“Convivere con la catastrofe” di Pablo Servigne e Raphaël Stevens
- 05 Aprile 2025

“Convivere con la catastrofe” di Pablo Servigne e Raphaël Stevens

Recensione a: Pablo Servigne e Raphaël Stevens, Convivere con la catastrofe. Piccolo manuale di collassologia, traduzione di Sandra Bertolini, Treccani Libri, Roma 2021, pp. 192, 22 euro (scheda libro)

Scritto da Pietro Corazza

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Nel saggio Convivere con la catastrofe Pablo Servigne e Raphaël Stevens affrontano una delle grandi questioni del nostro tempo – quella degli sconvolgimenti climatici ed ecologici che il nostro pianeta sta attraversando, e del loro impatto sulle società umane – adottando un approccio che chiamano “collassologia”, ovvero «l’esercizio transdisciplinare di studio del collasso della nostra civiltà industriale, e di ciò che potrebbe succederle» (pp. 224-225). Si tratta di un punto di vista ancora poco diffuso nel dibattito italiano, ma che ha invece avuto una certa risonanza in Francia (a partire proprio da questo testo) e nel mondo anglosassone, principalmente grazie agli studi di Jem Bendell, il cui testo più recente e completo è Breaking Together[1].

La tesi fondamentale sostenuta da Servigne e Stevens, così come da Bendell, è che non soltanto il clima e gli ecosistemi di cui siamo parte stanno attraversando trasformazioni critiche, non lineari e difficilmente prevedibili (una visione che è ormai condivisa nella comunità scientifica), ma anche le nostre stesse società si trovano di fronte alla possibilità realistica ed estremamente concreta di collassare nel prossimo futuro. Ma cosa si intende per collasso di una società, o di una civiltà? Jared Diamond, basandosi sullo studio dei collassi di civiltà passate, li descrive come «una riduzione drastica del numero della popolazione e/o della complessità politica, economica e sociale, in un’area estesa e per un prolungato periodo di tempo»[2], in cui la riduzione della popolazione è determinata principalmente da carestie, malattie o guerre. Ciò significa che un collasso non è la fine del mondo, ma è piuttosto la fine di un certo modo di stare al mondo: noi esseri umani probabilmente continueremo ad esistere, ma le nostre società e i nostri modi di vivere cambieranno profondamente. Non è la prima volta che succede nella storia, ogni civiltà segue un ciclo di vita che prima o poi la conduce a collassare. Quando guardiamo alla storia delle civiltà passate, questo non ci stupisce. Ma è molto diverso osservare con distacco la fine della civiltà egizia, oppure iniziare a considerare seriamente l’ipotesi che potrebbe succedere anche a noi – e non in un futuro lontano, ma forse già nell’arco delle nostre vite.

Yves Cochet propone un’altra definizione di collasso sociale, che può aiutare a immaginare quali potrebbero essere le sue implicazioni nella vita delle persone: si tratta del «processo in base al quale i bisogni primari (acqua, cibo, alloggio, vestiti, energia, ecc.) non saranno più forniti (a costi ragionevoli) alla maggioranza della popolazione attraverso servizi giuridicamente regolamentati» (p. 14). Cosa potrebbe succedere se si interrompessero le catene di approvvigionamento che riforniscono di cibo i supermercati, o se venisse a mancare la benzina?[3].

La prospettiva del collasso della nostra civiltà è indubbiamente difficile da affrontare. È probabile che, al solo sentirla nominare, ci venga voglia di cambiare discorso e pensare ad altro, perché tendiamo ad associarla ad un approccio catastrofista e fatalista, oppure a scenari distopici privi di ogni speranza. L’approccio dei due autori è invece sensibilmente diverso, e ce ne si rende conto fin dalle prime pagine: «questo non è un libro pessimista che non crede nel futuro, ma neanche un libro “positivo” che minimizza il problema fornendo “soluzioni” nell’ultimo capitolo. È un libro che cerca di esporre i fatti con lucidità, di porre domande pertinenti e di creare una cassetta degli attrezzi che ci consenta di affrontare l’argomento in modo diverso rispetto ai film catastrofici hollywoodiani, al calendario maya o alla “tecno-beatitudine”» (p. 20).

