Scritto da Giacomo Bottos
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Ethel Frasinetti è Direttrice generale Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.
Dal punto di vista di un attore importante del territorio bolognese e ravennate, come la Fondazione del Monte, quale valutazione date di una progettualità come il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna?
Ethel Frasinetti: Da parte nostra, la valutazione è senz’altro positiva. Il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale rappresenta uno strumento di grande rilevanza per il territorio in quanto contribuisce a definire una cornice strategica chiara, capace di orientare le azioni degli attori locali – pubblici, privati, del Terzo settore – all’interno di un sistema più ampio e coerente. Noi ci sentiamo parte di un ecosistema articolato, e in quest’ottica il fatto che l’ente pubblico assuma un ruolo regolatore e di regia, attraverso un processo di pianificazione ampio e partecipato, rappresenta per noi un fattore abilitante perché aiuta a fare chiarezza sulle responsabilità, sui ruoli e sugli obiettivi condivisi. È un Piano che, oltre al metodo – che privilegia il coinvolgimento, la co-progettazione e l’integrazione dei saperi – colpisce anche per il merito: gli obiettivi individuati sono rilevanti, concreti e coerenti con le sfide che il nostro territorio sta affrontando, dalle transizioni ecologiche e digitali, alla questione demografica, alla riduzione delle disuguaglianze.
Rispetto al concetto di economia sociale, qual è la prospettiva della Fondazione? In quali ambiti di attività questo approccio può trovare maggiore rilevanza?
Ethel Frasinetti: La nostra Fondazione agisce su quattro ambiti principali: cultura, sociale, ricerca scientifica e sviluppo economico e territoriale. Tuttavia, ci teniamo a sottolineare che il nostro approccio non è settoriale. Non lavoriamo “a silos”, ma ci muoviamo secondo una visione sistemica e interconnessa. Questo è particolarmente vero quando parliamo di economia sociale. Nel nostro operare, il concetto di “economia” non è mai disgiunto da quello di “sociale”. Per noi, promuovere sviluppo economico significa farlo tenendo insieme le dimensioni di coesione, inclusione e sostenibilità. È un principio che applichiamo concretamente, ad esempio, nel lavoro che stiamo portando avanti nelle cosiddette “aree interne”, come l’Appennino. Lì stiamo sperimentando un modello di intervento organico che rappresenta bene l’idea di economia sociale: non si tratta solo di finanziare iniziative puntuali, ma di costruire un ecosistema locale sostenibile. Interveniamo sulla cultura, sul welfare, sull’accesso alla connettività (ad esempio sostenendo lo sviluppo della banda larga), e sulle attività economiche legate alla cura e alla valorizzazione del territorio. Un esempio concreto è il sostegno a un vivaio, inteso sia come presidio produttivo che come spazio educativo e sociale. A questo si affiancano iniziative legate alla longevità attiva e al benessere della popolazione anziana. L’obiettivo è creare condizioni perché quel territorio non solo resista, ma torni a crescere, generando valore economico e sociale insieme. Tutto questo avviene sempre in coerenza con i principi di sostenibilità che sono alla base dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Ha parlato di sostenibilità come elemento centrale dell’identità della Fondazione, citando l’Agenda 2030. In che modo questo principio orienta le vostre scelte? E che relazione esiste tra sostenibilità ed economia sociale, secondo la vostra visione?
Ethel Frasinetti: La sostenibilità è uno dei cardini della nostra azione. Non è una componente accessoria, ma un principio fondativo, tanto che lo scorso anno abbiamo formalizzato questo orientamento con una modifica statutaria molto significativa. Abbiamo infatti integrato gli obiettivi dell’Agenda 2030 direttamente nel nostro statuto, ossia nel documento che definisce la missione stessa della Fondazione. Si tratta di un passaggio non banale, che ha richiesto l’approvazione ministeriale, in quanto è un atto che dà alla sostenibilità una valenza giuridica, culturale e operativa. In particolare, la nostra idea di sostenibilità è quella che chiamiamo “sostenibilità integrale”, che è quella del Piano stesso. L’abbiamo definita anche nel nostro Documento programmatico triennale come un’integrazione dinamica di quattro dimensioni fondamentali: ambientale, economica, sociale e culturale. Il termine “dinamica” è importante, perché indica che non ci limitiamo a una somma statica di obiettivi, ma lavoriamo per mantenerne l’equilibrio in un contesto in continuo cambiamento. Questa visione è pienamente complementare al concetto di economia sociale. Quando parliamo di sostenibilità integrale stiamo già parlando di economia sociale, perché ci poniamo l’obiettivo di generare impatto positivo tenendo insieme benessere collettivo, equità, sviluppo e rispetto per l’ambiente e per le persone. Anche il modo in cui governiamo i nostri interventi risponde a questa logica: ogni iniziativa deve rispecchiare questo approccio integrato e contribuire a rafforzare le condizioni per uno sviluppo equo e duraturo. In questo senso, i principi della sostenibilità e quelli dell’economia sociale non solo sono compatibili, ma si rafforzano reciprocamente, definendo una traiettoria condivisa per il futuro del territorio.
