Scritto da Francesco Nasi
9 minuti di lettura
Alec Ross è Distinguished Adjunct Professor alla Bologna Business School (BBS), imprenditore ed esperto di politiche tecnologiche.
L’innovazione, tecnologica e non solo, è sempre più al centro degli obiettivi delle aziende e dei decisori politici. Perché oggi innovare è sempre più una necessità?
Alec Ross: Siamo in un periodo in cui le innovazioni di oggi definiranno il benessere economico e la creazione di posti di lavoro per il prossimo decennio o più. Non credo che sia indispensabile che un territorio sia centro di innovazione, ma deve essere rilevante e di filiera. Deve essere un luogo di produzione, se non di vera e propria innovazione. Detto questo, i luoghi in cui si potrà immaginare, inventare e commercializzare il futuro saranno i maggiori centri di benessere economico.
Quali sono i fattori abilitanti che, più degli altri, permettono di creare un ecosistema adatto all’innovazione, dalla ricerca alla nascita di startup? Quali sono i territori e le comunità nel mondo dove questi fattori sono più presenti?
Alec Ross: “Vogliamo creare la nostra Silicon Valley.” Se c’è una frase che ho sentito in ogni Paese in cui sono stato, è questa. La Silicon Valley è da tempo la patria dell’innovazione guidata dalla tecnologia, ma il trentennio che va dal 1994 al 2024 è stato qualcosa di speciale. Tutto il mondo ha assistito a un livello spettacolare di innovazione e creazione di ricchezza, il tutto proveniente da una piccola striscia lunga trenta miglia e larga quindici nella Northern California. Sono anni ormai che altri Paesi cercano di mettere in piedi la “prossima Silicon Valley”. A questo punto esiste persino una formula, come l’ha definita il leggendario imprenditore Marc Andreessen. La ricetta popolare per creare la “prossima” Silicon Valley recita più o meno così: si costruisca un parco tecnologico grande, bello, completamente attrezzato; si aggiungano laboratori di R&S e centri universitari; si forniscano incentivi per attirare scienziati, aziende e utenti; si interconnetta l’attività mediante consorzi e fornitori specializzati; si protegga la proprietà intellettuale e il trasferimento di tecnologia; si crei un ambiente imprenditoriale e normativo favorevole. Ma per le città o i Paesi che mirano a creare la prossima fucina per uno di questi campi, vi sono anche fattori più ampi da considerare. Mettere in piedi un luogo ricco di innovazione richiede specifiche caratteristiche culturali e di mercato del lavoro, caratteristiche che possono contraddire sia le norme di una società sia le tendenze a un maggior controllo mostrate da molti governi. Con le industrie e settori del futuro, le nuove prospettive di opportunità per Paesi e individui si baseranno sulle competenze di settore – una profonda conoscenza di un singolo ambito di attività, elemento che tende a concentrarsi in specifiche città o regioni. L’Emilia-Romagna ha una competenza settoriale nel manifatturiero avanzato e nel packaging. Milano l’ha nella moda e nella finanza. Ma le competenze settoriali per le industrie del futuro come la genomica, la biologia sintetica, le quantum technology, la sicurezza informatica e l’intelligenza artificiale sono ancora ampiamente sparse. Abbiamo visto alcune regioni che si organizzano bene, e non solo negli Stati Uniti: Tel Aviv e Haifa in Israele, Stoccolma in Svezia, Tallinn in Estonia, Bangalore in India, Seul in Corea del Sud e più recentemente Parigi con l’intelligenza artificiale.
Gli Stati Uniti rimangono probabilmente il primo innovatore al mondo, nonostante le ben note difficoltà che stanno attraversando da un punto di vista politico, e la competizione crescente con altre potenze come la Cina. Nella sfida per il primato nell’innovazione, come si colloca l’Unione Europea? E come differiscono i modelli d’innovazione che vengono proposti da questi tre blocchi?
Alec Ross: Purtroppo vedo gli americani fare di più nel campo dell’imprenditorialità per plasmare l’economia e il mondo rispetto agli europei. Siamo entrambi “occidentali” ma nel campo della tecnologia, per esempio, gli europei non sono più protagonisti. Io la considero come se fosse una partita di calcio. In campo ci sono due squadre, una americana e una cinese. Invece di schierare una propria compagine, gli europei hanno preferito recitare la parte dell’arbitro, che fischia i falli e mostra il cartellino giallo. L’arbitro può contribuire a decidere il risultato della partita, soprattutto se la dirige male, ma non è mai lui a vincerla. In questi anni Venti, se vogliono sul serio vincere, gli europei devono mandare in campo la loro rappresentativa. C’è un’espressione in inglese: America innovates, China replicates, Europe regulates. I cinesi non innovano davvero. Sapresti nominare una delle loro innovazioni negli ultimi cinquecento anni, oltre a creare qualcosa di più veloce o più efficiente? Nemmeno io. Hanno inventato la carta e la polvere da sparo, ma questo è successo molti secoli fa. Non hanno inventato le auto elettriche o i pannelli solari, ma li hanno prodotti in modo più efficiente rispetto ad altri Paesi del mondo. Questo è il ruolo della Cina nell’innovazione globale. La tragedia è che i talenti esistono in Europa ma molti di loro, per poter innovare più facilmente, se ne vanno nei Paesi meno regolamentati. Sto un po’ estremizzando, ma alla fine dei giochi sono gli Stati Uniti i veri protagonisti dell’innovazione. I cinesi sono bravissimi a rendere le cose più efficienti. E agli europei piace dettare le regole. Sono fermamente convinto che, per evitare una stagnazione economica anche maggiore di quella che abbiamo visto negli ultimi decenni, dobbiamo adottare una mentalità di investimento e innovazione invece di quella del burocrate e del regolatore.
