Scritto da Gabriele Giudici
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Poche cose ci raccontano l’evoluzione di una società come le città. Da esse traspare tanto la stratificazione sociale quanto l’immagine che abitanti e governanti hanno da sempre voluto dare di loro stessi. Gli spazi di vita, soprattutto quelli a carattere urbano, raccontano persino di come si siano evoluti il pensiero e la psicologia di una data società, con le sue sfaccettature e le sue divisioni che tornano perennemente a fondersi in quella grande sintesi che è appunto la città.
Questo perché la forma urbis si fonda sul pensiero filosofico e sociale di un dato momento storico. Architetti, artisti e governanti, ben prima della cultura positivista e della nascita dell’urbanistica moderna, hanno trovato nella dimensione urbana, tanto nella vasta scala quanto nella piccola, uno spazio di espressione sociale; ecco quindi il sorgere dei grandi complessi imperiali come Versailles all’epoca dell’assolutismo francese, ecco piazze, palazzi comunali, i grandi poli aggregativi nei borghi italiani dell’epoca comunale come Siena e Firenze, fino ad arrivare ad opere di forte ordine e rigore in epoche di particolare enfasi scientifica o proto-scientifica, si pensi a New York o a Pienza.
Guardando invece alla nostra epoca, si nota come essa non si differenzi dalle altre a livello di modus operandi (banalmente, anche l’urbanistica contemporanea è una forma di espressione sociale) ma si distingue per la maggiore possibilità di analisi. Per utilizzare un’espressione cara a Hegel, l’urbanistica odierna ha la potenzialità di essere autocosciente; il che significa che gli urbanisti possono con maggiore efficacia indirizzare la vita e la società grazie all’enorme mole di dati e alla disponibilità tecnica su cui possono contare, cercando quanto più di astrarsi in un mondo in cui il globalismo (e l’international style) non solo si pongono come espressione di un mondo globalizzato ma si identificano (spesso a torto) come limite ultimo dell’architettura.
Con ciò si vuole sottolineare il fatto che grazie alla vasta sperimentazione avviata soprattutto con l’approccio scientifico della seconda metà dell’Ottocento, oggi si hanno gli strumenti per capire che la progettazione urbana non è solo una modalità di espressione sociale, ma possiede anche determinate responsabilità che la legano a doppio filo con una grande varietà di altre questioni e interessi, detto altrimenti: urbanistica e società non stanno tra loro in un mero rapporto di causa ed effetto ma si influenzano vicendevolmente con costanza e profondità. Nonostante questa osservazione possa sembrare alquanto banale, se si guarda per un momento allo scenario contemporaneo appare subito chiaro come l’urbanistica abbia dimenticato questo suo legame così sfaccettato con il resto della società, riducendosi a puro esercizio tecnico o nel peggiore dei casi a semplice strumento amministrativo.
Questa consapevolezza non riesce comunque, con certezza, a portare ad una data soluzione; come ricordava il filosofo viennese Karl Popper, qualsiasi proiezione del passato sul futuro è fallace e grossolana. Un esempio è sicuramente la Barcellona progettata da Cèrda: in essa non esiste un centro, non esistono aree privilegiate e i quartieri si costituiscono come piccole comunità a sé stanti, tutte con un indice volumetrico ben preciso e notevolmente basso se rapportato ai canoni del tempo. La volontà dell’illustre urbanista, che pur provenendo dalla classe borghese aveva conosciuto influenze provenienti dal mondo della sinistra, era infatti quella di annientare le differenze cittadine: eliminando un centro, togliendo il valore diversificato degli immobili, diminuendo le disparità sociali.
Questo progetto di per sé economicamente sostenibile non è però durato alla prova dei fatti: innalzamento degli indici volumetrici e impatti urbanistici notevoli (comunque di indubbia qualità) in varie parti della città non hanno fatto altro che rompere l’uguaglianza e conseguentemente l’equità sulla quale si fondava il tutto. Ciò è certamente indice della mutevolezza della maglia del costruito nei confronti dei cambiamenti cittadini maturati in decenni di diversificazione di classe.
Un’altra variazione dei fatti e della storia che rende mutevole l’urbanistica, e la trasforma in un crogiolo di fatti inanellati in un flusso che percorre i secoli e le società, si coglie nell’osservare come soluzioni applicate in un dato momento con un’idea non cambino fine, come nel caso precedente, ma vengano reinventate una volta che la funzione preminente è oramai esaurita.