Quali sono gli ambiti principali nei quali il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale e l’attività della Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna trovano una convergenza?
Ethel Frasinetti: Uno dei punti centrali è senza dubbio l’approccio ecosistemico e contestuale alle transizioni giuste. Con il Piano condividiamo la consapevolezza che le grandi trasformazioni in atto, da quella climatica a quella digitale e demografica, non possano essere affrontate separatamente. Non è possibile, infatti, adottare una visione parziale, concentrandosi su una singola dimensione, perché le transizioni si influenzano reciprocamente e vanno analizzate e affrontate con uno sguardo integrato. Sia il Piano, sia l’impostazione della Fondazione propongono un’analisi congiunta dei dati relativi ai cambiamenti in corso, seguita da una riflessione collettiva e, infine, dall’individuazione di azioni trasformative. Queste azioni non si limitano a rispondere a un singolo bisogno, ma cercano di tenere insieme tutti gli aspetti del cambiamento. Pensiamo, ad esempio, al caso dell’Appennino: nel momento in cui ci si interroga su come agire, è necessario guardare contemporaneamente all’invecchiamento della popolazione, agli effetti del cambiamento climatico e alle trasformazioni tecnologiche. L’intervento non può che essere organico, sistemico. Solo così si possono generare soluzioni davvero efficaci, capaci di migliorare concretamente la qualità della vita delle comunità coinvolte. È proprio questa attenzione all’impatto sociale, al benessere effettivo delle persone e dei territori, che guida l’impostazione sia del Piano che della nostra Fondazione.
E per quanto riguarda i modelli di governance collaborativa?
Ethel Frasinetti: Anche su questo punto la convergenza è evidente. Il Piano nasce da un processo partecipativo che coinvolge fin dall’inizio il Terzo settore, il mondo profit, le istituzioni pubbliche e le reti di cittadinanza attiva. Questo approccio riflette quello della nostra Fondazione, che da tempo lavora con una logica di co-progettazione e di reti multilivello. La governance collaborativa non si attiva solo nella fase esecutiva, ma è già presente nelle fasi preliminari, dall’analisi dei dati alla formulazione delle proposte. In questo senso, ogni azione è il frutto di una costruzione collettiva. Prendiamo ancora una volta l’Appennino come esempio: già nella fase di analisi sono stati coinvolti tutti gli attori del territorio, pubblici e privati. Questo modello, che possiamo definire micro, meso e macro, permette di passare dal bisogno del singolo cittadino alla visione delle istituzioni, senza perdere coerenza. Anche progetti più strutturati, come quello sulla longevità, seguono questa logica, tenendo insieme le diverse dimensioni in un’unica prospettiva ecosistemica.
Passando al tema della riduzione delle disuguaglianze territoriali: come si traduce questa convergenza sul piano operativo?
Ethel Frasinetti: Questo terzo ambito è una diretta conseguenza del primo, relativo alle transizioni. Infatti, proprio grazie a un’analisi integrata e condivisa dei dati, si riescono a individuare le aree dove intervenire con priorità. Sia il Piano metropolitano sia il nostro Documento programmatico riconoscono le aree interne, le periferie e in particolare l’Appennino come territori strategici su cui concentrare gli sforzi. L’obiettivo chiaro è ridurre le disuguaglianze territoriali affrontando alla radice le cause della marginalizzazione, sia essa economica, sociale o demografica. Questo vale sia per l’area metropolitana di Bologna, sia per quella di Ravenna. In entrambi i casi si interviene su luoghi segnati da criticità ma anche da grandi potenzialità, attraverso progetti che puntano alla rigenerazione urbana e al rafforzamento del tessuto sociale.
Come si colloca, invece, la Fondazione rispetto alla finanza sostenibile come leva di trasformazione sociale?