Vale la pena riassumere brevemente le argomentazioni su cui Servigne e Stevens basano la tesi secondo cui la civiltà oggi prevalente sul pianeta, che chiamano “civiltà termo-industriale”, è probabilmente destinata a collassare nel prossimo futuro. Secondo gli autori, i quattro pilastri su cui la nostra civiltà si basa – ovvero il clima, la biodiversità, l’energia e l’economia – stanno crollando in maniera sostanzialmente irreversibile. Le diverse crisi in atto in ognuno di questi quattro ambiti sarebbero, già da sole, in grado di minare le fondamenta delle nostre società, ma sono soprattutto le loro interazioni reciproche che, aggravandosi a vicenda, creano un circolo vizioso che ne amplifica enormemente gli effetti distruttivi.

Il primo ambito è il più noto: il clima. Sappiamo che le temperature globali sono in costante aumento e che ogni anno i dati si rivelano peggiori rispetto alle previsioni. Gli impegni presi dai governi vengono costantemente disattesi, allontanandoci dal rimanere entro un aumento di 2°C al 2050. Se continuiamo di questo passo, potremmo arrivare a sforare i 3°C o addirittura i 4°C entro il 2100, con conseguenze disastrose per la vita sulla Terra. Il collasso climatico è strettamente intrecciato a quello della biodiversità: si alimentano a vicenda. Ci troviamo nel mezzo della sesta estinzione di massa della storia del pianeta, la prima causata dall’azione umana. E ormai sappiamo che noi esseri umani non possiamo più considerarci entità separate e indipendenti dagli ecosistemi nei quali viviamo. Se gli ecosistemi collassano, noi collassiamo con loro.

Fin qui, niente di particolarmente nuovo per chi già si interessa di questi temi. Le argomentazioni più significative, e che conducono a conclusioni più radicali di quelle che mediamente circolano nel dibattito pubblico, sono invece quelle che riguardano l’intreccio tra energia ed economia. Qui, gli autori partono dal riconoscimento che una delle caratteristiche fondamentali della civiltà umana degli ultimi secoli è il suo enorme consumo di energia, che è stato reso possibile dallo sfruttamento intensivo delle fonti fossili e non ha precedenti nella storia: un barile di petrolio produce infatti l’energia equivalente a circa 24.000 ore di lavoro umano[4]. Proviamo a mettere per un attimo da parte le preoccupazioni climatiche ed ecologiche, e immaginiamo di voler continuare a ricavare energia dalle fonti fossili per far funzionare le nostre società come sono oggi: il problema è che queste fonti fossili sono limitate, e ci avviciniamo al loro esaurimento. In particolare, abbiamo già superato nel 2006 il “picco del petrolio convenzionale”, ovvero il picco nella curva storica di produzione del petrolio, superato il quale la produzione inizia a diminuire. Metà delle riserve di petrolio conosciute sono ancora nel sottosuolo, ma il problema è che il loro indice EROI (ritorno energetico sull’investimento) è molto più basso di un tempo. Se cento anni fa bastava fare un buco per terra per veder zampillare una fontana di petrolio, oggi per raggiungere le riserve rimanenti occorre trivellare sempre più in profondità, cioè serve consumare molta più energia per ottenere altra energia, e quindi il processo diventa sempre meno vantaggioso (per avere un’idea, a inizio Novecento l’indice EROI del petrolio statunitense era di 100:1, cioè per ogni unità di energia investita se ne ottenevano 100. Oggi si è abbassato a 11:1).

