Dalla Cooperazione al connessionismo: la sfida digitale alla Cooperazione
- 07 Gennaio 2019

Dalla Cooperazione al connessionismo: la sfida digitale alla Cooperazione

Scritto da Michele Mezza

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Nel suo lucidissimo saggio sul Secolo Breve, Eric Hobsbawm, con quel suo originale approccio storico fatto di fredda analisi e caldissima passione, scrive a proposito dell’eredità del conflitto di classe del Novecento «È un’ironia della storia di questo strano secolo che il risultato più duraturo della rivoluzione d’ottobre, il cui obbiettivo era il rovesciamento del capitalismo su scala planetaria, sia stato quello di salvare i propri nemici, sia nella guerra, con la vittoria sulle armate hitleriane, sia nella pace, procurando al capitalismo, dopo la seconda guerra mondiale, l’incentivo e la paura che lo portarono ad autoriformarsi».

Al netto da ogni discussione ideologica sulle dinamiche e le responsabilità di questo stimolo a riformare il capitale, in questa sede ci pare questa di Hobsbawm forse la migliore definizione di cosa fu il movimento cooperativistico in Italia: uno straordinario stimolo a mutare forma e natura del capitalismo. Ma non sostanza.

Dalle prime gloriose testimonianze di fine Ottocento, con le società di mutuo soccorso operaio, alle case del popolo, fino alle prime associazione di sostegno materiale agli scioperi e infine il formarsi di un organico movimento di sussidiarietà militante nel campo dei consumi alimentari, e, successivamente di servizi e produzioni industriali, il cooperativismo italiano è stato sempre un fenomeno di competizione e mai di antagonismo al capitalismo. Fino a diventare oggi un soggetto pienamente omologato nelle dinamiche e nelle logiche più stressate della competizione mercantilistica.

Non credo che questo annebbiamento di alterità sia dovuto solo ad un calo di tensione complessiva, per il raffreddamento dell’antagonismo politico al sistema, o per responsabilità soggettive dei gruppi dirigenti che si sono succeduti al vertice della Lega delle Cooperative. Un elemento su cui poco si è soffermata la riflessione, soprattutto del mondo della cooperazione, è quell’affievolimento di ogni valore testimoniale e sociale della forma stessa delle cooperative in un contesto, quale è quello ormai del mondo a rete, in cui la pratica di relazione e di sussidiarietà fra individui e comunità è ormai il motore di ogni attività economica e sociale. Diciamo la cooperazione ha perso il primato del cooperare.

Il patrimonio di quella esperienza stava infatti sull’idea, che poi divenne pratica estesa e consolidata, per cui l’istinto solidaristico del movimento del lavoro diventava format economico efficace proprio nell’accorciare la catena commerciale e produttiva, collegando direttamente in una relazione virtuosa produttore e consumatore. L’intuizione stava nel constatare come, in questa forma di legame sociale fra figure che il mercato contrapponeva, appunto il consumatore e il produttore, si creava valore aggiunto non solo in termini economici, con una più estesa circolazione e fruizione dei beni, ma anche, e soprattutto, in termini di benessere sociale, con un senso di partecipazione e di personalizzazione nella relazione economica che riduceva ogni fredda massificazione della produzione e ogni modello di consumo omologante e intensivo, riducendo drasticamente quella dimensione degenerativa propria del capitale che Marx chiamò alienazione.

Sinteticamente potremmo dire che la cooperazione è stato l’unico modello di controprogrammazione dell’alienazione capitalistica. In questo correggendo e ottimizzando, come sembra lamentare Hobsbawm, lo stesso mercato.

Mi pare questo il senso più profondo della storia del cooperativismo. Come scrive Rahel Jaeggi, in un illuminante saggio, edito da Castelvecchi, intitolato appunto Alienazione, da poche settimane in libreria, questo concetto dell’alienazione è fondante di tutta la dialettica politica e culturale del Novecento, tanto che vede convergere nella sua analisi e critica due figure radicalmente opposte, per percorsi e finalità di pensiero, che hanno determinato la cifra culturale e politica del secolo breve.

