numero di tedeschi in Italia è diminuito di 7.000 persone, passando da circa 42.000 a 35.000. In misure minori, si possono osservare trend simili anche in tutti gli altri principali Paesi di emigrazione italiana degli ultimi dieci anni[5]. Questi dati sono in linea con una tendenza presente da circa un quindicennio. Il punto, però, non è la nazionalità di chi arriva, ma come ci percepiscono gli altri Paesi. Tale trend indica che non siamo attrattivi per i cittadini dei Paesi più sviluppati, tendenzialmente alla ricerca di un contesto sociale e lavorativo almeno comparabile a quello da cui provengono. In una situazione di una mobilità equilibrata e di una relativa attrattività italiana, dovrebbero vedersi molti più studenti inglesi che frequentano un dottorato all’Università di Roma, o giovani ingegneri tedeschi che lavorano alle opere infrastrutturali italiane, o medici e infermieri olandesi o francesi presenti nei nostri ospedali. Invece no. Noi andiamo lì, ci inseriamo nei sistemi lavorativi esteri, strutturati e propensi ad accogliere stranieri, e loro non vengono da noi, se non in vacanza.
Ad andarsene è chi possiede una formazione specifica
In Italia ci sono circa 2,6 milioni di laureati nella fascia d’età 25-39 anni e nel 2021 ne sono emigrati 33.000, quindi in un solo anno abbiamo perso circa l’1,3% dei giovani laureati italiani. È interessante notare che il numero di laureati che espatriano va aumentando ogni anno in rapporto al totale dei giovani tra i 25-34 anni che emigrano. Un dato preoccupante soprattutto alla luce del fatto che ne formiamo pochi, e pochissimi ne vengono da altri Paesi. Quindi, più che una fuga, si tratta di uno “squilibrio di cervelli”.
Guardando poi nello specifico a università e ricerca, ci stiamo abituando al fatto che il nostro sistema accademico cronicamente espelle migliaia di persone, formate nelle nostre università, verso l´estero, con un biglietto di sola andata. E soprattutto, ne attrae pochissime da fuori. Questo succede perché gli altri Paesi europei di destinazione hanno migliori possibilità lavorative, più servizi e assistenza sociale, retribuzioni dignitose, sistemi di selezione e avanzamento di carriera generalmente più meritocratici. Non è poco. Dalla Germania, Paese dove chi scrive vive da oltre un decennio, tra il 1996 e il 2011 sono emigrati più di 23.000 scienziati tedeschi attivi, mentre circa 19.500 sono arrivati dall’estero. Di fronte a questi numeri lievemente negativi, seppur irrisori rispetto a quelli italiani, un gruppo di scienziati tedeschi ha pubblicamente scritto ad Angela Merkel: «La Germania sta perdendo molti dei migliori scienziati a causa dell’emigrazione […]. In particolare per i migliori, il sistema di ricerca tedesco non sembra essere abbastanza attraente al momento». Dopo queste affermazioni il governo tedesco ha aumentato l’investimento pubblico dal 2,73% al 3,17% del PIL, investendo circa 80 miliardi di euro in più all’anno in ricerca. Da quelle dichiarazioni a oggi, il numero dei ricercatori in Germania è aumentato del 15%. In Italia invece, di fronte a una situazione decisamente più grave, i ricercatori italiani protestarono contro il governo e Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio in quel periodo, rispose: «Perché dobbiamo pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe migliori del mondo?».
Anche grazie allo stanziamento di tante risorse, il sistema accademico tedesco è diventato sempre più attrattivo per gli studenti stranieri. Nel 2010 si contavano 3.976 studenti italiani e nel 2017 sono saliti a 8.550. Nel 2018, gli studenti italiani in Germania erano circa 9.000, per cui l’Italia era al sesto posto come comunità̀ straniera nel sistema universitario tedesco (dati dell’Ambasciata italiana a Berlino del 2022). È interessante notare che l’Italia è il primo Paese di origine del personale scientifico internazionale presente nelle università̀ tedesche, con circa 3.800 persone, di cui circa 300 professori universitari. L’Italia è anche il primo Paese di origine dei lavoratori scientifici nei quattro più grandi istituti di ricerca tedeschi, Max Planck, Helmholtz, Fraunhofer e Leibnitz, con più di 1.100 ricercatori, il 9% del totale degli stranieri (dati dell’Ambasciata italiana di Berlino). E questo non succede solo in Germania. Ad esempio, gli italiani sono il gruppo di stranieri maggiormente rappresentati al CNRS, il principale istituto di ricerca francese.
[1] Marco Esposito, Vuoto a perdere. Il collasso demografico. Come invertire rotta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2024.
[2] Fondazione Migrantes, Il Diritto d’asilo. Report 2022. Costruire il futuro con i migranti e i rifugiati, 13 dicembre 2022.
[3] Enrico Pugliese, Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana, il Mulino, Bologna 2018.
[4] Stefano Allievi, La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro, Laterza, Roma-Bari 2020.
[5] OCSE, Studi economici dell’OCSE: Italia 2021, 6 settembre 2021.