È stato stimato che le nostre società hanno bisogno di un EROI minimo per offrire servizi alla popolazione, che è di circa 12/13:1. Sotto quella soglia, diventa necessario iniziare a tagliare alcuni dei servizi che consideriamo essenziali (istruzione, sanità, sicurezza, infrastrutture… fino alla produzione di cibo e al riscaldamento). Il punto è che ci stiamo pericolosamente avvicinando a quella soglia, a causa del declino dei combustibili fossili. E, purtroppo, affidarsi alle energie rinnovabili non è sufficiente per controbilanciare questo declino. In primo luogo, perché le rinnovabili hanno indici EROI troppo bassi, e inoltre perché sul pianeta non ci sono abbastanza metalli e minerali per sviluppare massicciamente le rinnovabili di cui avremmo bisogno per controbilanciare l’energia che non otterremo più dal petrolio. Infatti, anche le energie rinnovabili si basano sull’uso di risorse non rinnovabili (come, ad esempio, litio per le batterie, ma anche grafite, nickel, e metalli rari), risorse che sono destinate ad esaurirsi, seguendo lo stesso percorso di picco che sta attraversando il petrolio. Inoltre, anche il sistema di produzione delle rinnovabili si basa fortemente sull’uso di combustibili fossili (per la fabbricazione, la costruzione, il funzionamento e la manutenzione), quindi rischia di essere compromesso se questi vengono meno. Anche il nucleare presenta problemi analoghi a quelli delle rinnovabili, ovvero un indice EROI non abbastanza alto e la dipendenza sia dall’energia fossile che da risorse finite come l’uranio, ma a questi si aggiungono ulteriori criticità. Ad esempio, nella prospettiva di un collasso sociale, in cui non sarebbero più garantiti i servizi essenziali per la popolazione, come potremmo assicurarci che i delicati e costosi processi di smaltimento e conservazione delle scorie radioattive vengano garantiti senza rischi?

In breve, non è fisicamente possibile continuare a consumare le enormi quantità di energia che servono alle nostre società per mantenerle come le conosciamo oggi, men che meno per sostenere la crescita costante che le caratterizza, semplicemente perché le fonti di energia su cui ci basiamo presto non saranno più sufficienti. Quindi, la soluzione sarebbe smettere di consumare così tanta energia? Dovremmo, cioè, seguire la strada della “decrescita” e scegliere volontariamente, in maniera collettiva, di ridurre i nostri consumi? Idealmente sarebbe la scelta più razionale, e anche quella preferibile in termini di giustizia climatica: la questione fondamentale, ormai dovrebbe essere chiaro, è che non possiamo avere una crescita economica infinita su un pianeta finito. Ma, secondo i collassologi, non è possibile perseguire reali politiche di decrescita restando all’interno del nostro attuale sistema economico, perché quest’ultimo non può fare a meno della crescita: ne ha strutturalmente bisogno per mantenersi. Infatti, la nostra è un’economia basata sul debito[5], nella quale anche i governi dipendono dagli istituti finanziari per sostenersi. Sono le banche, infatti, che, comprandone il debito pubblico, permettono agli Stati di pagare i servizi che offrono alla cittadinanza. Ma questo significa che i governi sono di fatto in parte sottomessi al volere delle banche, perché queste possono decidere di smettere di comprarne il debito, se gli Stati adottano politiche a loro sgradite, esponendoli così al rischio di recessione o di default. E siccome il sistema finanziario internazionale non ha alcuna intenzione di mettere in discussione il paradigma della crescita, perché è su di esso che basa la propria esistenza e i propri profitti, anche gli Stati non sono sostanzialmente liberi di cambiare direzione. Concretamente, se un governo annunciasse che intende perseguire politiche di decrescita, si esporrebbe al rischio di un collasso della propria economia e ai disordini sociali che ne deriverebbero[6].

In sintesi, secondo gli autori, è possibile descrivere i primi due ambiti presi in considerazione (clima e biodiversità) come “confini oltrepassabili”: nessuno ci impedisce di continuare ad alterare il clima o distruggere la biodiversità, ma sappiamo che superate certe soglie si innescheranno cambiamenti devastanti e difficilmente prevedibili. Gli ultimi due ambiti (energia ed economia) invece riguardano limiti invalicabili: se continuiamo ad estrarre le risorse non rinnovabili, prima o poi finiranno, è un fatto innegabile. E la nostra economia basata sulla crescita infinita è destinata a collassare su sé stessa quando verrà meno l’energia fossile che la sostiene. Quindi, prima o poi il nostro motore è comunque costretto a fermarsi, per limiti fisici. Se continueremo a ignorare questi fatti e a cercare di consumare le risorse del pianeta fino all’ultima goccia, come stiamo facendo, non riusciremo in ogni caso ad evitare il collasso (forse al massimo a posticiparlo un po’), ma in questo modo ci condanneremo a dover poi ricostruire le nostre società in un ambiente molto più impoverito e inospitale.

