Trump’s Strategy: il caotico disegno del presidente
- 23 Febbraio 2017

Trump’s Strategy: il caotico disegno del presidente

Scritto da Tiziano Usan

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«America First»

Nell’ottica di una Grande Strategia, ad una valutazione della realtà internazionale e delle minacce che pone all’interesse nazionale segue l’individuazione di un piano per farvi fronte. In questo senso le linee guida finora avanzate da Trump sembrano delineare un programma fortemente incentrato su quello ché oramai divenuto il brand dell’azione presidenziale: lo slogan «America First» (prima gli Stati Uniti), ripetutamente utilizzato dal presidente durante il discorso inaugurale.

Per quanto riguarda il problema dell’Islam radicale e dell’immigrazione in generale, “America First” si traduce in una visione estrema della sicurezza nazionale. Il controverso ordine esecutivo che impedisce l’entrata negli Stati Uniti a persone provenienti da 7 diversi paesi a maggioranza Musulmana (il cosiddetto “Muslim Ban” recentemente bloccato dalle corti statunitensi) , il progetto, assurto a slogan elettorale, di costruire un muro al confine con il Messico e le frequenti minacce di deportare in massa gli immigrati irregolari o istituire un registro per i cittadini di fede musulmana sono tutti esempi di questo approccio restrittivo mirante a proteggere gli Stati Uniti da terrorismo, crimine e contaminazione culturale.

In campo economico l’intenzione dichiarata è quella di mettere in atto quello che Steve Bannon (Chief Strategist del presidente) ha definito “nazionalismo economico”, basato su un ritorno a pratiche protezioniste e mercantiliste simili a quelle in uso nel diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo, con pesanti applicazioni di dazi sulle importazioni (fino al 45% nel caso della Cina), sussidi alla produzione interna e alle imprese esportatrici, sanzioni per le imprese che scelgono di delocalizzare la produzione e una forte limitazione dell’immigrazione. Anche le menzionate intenzioni di ridiscutere il NAFTA con Canada e Messico e il ritiro dal TPP sono in linea con questa politica commerciale.

Per fare i conti con il problema del riposizionamento americano nel sistema internazionale, Trump e il suo team offrono la soluzione che è forse la più radicale tra quelle analizzate finora. Secondo Trump gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare il proprio ruolo di guida morale e di garante di ultima istanza dell’ordine internazionale in favore di un approccio “non-ideologico” e “contrattuale” alle relazioni interstatali. In quest’ottica gli USA dovrebbero essere pronti a concludere accordi con chiunque condivida gli interessi americani, a prescindere da giudizi di valore sulla natura del regime in questione. Questa è, ad esempio, la visione che ha guidato il riavvicinamento del neo-presidente alla Russia di Vladimir Putin in funzione di contrasto allo Stato Islamico in Siria e che informa l’approccio di Trump agli alleati, spesso accusati di opportunismo, e minacciati di essere abbandonati qualora non fossero disposti a contribuire in misura maggiore in cambio della protezione americana. In questa prospettiva non c’è spazio per nessuna special relationship e le relazioni internazionali devono essere gestire secondo un principio contrattuale.

Nonostante gli Stati Uniti dispongano della forza militare di gran lunga più importante e tecnologicamente avanzata del mondo, nel suo discorso inaugurale il presidente ha accusato la precedente amministrazione di aver finanziato gli eserciti degli altri paesi e permesso un simultaneo peggioramento delle forze armate americane. Per porre rimedio a questo rischio Trump ha promesso grandi investimenti per il potenziamento dell’apparato militare, tuttavia questo ritrovato militarismo non è, nella logica del presidente, accompagnato da un desiderio di avventure militari in teatri remoti, cambi di regime o state-building. Quello di Trump è piuttosto un militarismo improntato alla deterrenza e alla capacità di eliminare i nemici degli Stati Uniti, magari avvalendosi di forze locali sul terreno mentre l’esercito americano si occupa di bombardamenti e operazioni speciali.

Tutto sommato, la Grande Strategia di Trump, modellata sull’idea di «America First», sembra concepita intenzionalmente per sovvertire il consenso bipartisan che ha segnato la politica americana dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo consenso si basava sull’idea che la costruzione e l’amministrazione di un ordine internazionale liberale a guida statunitense, caratterizzato da mercati aperti e alleati con regimi democratici affini fosse un investimento di lungo periodo per assicurare la prosperità e la sicurezza degli USA anche qualora la superiorità materiale americana fosse venuta meno. Sarebbe stato l’eccezionalismo morale americano, e non le effettive condizioni materiali del paese a mantenere gli Stati Uniti in una posizione di forza nel sistema. Tuttavia la visione dell’attuale presidente appare profondamente diversa. Secondo Trump gli Stati Uniti dovrebbero rinegoziare, o addirittura ripudiare, tutti gli accordi internazionali considerati non immediatamente remunerativi in termini economici o di sicurezza. (segue)

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Scritto da
Tiziano Usan

Classe '92. Laureato triennale in Relazioni internazionali e Diplomatiche, e laureando magistrale in studi strategici presso l'Università di Bologna. Si interessa principalmente di strategia e geopolitica, con un focus sul continente Asiatico e sulla Cina in particolare.

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