Scrive infatti Jaeggi «Pur muovendo da differenti ordini concettuali, sia Marx che Heidegger approdano alla conclusione che il predominio delle relazioni reificate segna il rapporto dell’individuo moderno nei confronti del mondo e di se stessi, e la trasformazione dell’essere umano in una cosa». Mercato è alienazione per i due giganti.

Per Marx, dunque l’alienazione è data dall’impossibilità di appropriarsi del mondo come prodotto della propria attività, del proprio lavoro; l’alienazione da se’ non può ridursi ad un problema soggettivo ridotto alla relazione del soggetto con se stesso, ma è legata alla alienazione dal mondo e viceversa.

Per Heidegger l’alienazione significa sia rendere se stessi una cosa, sia conformarsi agli altri in ciò che si fa. In un caso l’io misconosce il fatto che conduce la propria vita, nell’altro che la conduce in prima persona. Generando una condizione di inautenticità.

In entrambi i due autori comunque alienazione è intimamente connessa all’idea di modernità, meglio ancora, di capitalismo industriale. Soprattutto l’alienazione è la matrice di una conflittualità strategica nel cuore del capitalismo.

Su questo piano si misura l’esperienza del movimento cooperativistico, che riposiziona l’uomo, più precisamente il lavoratore, al centro di un universo, in cui proprio il conflitto sociale genera quei legami e quelle connessioni “autentiche” che danno forma ad un protagonismo dell’individuo nel contesto collettivo, creando zone franche dalla degenerazione capitalistica, e, però, riducendo il tasso di antagonismo nella convivenza sociale.

Motore di questo fenomeno originale del fare mercato è proprio il fatto di valorizzare, sia in termini organizzativi, che di mercificazione, fattori e attività che non erano classificate come prettamente economiche, quali appunto la relazione, il sentimento, la solidarietà, l’eguaglianza.

Nel primo scorcio del Novecento, con le esperienze delle prime comunità dell’Oltrepò e del piacentino, guidate da Camillo Prampolini, si delinea un patto sociale fra classe ed economia, creando vere e proprie casematte a-capitaliste, potremmo dire.

In questo processo, di valorizzazione di funzioni e attività non classificate come economiche, troviamo forse uno dei più potenti stimoli e incentivi che l’esperienza del movimento operaio trasmette al suo avversario sociale. Comincia qui, siamo appena dopo la prima guerra mondiale, un possente lavorio intellettuale dei ceti proprietari e manageriali del capitalismo occidentale.

Capitalismo, connessionismo e Cooperazione

Il passaggio in cui il capitalismo mostra di aver recepito la lezione che veniva dall’antagonista di fabbrica si realizza già attorno al primo decennio del Novecento, quando si accelera la fase della finanziarizzazione delle relazioni intercapitalistiche. Rudolf Hilferding, con il suo saggio Il Capitale Finanziario, coglie questo primo stadio di alleggerimento del mercato che comincia, come aveva previsto Marx ha rendere “all that is solid melts into air”.

Innanzitutto, mediante questa nuova dimensione, il capitalismo riduce l’impatto delle crisi cicliche, che vengono sostituite da stagnazioni prolungate. Hilferding intuisce, proprio nelle pieghe di queste stagnazioni, la capacità del capitalismo di ristrutturarsi mediante una cambiamento nella composizione dei fattori produttivi, in cui cominciano a giganteggiare la scienza come nuovo motore dello sviluppo e del profitto, e la comunicazione come vettore di socializzazione del mercato.

Nella sua grande marcia verso la globalizzazione totale, il capitale comincia ad assumere forme più leggere e immateriali, meno vincolate alla brutalità dei rapporti di produzione industriale, integrando forme di collaborazione sociale.

Il limite di Hilferding, e con lui di tutta la successiva ondata terzointernazionalista, fu quello di considerare la finanziarizzazione come “l’agonia del capitalismo” come scrisse Lenin. Come l’ultima tappa del declino. In realtà eravamo solo all’inizio di una nuova travolgente stagione di capitalismi.

