Scritto da Cesare Alemanni
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Negli ultimi anni, la bomba atomica è rientrata nella grammatica della politica internazionale, nelle conversazioni strategiche tra gli Stati, nei comunicati stampa, nelle minacce velate degli “uomini forti”, persino nei meme.
La minaccia nucleare non è più relegata al dominio della fantascienza ma è diventata una variabile calcolata nel gioco geopolitico, un’ipotesi inclusa nei piani di crisi, un tema di cui si discute – a volte con inquietante leggerezza – nei talk show pomeridiani. Se nella seconda metà del Novecento, la bomba rappresentava il tabù assoluto, ultimamente la sua evocazione sembra divenuta quasi di routine.
È una trasformazione non solo culturale ma, in primis, politica e militare. Ci racconta del passaggio da un mondo governato da regole relativamente stabili a uno sempre più anarchico e basato sul “puro potere”. Un mondo in cui l’ansia nucleare non serve più a congelare i conflitti ma, paradossalmente, a renderli possibili per chi li conduce e ingestibili per chi cerca di fermarli.
La configurazione strategica del mondo multipolare – ibrida, fluida, opaca – sfugge alle logiche simmetriche che avevano dominato l’era del bipolarismo. Non ci sono più due attori principali che si fronteggiano con arsenali bilanciati e dottrine condivise. C’è invece un mondo complesso, frammentato e caratterizzato da strumenti e tipologie di guerra (cyber, droni, armi autonome, intelligenza artificiale) sempre più difficili da catalogare.
Ecco allora che parlare oggi di bomba atomica significa parlare non tanto del suo possibile utilizzo (che resta improbabile, almeno nei termini classici), ma del modo in cui la sua esistenza condiziona ogni altra forma di conflitto, pensiero e decisione. Il vero tema non è più l’eventualità dell’esplosione, ma la sua funzione all’interno del disordine del contemporaneo.
Durante la Guerra Fredda, l’equilibrio nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica si reggeva su una game theory tanto semplice quanto paralizzante: la mutual assured destruction (MAD). La “distruzione reciproca assicurata” era più di una dottrina strategica: era il riflesso di un ordine del mondo, una forma di razionalità “folle” (il sarcasmo dell’acronimo MAD non è mai sfuggito a nessuno) che teneva in piedi l’impalcatura del sistema internazionale. Non si trattava di vincere, ma di rendere la vittoria impossibile. La bomba era la fine del gioco, e proprio per questo nessuno lo poteva giocare davvero.
Questo equilibrio, per quanto spaventoso, aveva una sua logica matematica, condivisa da entrambi i poli. Implicava simmetria, trasparenza, codici comuni, canali di comunicazione attivi anche nei momenti di massima tensione. La deterrenza funzionava non solo per la potenza distruttiva degli arsenali, ma perché entrambi gli attori credevano nella razionalità dell’altro. E credevano anche nella propria.
Oggi quel mondo non c’è più. L’ordine bipolare è stato sostituito da una costellazione disordinata di attori statali, para-statali, non-statali, “uomini forti” allergici alle burocrazie e che talvolta paiono razionali e talaltra no. In questo scenario, la logica della MAD non regge più, se non come reliquia storica. La deterrenza non è sparita, ma si è trasformata. O meglio: si è dispersa in forme più ambigue.
Viviamo, sempre più chiaramente, in un regime di post-deterrenza. Una condizione in cui l’arma nucleare non serve più a evitare la guerra, ma a plasmare il campo di battaglia – o a renderlo abitabile per un tempo indefinito. Una condizione in cui la bomba non viene brandita per bloccare o chiudere il gioco, ma per sbloccarlo o tenerlo aperto.
La bomba atomica non funziona più come garanzia di equilibrio strategico tra potenze simmetriche, ma come strumento tattico in contesti frammentati, squilibrati e in costante mutazione. Non viene utilizzata, ma viene “usata”, che è diverso. Gli usi principali finora emersi sono tre. Vediamoli.
1) Il primo uso – che potremmo chiamare di ombrello strategico – è quello in atto in Ucraina. Fin dall’inizio del conflitto, Vladimir Putin ha fatto dell’atomica un fondale scenico permanente, capace di limitare le opzioni di intervento occidentali. Attorno alla possibilità della bomba, la Russia ha costruito un perimetro di ambiguità (aumentato da una molto pubblicizzata revisione della sua “dottrina” in merito) sufficiente a impedire alla NATO di intervenire con decisione. Non solo e non tanto per il rischio concreto di un eventuale conflitto nucleare ma soprattutto per gli effetti che lo “spauracchio” nucleare ha avuto sulle opinioni pubbliche dei Paesi NATO. La bomba garantisce così a Mosca margini d’azione che altrimenti sarebbero insostenibili. È un uso “permissivo” della deterrenza: anziché congelare il conflitto, ne “permette” la prosecuzione sotto un ombrello strategico che nessuno vuole correre il rischio di sollevare.
2) All’opposto, troviamo il caso dell’attacco israeliano all’Iran. Qui la logica è quella di anticipare la minaccia, di intervenire prima che l’avversario possa realmente dotarsi dell’arma nucleare. La deterrenza si trasforma così nel catalizzatore dell’azione militare, diventa la ragione stessa per colpire, senza attendere il momento in cui la simmetria renderebbe il confronto ingestibile. Questa è una deterrenza proiettiva, che si spinge (unilateralmente) nel futuro per legittimare il presente. Non si basa sull’equilibrio simmetrico, ma tenta anzi di preservare un’asimmetria.
3) La terza modalità, meno diretta ma più inquietante, è quella discorsiva. L’atomica, negli ultimi anni, non è entrata solo nei piani militari, ma nella lingua. Diventa una parte del discorso quotidiano, un riferimento tra i tanti, persino una gag o un meme, una variabile tra molte, discussa con la stessa retorica con cui si parla di sanzioni, escalation convenzionale o droni da combattimento. Questa normalizzazione semantica ha effetti reali. Perché banalizza il tabù, ne consuma il significato e fa sì che tutto ciò che non è LA BOMBA diventi automaticamente più accettabile. Guerre di trincea ipertecnologiche, assedi urbani, carestie indotte, genocidi a bassa intensità: tutto può passare sotto il radar perché, in ogni caso, non è il peggio possibile, non è l’olocausto nucleare. Questa è la forma più subdola di utilizzo strategico dell’atomica: non come deterrente, ma come scudo morale.
Ma c’è un ulteriore aspetto. Durante l’autunno del 2022, nel momento di massima tensione tra Russia e NATO, quando le controffensive ucraine spingevano e Putin parlava di “difesa esistenziale” della Russia, nel dibattito pubblico è accaduto qualcosa di rivelatore. Ha cominciato a circolare con insistenza, anche in ambienti istituzionali e nei media mainstream occidentali, l’ipotesi di un possibile uso russo di “nucleare tattico”. Ed è stato quantomeno inquietante notare come anziché denunciare l’assurdità del tabù, l’opinione pubblica e giornalistica abbia accettato placidamente di analizzarne l’opportunità, la soglia di impiego, la “accettabilità”.
Nell’ottobre del 2022 si è aperta una finestra semantica pericolosa: come se il “nucleare tattico” fosse un nucleare “piccolo”, “limitato”, quasi convenzionale, gestibile sul piano operativo e psicologico. Un nucleare da schermaglie, non da apocalisse. Come se una testata da 10 o da 15 kilotoni, sganciata su un obiettivo militare, fosse solo una bomba un pochino più grossa e non significasse invece la rottura dei sigilli del più pericolo vaso di Pandora della storia dell’umanità.