Uno dei casi più esemplari è lo sventramento della vecchia Parigi operato da Napoleone III nella seconda metà dell’Ottocento. La Parigi del tempo soffriva sia di mancanza di salubrità pubblica, che insieme al sovraffollamento era la principale causa di epidemie, che di un susseguirsi di rivolte cicliche imperversanti nella città dai tempi della rivoluzione francese e passate poi per i moti del’48. La soluzione di Napoleone III fu la costruzione di enormi viali monumentali che, seppur abbelliti, avevano la funzione principale di controllare le folle tramite l’esercito, impedendo la costruzione di eventuali barricate. Centocinquanta anni dopo quegli stessi viali, per ragioni economiche e politiche, sono diventati uno dei simboli stessi di Parigi. Fiorenti di negozi per l’enorme attrattiva turistica che vede, oltre a una questione estetica, anche la grande funzionalità e caratterizzazione di quegli assi.
I rapporti urbani nella modernità
Tutto ciò si incontra con la politica urbanistica attuale, nella quale possiamo trovare una casistica estremamente variabile, anche a prescindere dai diversi paesi. Innanzitutto però è bene distinguere, tra i luoghi, le città dei paesi occidentali e quelle dei paesi di recente sviluppo.
Nelle seconde, l’enorme accrescimento urbano legato alla migrazione dalle campagne (soprattutto in Cina) ha portato ad una urbanistica controllata nella crescita su scala ancora più grande di quello che si era verificato in Europa con la seconda rivoluzione industriale. Esigenza tecnica e funzionalismo in pieno stile razionalista, hanno guidato la politica urbana di questi paesi dando forma a soluzioni nuove che creano realtà sociali radicalmente diverse dal passato e di cui vedremo la stratificazione e il manifestarsi nel prossimo futuro.
Di conseguenza l’urbanistica moderna, quella che deve dare soluzioni a esigenze differenti dal passato e sulla quale ci dobbiamo concentrare, trova la sua piena attuazione in un contesto urbano saturo (che si trova quando la richiesta di edifici è inferiore a ciò che la città può già assorbire) di cui le città europee e statunitensi sono un ottimo esempio. Ci troviamo perciò oggi in un momento dal grande potenziale in cui progetti inseriti in una maglia cittadina già consolidata possono mutare, a velocità anche sostenute, per variare situazioni sociali e per crearne di nuove.
Con uno sguardo ancor più generale si rileva come moltissime realtà urbane presenti in Europa e America si trovano in una situazione di stagnazione della crescita urbana, se non addirittura di restringimento (shrinking cities: città ristrette/spopolate) di cui l’esempio più eclatante è Detroit. In queste città si adottano attualmente piccoli progetti zonali o di area, interventi quindi non di controllo della crescita come avvenuto dal primo Ottocento in poi ma di ristrutturazione di vari universi cittadini. Esempi possono essere gli interventi di inizio anni Novanta a Barcellona o, nel nostro Paese, gli interventi urbani a Milano, da zona Porta Nuova al quartiere ex fieristico Citylife.
A prescindere dalla tipologia di intervento, discutibile o meno che sia, la volontà politica è sempre incentrata alla concentrazione economica per creare un numero maggiore di hub, ovvero di zone globalizzate in stretta correlazione fra di loro. I risvolti positivi sono il passaggio di investimenti e flussi di denaro, quelli negativi sono incentrati sulla concentrazione e quindi all’aumento di disparità sociali ed urbane, che si acuiscono aumentando lo scollamento sociale ed urbano della città.
Diversamente molti interventi ben riusciti di riutilizzo di vecchie zone manifatturiere o infrastrutturali cercano di ricucire le varie parti, valorizzandone il contenuto ma cercando di eliminare la gentrification che si verifica con la valorizzazione di immobili un tempo dal basso mercato. Un esempio virtuoso può essere, riguardo la ricucitura della città, il progetto di riqualificazione degli scali ferroviari milanesi.