Proprio mentre Lenin completava il suo ultimo pamphlet rivoluzionario, L’Imperialismo fase suprema del capitalismo, e Rosa Luxembourg scriveva L’accumulazione del Capitale, si palesava la nuova marca di capitalismo dell’immaginario. Nel 1903, contemporaneamente alla prima linea di montaggio allestita da Henry Ford, a Los Angeles una intraprendente signora comprò 100 acri di terreno su una collinetta arida e spelacchiata, nota come Hollywood, visto che ci crescevano solo agrifogli. Spiegava la signora Wilcok, che se davvero come sembrava stava nascendo l’economia delle immagini, questa non poteva che radicarsi dove c’erano sole e mare. Bingo.

Nello stesso anno Thomas Edison fondava la prima compagnia di produzione cinematografica, e lanciava la prima catena di cinema. In pochi anni tutti gli Stati Uniti furono punteggiati di sale oscure con bianchi teloni su cui venivano proiettate le prime pellicole che mostravano le famose auto Ford modello T nera, costruite a Detroit. Lo svago diventava pubblicità e commercio, e si evolveva in consenso.

In questo nuovo spazio economico, fra le due guerre, prende forma un primo abbozzo di capitalismo informazionale, dove proprie le relazioni umane, basate sulla collaborazione e la comunicazione, cementano la stabilità del sistema economico, come si dimostra nel new deal roosveltiano. Si disegna un’inedita forma di capitalismo, che gli stessi economisti classici non comprendono, come spiega John Maynard Keynes in una sua lettera brillantissima a George Bernard Show nel 1935, in cui parla di «geometri euclidei in un mondo non euclideo, i quali scoprendo che nell’esperienza concreta due rette apparentemente parallele spesso si incontrano sgridano aspramente le linee stesse per la loro incapacità di andare diritte».

La convergenza delle rette parallele, per citare una famosa definizione di Aldo Moro degli anni Sessanta, cioè la riformulazione di un modello economico basato sulle forme di intesa e condivisione sociale fra figure e interessi diversi che viene percepita come pressante da un acutissimo osservatore di cultura marxista come Walter Benjamin che già nel 1937, nel suo saggio L’Opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, osservando i primi fenomeni  di apertura delle pagine dei giornali ai lettori così scriveva «La stampa quotidiana  iniziò ad aprire la  propria “cassetta delle lettere” , così che oggi  non c’è europeo inserito nel processo lavorativo  che, in linea di massima, non possa trovare l’opportunità per la pubblicazione di un’esperienza lavorativa, di un reclamo, di un reportage, o cose simili. Con ciò la distinzione fra autore e pubblico è sul punto di perdere il suo carattere fondamentale. Il lettore è ognora pronto a divenire uno scrittore». Qualcosa di più di una profezia. Benjamin legge nel tessuto culturale e produttivo una tendenza che deflagrerà dopo la guerra.

I totalitarismi rompono l’evoluzione sociale del capitalismo, e inaridiscono le esperienze cooperativistiche del movimento operaio, imponendo una militarizzazione dell’economia. Ma la stessa guerra, come spiega un geniale Vannevar Bush nelle sue corrispondenze con Claude Shannon, uno dei padri dell’informatica moderna, innesta processi di socializzazione nello stesso processo produttivo, come proprio la produzione bellica dimostra. Ma il vero tornante in cui la talpa della cooperazione sociale riprende a scavare si realizza proprio alla vigilia della fine del conflitto. La pressione esercitata dai governi alleati sui centri di ricerca per sostenere la guerra contro l’asse nazifascista, culminata con i progetti Enigma, in Inghilterra con lo stesso Shannon e Alan Turing, finalizzato a decifrare i codici segreti tedeschi, e Manhattan negli Usa, con Fermi e von Neumann, per la costruzione della prima bomba atomica, rese centrale la tecnologia nei processi geopolitici, ma soprattutto saldò il legame fra lo Stato nazionale e i gruppi di scienziati che cominciarono a finalizzare le ricerche teoriche a un controllo geopolitico delle soluzioni tecnologiche. Nel luglio del 1945, Vannevar Bush pubblica sulla rivista Atlantic il suo fondamentale saggio As we may think, in cui rispondendo ad un quesito del dipartimento di stato americano su come fronteggiare il nuovo competitore sovietico, risponde che solo sostituendo il lavoro con il sapere nelle relazioni economiche, l’Occidente avrebbe vinto il confronto con Mosca.