Ethel Frasinetti: Come Fondazione viviamo di finanza e per portare avanti la nostra missione istituzionale facciamo scelte e investimenti coerenti con i criteri ESG, che integrano responsabilità ambientale, sociale e di governance. Gestiamo il nostro patrimonio seguendo questi principi in modo convinto e sistematico, contribuendo così alla costruzione di un ecosistema finanziario orientato alla sostenibilità. Anche se gli strumenti promossi dal Piano, come i social impact bond, non ci vedono coinvolti direttamente, riconosciamo in essi una coerenza di fondo con la nostra visione. Entrambi gli approcci mirano a generare un impatto positivo attraverso la finanza, anche in un contesto di mercato che, va detto, oggi appare piuttosto incerto e spesso distante da queste logiche. Tuttavia, proprio per questo è importante che ci siano soggetti che agiscono come agenti di cambiamento, orientando le risorse in direzione di una finanza più responsabile e trasformativa.
Qual è il ruolo che la Fondazione può giocare come partner nelle direttrici delineate dal Piano Metropolitano per l’Economia Sociale? In particolare rispetto alla partecipazione nella governance e nella co-progettazione?
Ethel Frasinetti: Riteniamo che la Fondazione possa ricoprire un ruolo strategico e proattivo all’interno del Piano, sia come partner progettuale che come catalizzatore di innovazione sociale. È una posizione che deriva da una duplice consapevolezza: da un lato, il senso di responsabilità che sentiamo nei confronti del territorio e delle comunità che lo abitano; dall’altro, il riconoscimento del ruolo che ci viene attribuito, anche per la nostra storia, la nostra rete di relazioni e la capacità di intervenire in modo mirato ed efficace. Quando parliamo di partecipazione attiva, ci riferiamo a un coinvolgimento concreto e continuativo nei luoghi della governance e nei processi di co-progettazione delineati dal Piano. Pensiamo, ad esempio, ai comitati di direzione, ai coordinamenti strategici, ai tavoli di consultazione e ai gruppi di lavoro operativi. In tutti questi spazi, la Fondazione non solo intende essere presente, ma considera questa partecipazione uno strumento fondamentale per interpretare nel modo più pieno e autentico possibile il proprio ruolo sussidiario. Un ruolo che non si limita all’erogazione di contributi, ma che si esprime anche nella capacità di generare connessioni, orientare scelte, valorizzare esperienze e costruire visioni condivise. Accanto a questo, riteniamo che anche la nostra capacità erogativa possa contribuire significativamente all’attuazione del Piano, soprattutto nella fase di sperimentazione di modelli e interventi pilota. Possiamo sostenere progettualità ad alto impatto in settori chiave, come l’abitare collaborativo e sostenibile, il welfare di prossimità, la rigenerazione delle aree interne, il turismo lento e responsabile, o ancora l’educazione e la cultura come strumenti di inclusione. In questi ambiti, il nostro intervento può avere un duplice valore: da un lato, fornire un supporto economico-finanziario iniziale che consenta di avviare iniziative innovative; dall’altro, valorizzare tali esperienze attraverso la nostra rete territoriale, contribuendo a dar loro visibilità, diffusione e, auspicabilmente, scalabilità. La nostra visione è quella di un’economia che non sia più settoriale, ma sistemica, dove sostenibilità, equità e coesione diventino driver trasversali. In questo quadro, il contributo della Fondazione si colloca lungo due direttrici principali: la partecipazione strutturata alla governance e ai processi decisionali, e il sostegno operativo a progettualità che incarnano in modo concreto i principi dell’economia sociale.
Questi progetti pilota in quali direzioni potrebbero svilupparsi?
Ethel Frasinetti: Le direttrici possibili sono numerose. Penso innanzitutto all’innovazione digitale e alla ricerca scientifica, ma anche a tutto ciò che riguarda le dinamiche demografiche, un ambito che richiede rigore e attenzione strategica. In questo contesto, abbiamo già attivato interventi innovativi che potrebbero costituire esperienze utili da rilanciare o sviluppare ulteriormente, ad esempio attraverso spin-off mirati. Penso in particolare al contrasto della dispersione scolastica o al sostegno alle adolescenze, temi su cui siamo attivamente impegnati. La nostra Fondazione, com’è noto, ha un ampio spettro di intervento statutario, dalla salute all’educazione, dalla cultura alla ricerca, dallo sviluppo territoriale al welfare culturale. Proprio grazie a questa articolazione, credo non sia difficile individuare un ambito distintivo su cui posizionarci con coerenza e impatto. Le potenzialità sono molteplici, e siamo pronti a contribuire in modo flessibile e mirato, a seconda delle traiettorie che il Piano metropolitano andrà a delineare.
