Recensione a: Ignazio Visco, Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 232, 16 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Gli ultimi dieci anni hanno visto l’Italia passare attraverso due grandi crisi: quella finanziaria globale del 2007/8 e quella dei debiti sovrani del 2011/12. Le conseguenze nefaste della doppia recessione che ne è seguita sono state più gravi di quelle della crisi degli anni Trenta.
Il nostro Paese, tra le economie avanzate, si è dimostrato particolarmente vulnerabile rispetto agli altri, come risulta da alcuni dati inequivocabili: dal 2007 al 2013 il PIL italiano è diminuito di quasi il 9 per cento, contro un 2 per cento dell’area euro; i consumi sono calati dell’8 per cento, gli investimenti del 30 e la produzione industriale di un quarto. Anche l’uscita dalla crisi, a partire dal 2015, è stata più lenta rispetto altri paesi ed è avvenuta senza che fossero stati affrontati i nodi strutturali più gravi. Oggi, con una nuova recessione alle porte, l’Italia si presenta ancora fragile strutturalmente e non del tutto guarita dalle ferite riportate.
Ignazio Visco, economista e Governatore della Banca d’Italia, ripercorre le tappe essenziali di questi ultimi dieci anni nel suo ultimo libro Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia, edito da il Mulino, approfittando dell’evento traumatico della duplice crisi per analizzare l’economia italiana nel suo complesso, evidenziandone i limiti ma anche le potenzialità. Visco si sofferma sulle questioni fondamentali che riguardano il nostro Paese: la pesante eredità sui conti pubblici, le fragilità del sistema bancario, la struttura del sistema produttivo e del mercato del lavoro. In un volume di poco più di duecento pagine l’economista traccia una lucida panoramica del nostro sistema-paese tenendo conto del contesto globale, tra trasformazioni tecnologiche, globalizzazione dei mercati e numerose incognite sul futuro.
Visco si concentra innanzitutto sulla lenta e incompleta risposta dell’Italia ai grandi cambiamenti degli anni Novanta, quali l’apertura dei mercati, l’innovazione tecnologica, il trend demografico e l’Unione economica e monetaria. Due esempi, presi dalle pagine del libro, aiutano a comprendere la portata di queste trasformazioni: per quanto concerne le potenzialità del progresso tecnologico, si pensi all’iPhone X della Apple; è lungo 14 centimetri, pesa 174 grammi e ha una potenza di calcolo pari a circa 30.000 volte quella del Supercomputer IBM 7030 Stretch del 1961, che era lungo 10 metri, pesava 18 tonnellate e costava circa 8 milioni di dollari (che corrisponderebbero a 65 milioni di oggi), ovvero 10.000 volte in più dell’iPhone X. Per quanto riguarda invece l’apertura dei mercati, si rifletta sul solo impatto della Cina nel comparto del tessile, dell’abbigliamento e degli articoli in pelle; tra il 1995 e il 2017 la quota della Cina negli scambi mondiali in questo settore è aumentata, scrive Visco, di 24 punti percentuali, al 37 per cento, mentre la produzione complessiva delle imprese italiane è crollata del 40 per cento (contro un calo dell’11% per il totale dell’industria).
L’Italia, sostiene l’Autore, non si è adeguatamente attrezzata dinanzi a queste trasformazioni, aderendo alla moneta unica in una posizione di debolezza, esacerbata tra l’altro dall’elevato debito pubblico – seppur ridotto notevolmente a partire da metà degli anni Novanta. La produttività del nostro Paese è stagnante da oltre vent’anni, soprattutto a causa del ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie; nel 2013 oltre il 90 per cento dei cittadini nei Paesi Bassi aveva accesso a Internet, mentre in Italia meno del 60 per cento; nel 2012 solo l’8 per cento delle imprese italiane faceva ricorso al commercio elettronico, il valore più basso tra tutti i paesi dell’OCSE. Inoltre, come scrive Visco, «la bassa crescita dell’Italia degli ultimi vent’anni è a sua volta il riflesso di una struttura economica frammentata in cui è elevato il peso delle imprese di dimensione contenuta, in media poco patrimonializzate e spesso poco propense a crescere». (p.32). In Italia infatti le aziende con meno di cinquanta addetti hanno un peso maggiore rispetto che in Germania, Francia e Spagna: secondo i dati di censimento relativi al 2012 sono 4,3 milioni, impiegano 6 milioni di dipendenti e quasi 5 milioni di autonomi, per la gran parte titolari delle aziende stesse.
Con queste condizioni di partenza l’Italia ha sofferto più degli altri e ancora oggi non pare totalmente guarita: «In Italia la doppia recessione ha lasciato eredità pesanti, con il crollo dell’occupazione, l’ulteriore arretramento del Mezzogiorno e la crescita della povertà. Alla forte compressione della domanda, in particolare della spesa per investimenti, ha fatto seguito la sostanziale stagnazione di prezzi e salari nominali. Solo l’azione energica della politica monetaria ha consentito, negli ultimi anni, di evitare una spirale deflazionistica. Non sono state evitate, però, conseguenze severe per i conti pubblici e i bilanci delle banche». (p.15).