Qualche mese prima era stato pubblicato il primo studio a firma di W.S. McCulloch e W. Pitts sulle reti neurali che battezzò il concetto di connessionismo, ossia quell’idea per cui le funzioni cerebrali sono il risultato di interconnessioni e non di sequenze lineari individuali. Internet nasce di fatto in quel momento come concetto fondato. Il capitalismo trova il suo movimento cooperativistico, e inizia qui la corsa alla smaterializzazione dei processi economici.

Sul versante opposto il movimento operaio si trova a navigare in diversi contesti sociali. In Italia, Palmiro Togliatti, il leader del partito comunista, a differenza di altri leader del comunismo europeo, lancia la proposta di un partito nuovo, cioè di un’organizzazione popolare e di massa, e non più di un apparato elitario di rivoluzionari di professione. Un partito che deve aderire alla geografia sociale, organizzando e intrecciandosi con le attività della sua base elettorale. Si articola così il movimento del lavoro in mille rivoli sociali e culturali, di cui la spina dorsale, insieme al sindacato fu proprio il movimento cooperativistico. Nel suo saggio Ceti medi ed Emilia Rossa, Togliatti teorizza propria la strategia di creare struttura sociali autonome, che aggreghino le spinte e le ansie di sviluppo e di intraprendenza della popolazione del centro nord italiano, che non aveva certo una matrice fabbrichista.

Una strategia che per almeno 50 anni ha consolidato e attivato forze e risorse di grande efficienza economica e di sicuro presidio democratico. Sul terreno dell’animazione di forme di partecipazione la sinistra si trova a competere con il movimento cattolico che contrappone al fenomeno del cooperativismo il concetto di sussidiarietà, ossia di autogestione da parte di gruppi o soggetti privati di funzioni statali. Sono gli anni della contrapposizione fra sindacato cattolico e CGIL, fra Lega delle Cooperative e Confcooperative. Fra bianco e rosso. Ma sono anni di una straordinaria vitalizzazione di territori e comunità: le aziende agricole, le cantine sociali, le prime società di servizi e di logistica, i consorzi agrari, le prime imprese edili. Economia e capitale sociale si inseguono in una sperale benefica, che accompagna il miracolo italiano, e battezza una democrazia estesa, robusta, condivisa e redditizia, che permette al Paese di assorbire e rovesciare l’aggressione reazionaria e terroristica degli anni Settanta senza arroccarsi in soluzioni conservatrici. Sinistra, produzione e partecipazione diventano i tre lati di un triangolo che circoscrive il governo materiale del Paese.

Il ruolo della Cooperazione nel nuovo capitalismo cognitivo

Qualcosa comincia a scricchiolare proprio a metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Dopo l’illusione della centralità operaia, in poco tempo il tessuto industriale si sfilaccia e irrompono le prime forme di automazione. Contemporaneamente l’individualismo liberato dalla crisi della società di massa chiede e trova un nuovo legame sociale, un sistema di comunicazione punto a punto che rende autonomi e potenti i singoli nodi di quella prima rete. Si fa strada una forma di condivisione che si sovrappone alla cooperazione. Il Free software, importato dalla costa occidentale degli USA aggrega community consistenti di giovani e di professionisti. Si intravvede un modello sociale diverso che viene definito Comune. Parallelamente cambia la carta geopolitica del mondo. In Italia il PCI ormai non c’è più, e non c’è neanche la matrice ideologica e geopolitica di quel movimento, quale è stata l’Unione Sovietica. Entrano in affanno le casematte edificate dal partito nuovo: la struttura delle case del popolo, le infrastrutture sindacali e i relativi patronati.