Sul rafforzamento delle reti territoriali di comunità, quale può essere il ruolo della Fondazione?
Ethel Frasinetti: Abbiamo maturato un’esperienza significativa che qualifica il nostro approccio ai territori. Da molti anni adottiamo una modalità di relazione diretta e immediata con le comunità locali. È ciò che in passato è stato definito “fondazione aperta”: un’identità che si è consolidata nel tempo e che riflette la nostra capacità di mantenere un contatto autentico con cittadini, associazioni e istituzioni. Questo approccio ha favorito la costruzione di legami non formali ma concreti, relazioni vere che ci rendono spontaneamente predisposti a sostenere e rafforzare le reti locali, fino a diventarne talvolta catalizzatori. Non è retorica, ma un elemento che ci viene riconosciuto anche quando promuoviamo interventi più strutturati, come bandi pubblici o progetti direttamente ideati dalla Fondazione. La nostra inclinazione all’ascolto e alla vicinanza è stata particolarmente evidente nel periodo post-Covid, quando abbiamo scelto di non chiuderci, ma anzi di renderci ancora più accessibili, anche attraverso strumenti informali, mettendo a disposizione i nostri contatti personali per accompagnare chi si trovava in difficoltà. È stata un’azione concreta che ha rafforzato ulteriormente il nostro legame con il territorio. Questo capitale relazionale rappresenta un valore aggiunto fondamentale per consolidare reti esistenti o favorire la nascita di nuove connessioni tra soggetti diversi. Parliamo di reti, ma in realtà ci riferiamo a relazioni autentiche tra persone che progettano insieme, costruiscono senso condiviso e generano cambiamento. In una città complessa come Bologna, questo tipo di prossimità è tutt’altro che scontata. Promuovere e curare le relazioni è un lavoro vero e proprio, perché dietro il concetto di rete c’è la capacità di attivare e sostenere dinamiche collaborative tra individui e organizzazioni. È un compito che la Fondazione ha fatto proprio anche nei percorsi di co-progettazione e di sostegno alle comunità, in particolare nelle aree periferiche e interne, già ampiamente citate. Il nostro obiettivo è facilitare la nascita di partenariati stabili tra istituzioni, attori dell’economia sociale e cittadini, valorizzando la partecipazione attiva e condividendo la responsabilità dello sviluppo. Perché, come amiamo ripetere, o si cresce insieme, o non si cresce affatto.
E per quanto riguarda, infine, il ruolo della cultura e della formazione?
Ethel Frasinetti: La cultura, insieme al sociale, è un altro degli ambiti statutari prioritari su cui destiniamo da sempre una quota rilevante delle nostre risorse. In questo senso, il nostro impegno nel campo educativo, nel lavoro con le scuole e nella promozione della cittadinanza attiva è già consolidato. Tuttavia, negli ultimi anni, accanto alla progettualità tradizionale, si è affermata l’esigenza sempre più forte della formazione al cambiamento. Viviamo trasformazioni epocali che modificano in profondità i paradigmi della società e il modo in cui le persone vivono, lavorano e si relazionano. Questi cambiamenti, se non accompagnati da percorsi di comprensione e preparazione adeguata, rischiano di generare spaesamento, diffidenze, paure, e una crescente chiusura sociale. È per questo che in quasi tutti i nostri progetti, oggi, è prevista una componente formativa, tramite strumenti per leggere il presente, per comunicare efficacemente, per intervenire in modo consapevole nei contesti locali. Accanto alla formazione rivolta direttamente alle comunità e alle persone coinvolte nei progetti, abbiamo investito anche in quella che potremmo definire una “formazione dei formatori”. Oltre al contributo economico che forniamo ai beneficiari dei nostri bandi, offriamo anche un accompagnamento strutturato che include strumenti comunicativi, supporto formativo e percorsi di crescita personalizzati. È un modo per rafforzare le capacità progettuali e operative di chi lavora sul territorio, affinché ogni intervento abbia un impatto duraturo. In questa prospettiva, cultura e formazione diventano leve strategiche per affrontare le grandi sfide del presente, promuovendo una cittadinanza attiva e preparata. E il fatto che a livello territoriale, come dimostra lo stesso Piano metropolitano, ci siano altri attori che si muovono nella stessa direzione è un elemento importante di coerenza e fiducia. Di fronte a sfide così complesse, sapere che le realtà locali condividono visione politica e impegno rafforza la speranza e la possibilità concreta di incidere positivamente sul futuro.