Queste sono dunque le argomentazioni che spingono gli autori a concludere che il collasso della civiltà termo-industriale è ormai sostanzialmente inevitabile. Ma, se le cose stessero davvero così, cosa dovremmo aspettarci? Come si potrebbe manifestare questo collasso? Data la complessità, l’incertezza e l’imprevedibilità delle trasformazioni non lineari che sempre più caratterizzano la nostra epoca, non è chiaramente possibile aspettarsi previsioni definite, né che un’unica teoria sia un grado di comprendere la realtà. Piuttosto, lo scopo del libro è, come detto, quello di ampliare la “cassetta degli attrezzi” concettuali attraverso cui interpretare il presente e immaginare il futuro. Per questo, nel corso del testo Servigne e Stevens prendono in considerazione una serie di modelli teorici provenienti da diverse discipline, spaziando dagli studi storico-archeologici sui collassi del passato, ai modelli che effettuano previsioni sugli sviluppi futuri in ambito climatico, biologico, sociopolitico, economico e demografico.

Ad esempio, come immaginare un collasso da un punto di vista temporale? Secondo gli autori, il nostro immaginario collettivo è spesso abitato da narrazioni in cui il collasso avviene di colpo, addirittura in un solo giorno, ma è più probabile che non vada così. Le esperienze passate mostrano che di solito i collassi durano anni, o decenni, in alcuni casi sono durati addirittura secoli. Al tempo stesso, ciò non vuol dire che, all’interno di un declino progressivo, non ci siano anche picchi repentini, nei quali la situazione può precipitare da un giorno all’altro in connessione con un evento di particolare intensità (lo scoppio di una guerra, una crisi economica, una pandemia, un evento climatico estremo, ecc.). Inoltre, alcune teorie propongono l’idea di un declino lineare, che attraversa varie fasi di intensità crescente[7], mentre altre suggeriscono la possibilità di un declino oscillante, in cui si alternano momenti di crollo e di ripresa.

Dunque, un collasso non è un processo omogeneo nel tempo, e non lo è nemmeno nello spazio: è probabile che esso si manifesti in modalità diverse nelle varie zone del pianeta. Ad esempio, secondo gli autori, se da un lato indubbiamente i Paesi e le fasce di popolazione economicamente e climaticamente più vulnerabili rischiano di subire maggiormente le conseguenze del collasso, dall’altro le regioni periferiche e semi-periferiche del mondo potrebbero essere, da certi punti di vista, più resilienti, essendo meno dipendenti dalle catene produttive e di approvvigionamento che crolleranno (e potrebbero quindi rappresentare spazi di autonomia in cui sperimentare alternative sistemiche e nuclei di ripresa).

Ma quindi, riconoscere che il collasso è inevitabile significa dire che dobbiamo arrenderci e smettere di lottare contro le tendenze appena descritte? Niente affatto. Sia Servigne e Stevens che Bendell mettono in chiaro che intraprendere scelte politiche volte a ridurre il nostro impatto sul clima e a preservare gli ecosistemi è fondamentale, e che la prospettiva del collasso dovrebbe indurci ad una maggiore radicalità in tal senso. Ma, al tempo stesso, i collassologi ci invitano ad un cambio di sguardo rispetto alla situazione in cui ci troviamo: ci invitano, cioè, a considerarla non più come un problema che possiamo risolvere, ma come una condizione con cui imparare a convivere. Questo concetto è ben espresso dal termine inglese predicament, che «indica una situazione inestricabile, irreversibile e complessa per la quale non esistono soluzioni, ma solo misure da adottare per adeguarvisi» (p. 164).