Visco nel volume prende in esame alcune questioni chiave per lo sviluppo italiano in vista delle sfide globali del ventunesimo secolo: il debito pubblico, il settore bancario, l’educazione finanziaria e le politiche monetarie. In questa sede è impossibile trattare queste tematiche in modo approfondito e, inoltre, non è lo scopo di questo testo analizzare l’operato di Visco come Governatore negli anni della crisi e l’efficacia della vigilanza sulle banche – l’Autore ovviamente sostiene che vi sia stata la vigilanza necessaria e, nell’analisi delle criticità riscontrate, si concentra soprattutto sulla rigidità delle regole bancarie europee e il mancato completamento dell’Unione bancaria.
Più interessante è invece il discorso sul debito pubblico e il settore bancario. Per quanto riguarda il primo, Visco ne sostiene la necessaria riduzione, soprattutto per evitare un onere eccessivo per la spesa per interessi – ricordiamo che l’Italia deve collocare ogni anno 400 miliardi di titoli pubblici sul mercato. Negli anni della crisi il rapporto debito-PIL è aumentato di circa trenta punti percentuali a causa dell’andamento negativo del denominatore (il PIL), facendo sprofondare l’Italia nella spirale negativa dello spread durante il 2011/12; a causa di questa esposizione ai mercati, e non avendo una vera e propria banca centrale dotata degli strumenti per calmierare i tassi (ci sentiamo di aggiungere), risulta necessario diminuire il debito. Un’azione efficace consisterebbe nel mantenere un avanzo primario del 4% (quindi sostanzialmente un pareggio del saldo strutturale) per ridurre il rapporto sotto il 100 in un arco di dieci anni, con inflazione al 2% e una crescita all’1. Nonostante l’Autore non risparmi alle regole europee qualche critica, alla fine la tesi risulta chiara: «La forte esposizione alla volatilità dei mercati e il freno alla crescita che ne derivano non ci consentono di posticipare ulteriormente la riduzione del debito. Non dobbiamo ripetere gli errori del passato». (pp.82-83).
Per comprendere la vicenda delle crisi bancarie è imprescindibile tener conto degli effetti nefasti della grande crisi. Tra il 2007 e il 2015 il peso dei crediti in sofferenza e degli altri crediti deteriorati sul complesso dei prestiti bancari è triplicato; nel dicembre 2015, scrive l’Autore, il complesso dei crediti deteriorati era pari, al netto delle rettifiche di valore, a 197 miliardi, ovvero il 10,8% del totale dei prestiti all’economia. Il combinato disposto tra il profondo deterioramento del sistema produttivo, con numerose imprese e famiglie incapaci di rimborsare i finanziamenti ricevuti, e i gravi episodi di mala gestio riportati dalle cronache, ha generato la forte crisi di sistema del settore bancario che abbiamo visto. Inoltre, «alla crescita dello stock di crediti deteriorati, e soprattutto alla loro persistenza su livelli elevati, hanno fortemente contribuito la lentezza delle procedure giudiziali di recupero e lo scarso sviluppo del mercato secondario di tali attivi, sostanzialmente oligopolistico». (p.94). Come riporta l’Autore, in Italia occorrono in media tre anni per risolvere una controversia in un tribunale di prima istanza e più di sette per chiudere una procedura fallimentare, contro l’anno, per ambedue i casi, dei paesi più virtuosi dell’Unione.
Sono tre le sfide fondamentali che, secondo Visco, le banche dovranno affrontare – le quali, ricordiamo, hanno comunque notevolmente ridotto i crediti deteriorati con la ripresa degli ultimi anni e hanno raggiunto una certa stabilità, a fronte di interventi da parte pubblica e di forti ristrutturazioni del settore: la prima consiste nell’adeguarsi alle mutate esigenze del sistema produttivo, per alloccare con più efficienza le risorse e venire incontro alle necessità finanziarie delle imprese medio-grandi operanti sui mercati internazionali; la seconda «riguarda il rafforzamento e il recupero di reddittività dei singoli intermediari e del settore nel suo complesso». (p.112); la terza, infine, è la sfida della digitalizzazione, imprescindibile ormai anche per l’attività bancaria: l’obiettivo è quello di elaborare le informazioni con più efficienza e abbattere i costi, come Stati Uniti, Regno Unito e Cina stanno facendo da anni.
Più in generale, alzando lo sguardo anche a livello europeo, Visco scrive: «Debolezze sono ancora presenti. Per risolverle c’è innanzitutto bisogno di stabilità e fiducia; interventi generalizzati, concitati e prociclici non sono d’aiuto. Un contributo può provenire dalla revisione dell’assetto istituzionale e regolamentare europeo in materia di gestione delle crisi, del quale vanno corretti gli eccessi di rigidità». (p.114).
Il volume di Visco, al netto delle considerazioni personali dell’Autore e dell’ingombrante ruolo che ricopre, può ritenersi un interessante saggio all’interno della letteratura sulla crisi, soprattutto per la lucidità con cui tratta le grandi trasformazioni degli ultimi vent’anni. Degne di nota sono anche le pagine riguardanti la necessità di un’educazione finanziaria e l’importanza degli investimenti in cultura e conoscenza – tema molto caro all’economista. Attraverso l’innovazione e la cultura, ci dice Visco con queste pagine, l’Italia potrà riportarsi al passo coi tempi senza essere travolta dal grande dis-ordine globale. L’importante è che se ne renda conto al più presto.