La lega Coop si trova a dover difendere la propria anomalia economica e sociale in un contesto in cui non è più né parte né laboratorio di un universo che parlava al mondo, quale appunto il solidarismo del lavoro. Proprio il lavoro non è più valore ne linguaggio che possa dare carattere e identità ai segmenti di quel movimento. Simultaneamente, in una relazione di causa ed effetto, come ha spiegato Zygmunt Bauman, la triade lavoro di massa- consumo di massa- media di massa si rovescia nel suo contrario: lavoro individualizzato – consumi personalizzati – media online.

Siamo nel pieno della cavalcata digitale. Come scrive nel sua trilogia La società in rete, Manuel Castells, «si entra nell’età dell’informazionalismo dove si scambiano simboli per generare ricchezza. È questo il movimento che abbatte l’URSS, che non regge la domanda di flessibilità del connessionismo».

La previsione di Vannevar Bush trova un protagonista e un contesto propizio. La dissoluzione del capitalismo industriale in Occidente, prodotta da una domanda di autonomia e liberazione dei nuovi ceti urbani, libera forze per nuove esperienze sociali, in uno scenario dominato da una figura sociale quale il giovane, colto, globalizzato, ambizioso e intraprendente. È lui la figura che si sostituisce alle famiglie operaie, che fondavano le cooperative di consumo e che creavano gli spazi di socializzazione che abbiamo conosciuto attraverso le feste dell’Unità e le mille sagre della pianura padana.

Quella figura, che sembrava per sua natura non poter che guardare a sinistra, invece proprio nel gorgo del ‘68 entra in contatto con il virus digitale.

Da Berkeley parte l’ondata del free speech con Mario Savio, che in poco tempo diventa movimento del free software con Richard Stalman. Gli stessi soggetti, negli stessi luoghi, con gli stessi simboli e linguaggi passano dalla militanza libertaria alla attività del pulviscolo digitale: il bersaglio è sempre lo stesso, l’oppressione della mercificazione da parte del complesso militare industriale, la vecchia alienazione. Con il vantaggio che nel nuovo contesto tecnologico la condivisione non è solo un istanza etica ma anche un parametro competitivo e di qualità del sistema. Da qui nasce la visione tecnologica della cooperazione, che toglie alla sinistra la sua esclusiva.

Nel nuovo capitalismo cognitivo, come scrive Paul Mason nel suo libro Post-Capitalismo, «i profitti vengono sempre più dalla capacità di catturare il valore gratuito generato dal comportamento dei consumatori, facendo coincidere la fabbrica con la società intera». Si produce dunque, aggiunge Mason, conoscenza per mezzo di conoscenza. E dunque socializzazione per mezzo di socializzazione.

Da quel momento la storia è nota: da una parte, una proliferazione molecolare di linguaggi e comportamenti digitali in tutto il pianeta, che ha destrutturato ogni forma verticale, togliendo autorità ai poteri tradizionali e disintermediando le caste professionali. Dall’altro, una forte offensiva privatizzatrice, che già a metà degli anni Sessanta faceva rifluire la carica libertaria dei nuovi linguaggi digitali nel modello proprietario delle imprese della Silicon Valley.

Ma qui appare uno spettro in qualche modo legato a quello indicato da Karl Marx nel suo proverbiale inizio del Manifesto del Partito Comunista del 1848: l’irriducibilità dei nuovi soggetti sociali. Persino potenze finanziare e tecnologiche, quali sono i giganti della Silicon Valley sono costretti a mantenere una propria identità libertaria e cooperativa. Don’t be devil (non essere cattivo), è il motto di Google, perché la complicità, di cui parlava Vannevar Bush, dei produttori e degli utenti dei sistemi produttivi di guerra con i vertici di comando rimane un patrimonio irrinunciabile nella nuova società digitale. Nel discusso ma indubbiamente stimolante saggio Comune, di Tony Negri e Michael Hardt, si legge una precisa fotografia del nuovo mondo che ci circonda: «Oggi assistiamo ad una profonda rottura della composizione organica del capitale, una decomposizione progressiva in cui il capitale variabile (in particolare la forza lavoro biopolitica) è separata dal capitale costante e dai dispositivi politici di comando e di controllo. Il lavoro biopolitico tende a generare proprie forme di cooperazione e produce il valore sempre più autonomamente».