Servigne e Stevens sono consapevoli di quanto una tesi del genere sia emotivamente molto difficile da accettare, e infatti sostengono che, sotto alcuni aspetti, l’annuncio del collasso sia paragonabile a quello di una malattia terminale. Infatti, in entrambi i casi la prima reazione di coloro che ricevono una notizia così sconvolgente è quella di mettere in campo diversi meccanismi psicologici di negazione, che possono essere consapevoli o inconsci, per allontanare un’angoscia che può risultare troppo pesante da sopportare. Per questa ragione, gli autori non si soffermano soltanto su analisi scientifiche e sociopolitiche utili a navigare gli scenari del collasso, ma si confrontano anche con diversi ambiti di studio che si interrogano su come comunicare e, soprattutto, come affrontare una prospettiva così destabilizzante.

Convivere con la catastrofe è infatti un testo che difficilmente lascia indifferenti: è probabile che al termine della lettura ci si ritrovi con un groppo allo stomaco, che smuova in noi diverse emozioni pesanti o scomode. Ma, secondo gli autori, se questo accade è da considerarsi un segnale positivo, perché significa che il nostro corpo sente e i nostri canali emozionali sono aperti. Infatti, nell’ambito della riflessione ecologista, si sta radicando sempre di più la convinzione che l’abitudine a reprimere il dolore e le emozioni difficili, che è così diffusa nella nostra società, sia una delle principali cause della situazione in cui ci troviamo, perché ci impedisce di renderci conto della distruzione che stiamo provocando al pianeta, alle altre specie viventi e a noi stessi[8], e quindi anche di attivarci verso un cambiamento profondo. In quest’ottica, il primo e fondamentale passo da compiere è, riprendendo un’espressione di Donna Haraway, «stay with the trouble»[9]: restare a contatto con la scomodità che la prospettiva del collasso suscita in noi, con la fiducia che questo sconvolgimento non porti con sé soltanto dolore e perdita, ma racchiuda in sé anche un grande potenziale di trasformazione, individuale e collettiva.

È sulla base della profonda convinzione che sia possibile vivere il collasso con pienezza, e non soltanto limitarsi a sopravvivere, che Servigne e Stevens hanno scritto, insieme a Gauthier Chapelle, un secondo saggio che amplia l’orizzonte delineato nel primo, interrogandosi su come creare percorsi di elaborazione emotiva, come sviluppare nuovi modi di esperire la nostra interconnessione con la rete della vita, come costruire immaginari non distopici del collasso ed esplorare nuove forme di immaginazione politica: Un’altra fine del mondo è possibile.


[1] Jem Bendell, Breaking Together. A freedom-loving response to collapse, Schumacher Good Works, 2023. Scaricabile gratuitamente a questo link.

[2] Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino 2005.

[3] La serie TV francese L’effondrement – The collapse, ispirata alle teorie della collassologia, ha provato a immaginare diverse reazioni, individuali e collettive, a scenari di questo tipo.

[4] Questo dato è tratto da Bendell, op. cit., p. 100.

[5] David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano 2012.

[6] Riguardo alla dimensione economica, il saggio di Servigne e Stevens e quello di Bendell seguono ragionamenti sostanzialmente analoghi, ma per una trattazione più dettagliata si rimanda a quello di Bendell.

[7] Ad esempio, Dmitry Orlov, studiando il crollo dell’Unione Sovietica, ha individuato sei possibili fasi di un collasso, di gravità crescente: collasso finanziario, economico, politico, sociale, culturale, ecologico. Non tutti i collassi attraversano tutte le fasi: secondo Orlov la disgregazione dell’URSS è arrivata solo fino alla terza. Cfr. Dmitry Orlov, Reinventing Collapse. The Soviet Experience and American Prospects, New Society Publishers, Gabriola Island BC (Canada) 2011.

[8]  Joanna Macy e Molly Young Brown, Coming Back to Life. The Updated Guide to the Work That Reconnects, New Society Publishers, Gabriola Island BC (Canada) 2014.

[9]  Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.

Scritto da
Pietro Corazza

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