Urbanistica come parte risolutiva dei moderni conflitti sociali
Calando maggiormente lo sguardo sulla situazione attuale è bene fare un resoconto storico degli ultimi decenni per comprendere i cambiamenti di scenario nella città contemporanea. A partire dalla fine degli anni Settanta si afferma sempre di più il fenomeno della delocalizzazione, favorito dalla globalizzazione e da un cambiamento radicale nella mobilità e nelle telecomunicazioni. L’ideologia neoliberista dell’asse anglo-statunitense, con conseguente deregulation degli anni successivi, insieme alla caduta dell’alternativa socialista e dell’affermarsi di una dottrina economica pressoché egemone a livello attuativo, non solo smantellarono parte del welfare state ma aprirono grandi spazi economici e finanziari in un mondo sempre più globalizzato. Il nuovo scenario mondiale comportò una deindustrializzazione dei paesi sviluppati che si riversò, e si riversa maggiormente oggi, sulle città.
Causando tutto ciò un restringimento fisico e demografico delle città, fenomeno pressoché simile in tutta Europa e oltre oceano, il turbine vorticoso di capitali che rendono viva (e stabile) una città cala vertiginosamente, non riuscendo a far sì che gli abitanti possano procacciarsi un reddito stabile. Inoltre, a causa di un soprannumero di invenduto che rende l’offerta troppo elevata, i piccoli proprietari vedono ancor più deteriorarsi i loro risparmi a causa della diminuzione dei prezzi. Tutto ciò causa un disagio collettivo diffuso per la diminuzione della qualità della vita (o di stasi, che in un sistema di capitalismo finanziario significa retrocessione); disagio che non può essere affrontato nella sua interezza a causa della mancanza di fondi delle amministrazioni pubbliche, limitate dai trent’anni di deterioramento delle loro funzioni e capacità di spesa. Non è un caso che Thomas Piketty, in Il capitale nel XXI secolo, affermi che l’indice Gini di divario economico sia oggi simile a quello che avremo potuto osservare agli inizi del Novecento.
Tornando alla città, tutto ciò causa uno zooning di intere parti che si discostano dall’economia di mercato globale, scivolando in vortici di insicurezza, degrado, precariato e microcriminalità, sulla falsa riga delle distinzioni della sociologa Saskia Sassen sulle città globali: l’unicità delle città viene frammentata in zone con accesso mondiale ed altre che ne restano escluse.
Questo fenomeno è già ben visibile ai nostri occhi da molto tempo, più o meno dalla fine della cosiddetta “era della quantità’’ della costruzione a sprawl che divora il territorio ancora disponibile; fenomeno che possiamo dirsi concluso, con buona approssimazione, dalla fine degli anni Settanta. La necessità di intervenire in zone di insicurezza cittadina significa agire in zone di fragilità sociale poiché gli interventi di miglioramento qualitativo della vita e dell’ambiente sono correlati e funzionali all’intero tessuto. C’è dunque una grande necessità di interventi di qualità e di aggregazione in molte delle nostre città, sia a livello italiano che europeo.
Da qui possiamo ragionare su come intervenire, ma prescindendo dal fatto che l’intervento in sé è consecutivo al luogo e alla realtà mutevole di ogni progetto, è bene fissare le esigenze dell’intervento cittadino. Il compito principale dell’urbanista in questa fase, in occidente, deve essere quello di ricucire la maglia dilaniata delle città, restituendo dignità alle aree urbane deperite, inabitate e mutate nell’anima senza che ne abbiano ritrovata un’altra.
Urge proporre interventi di riqualificazione per aumentare la qualità della vita senza stravolgere il mosaico cittadino, ma accompagnandolo con degli input verso un cambiamento graduale. È inutile proporre appartamenti di lusso in zone degradate. Anche ammettendo che questo progetto si riesca a vendere sul mercato, si verificherebbe una gentrification dilaniante che penalizzerebbe ancora di più gli abitanti che, costretti dall’aumento del costo della vita, scivolerebbero in aree e in condizioni di vita ancora più marginali.
Progetti seri, ben pensati e indirizzati più che alla qualità dell’estetica alla qualità di vita, possono donare aspettative migliori a migliaia di persone che ora vivono la condizione del loro spazio con disagio e insicurezza, staccandosi dal resto della città che non capiscono e a cui guardano con invidia e senso di ingiustizia. È tempo di capire che la città deve essere guardata con gli occhi degli uomini, è tempo di un nuovo umanesimo che rimetta al centro l’aggregazione e i rapporti personali e sociali, è tempo che la sociologia sia veramente e profondamente applicata alla città. È tempo che l’urbanistica faccia l’urbanistica.