La cooperazione non è più una prerogativa di un’alternativa al capitalismo ma diventa una stretta funzione delle nuove forme di creazione della ricchezza. Nella nuova dimensione del capitale cognitivo, quello della società del calcolo, proprio la relazione diretta fra individui diventa la vera motrice del processo tecnologico e economico.

La produzione di ricchezza mediante lo scambio di simboli, di cui parlava Castells, alle origini della società in rete, oggi diventa produzione di valore esclusivamente mediante big data. L’empatia fra individui, intermediati da piattaforme, è la matrice del modo in cui questi dati vengono prodotti, raccolti, impaginati e rielaborati. I sentimenti, anzi i sentiment, per restare ai termini comprensibili per gli algoritmi, che legano comunità e territori oggi sono i grafi sociali che alimentano le nuove macchine di relazione e cooperazione umana quali Facebook, Google, Amazon.

L’identificazione della nuova società cognitiva con questi meccanismi spietatamente mercantili, in mancanza di una contrapposizione di valori, di un’opposizione di sistema, di un’alternativa di culture, quale potrebbe essere rappresentata da un movimento che riformula il concetto di cooperazione al tempo della potenza di calcolo, genera oggi forme di ribellismo populista.

Di fronte a questa viralità di cooperazione cosa resta al movimento storico del cooperativismo? Il termine cooperazione cosa dice alle nuove generazioni? Sono quesiti che non interrogano solo la politica ma anche l’economia, i bilanci, la ragione sociale del sistema d’imprese indotto dalla storia del solidarismo sociale del lavoro. In un ecosistema in cui ogni individuo può, istantaneamente parlare e deliberare insieme a molti altri come può essere organizzata e gestita una cooperativa? E una cultura così complessa e organica come è stata appunta quella del sistema cooperativistico può oggi mutuare linguaggi e comportamenti dai social network? Può adottare algoritmi e forme di intelligenza da apparati semantici e valoriali distinti e distanti?

Non è forse il momento per finalizzare la massa critica di questa straordinaria esperienza di successo in una rivisitazione della propria identità e strategia, mettendo sul piatto delle nuove forme socio digitali tutto il peso di un mondo che vuole parlare e pensa cooperativismo autonomamente? Certo il quadro è molto complicato e difficile. Ma quanto la constatazione che oggi, forse per la prima volta i padroni di casa del sistema economico sono proprio gli istinti sociali di cooperazione e di mutualità dovrebbe spingere i titolari di questi principi a spendersi in prima persona in questa sfida.

L’atlante geopolitico del mondo ci dice che con la scomparsa della fabbrica come paradigma sociale non si riesce a declinare una diversa visione del conflitto sociale, per ridare ruolo e spazio a figure che pure chiedono autonomia e protagonismo nella società delle piattaforme. A questa domanda il movimento cooperativo potrebbe proporre se non una risposta compiuta almeno la fatica di rileggere la propria storia e ritrovare quelle identità che oggi possano rimettere in campo una nuova narrazione della solidarietà e della cooperazione in termini competitivi e non subalterni all’addomesticazione che il mercato sta compiendo del mondo a rete.

Scritto da
Michele Mezza

Giornalista, è stato inviato del Giornale radio Rai in Urss e in Cina. Nel 1998 ha elaborato il progetto di Rai News 24. Attualmente dirige il centro di ricerca sul mobile PollicinAcademy e cura un blog per l’«Huffington Post». Insegna all’Università Federico II di Napoli. Autore di numerose pubblicazioni tra cui: Algoritmi di libertà. La potenza del calcolo tra dominio e conflitto (2018), Giornalismi nella rete. Per non essere sudditi di Facebook e Google (2015), Avevamo la luna. L’Italia del miracolo sfiorato, vista cinquant’anni dopo (2013) e Sono le news, bellezza! Vincitori e vinti nella guerra della velocità digitale (2011), editi da Donzelli.

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