Venendo all’Italia, quali sono le specificità del nostro Paese, in termini sia di debolezze che di punti di forza? E nello specifico, quali sono le potenzialità di un territorio come l’Emilia-Romagna?
Alec Ross: Non è difficile prevedere che le innovazioni più importanti dei prossimi dieci anni saranno quelle che uniranno ai progressi nella scienza e nella tecnologia il fattore umano. Vogliamo nuovi prodotti che arricchiscano la nostra natura umana invece di renderci più simili a macchine. Per seicento anni il Paese che oggi chiamiamo Italia è stato la patria della creatività che sa unirsi alla perizia tecnica. Basta pensare al primo motore a combustione interna, alle protesi, all’epidemiologia, agli occhiali, alle lampadine, al microscopio, al motociclo, ai giornali, al paracadute, alla radio, alla macchina da scrivere e alle università, a partire da quella in cui insegno. C’è qualcosa nel DNA degli italiani che collega scienza e tecnologia con umanesimo e creatività. Questa è la più grande forza del Paese. La debolezza più grande sono invece la burocrazia e il rendere le cose sempre più complicate del necessario. È troppo difficile fare l’imprenditore in Italia. Sembra quasi di correre una maratona con uno zaino pieno di pietre sulle spalle. È venuto il momento di farla finita una volta per tutte con i lacci burocratici che distruggono ricchezza e posti di lavoro e rendono troppo complicato fare impresa in Italia. l’Italia dovrebbe rivedere le proprie leggi per permettere alle imprese di avere la stessa flessibilità che si trova negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nei Paesi scandinavi, i quali consentono alle aziende di costituirsi e andare in liquidazione velocemente, senza sprecare anni nelle procedure burocratiche e giudiziarie. Il talento e le idee ci sarebbero, ma i regolamenti sembrano progettati per rendere il più difficile possibile la vita dell’imprenditore italiano. Per quanto riguarda l’Emilia-Romagna: penso che i talenti e le risorse siano qui. C’è una generazione giovane con una mentalità imprenditoriale. In Emilia-Romagna la governance è migliore rispetto alla maggior parte degli altri territori in Italia. Si può fare di più in termini di infrastrutture, ma onestamente le questioni principali da affrontare sono nazionali, non regionali. La regione è forte.
Partendo proprio dal caso dell’Emilia-Romagna, che ruolo possono giocare i vari attori coinvolti – enti pubblici, imprese, università, terzo settore – nello sviluppare un ecosistema dell’innovazione più fiorente e attrattivo?
Alec Ross: Ho un centinaio di idee ma ne condividerò qui tre: per quanto riguarda le istituzioni abbiamo bisogno di più alloggi e dobbiamo sempre ridurre la burocrazia. Per il terzo settore penso che si tratti di creare più spazio per i giovani. Per le imprese invece si tratta anche di generare maggiori opportunità di crescita per i giovani all’interno delle aziende e si tratta anche di accelerare i processi interni legati all’innovazione, compresa la digitalizzazione. Qualunque sia la ragione, le imprese italiane sono state tra le più lente in tutta Europa nel digitalizzare e nell’utilizzare le moderne tecnologie. Sotto questo aspetto siamo più simili alla Bulgaria che alla Francia o alla Germania.
Lo spazio è sempre stato una dimensione che ha colpito l’immaginario collettivo, essendo associato a un’idea di frontiera e di innovazione. La “corsa allo spazio” che vide contrapporsi Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda portò a moltissime innovazioni tecnologiche a cascata che sono poi state impiegate in altri settori. Oggi assistiamo a una nuova corsa allo spazio, con protagonisti diversi? Quali sono le differenze?
Alec Ross: Durante la Guerra Fredda il settore spaziale era dominato dai governi. Tutti gli investimenti e l’innovazione hanno avuto luogo nel contesto dei programmi governativi. Oggi è diverso. SpaceX è la nuova NASA. La commercializzazione dello spazio ha subito un’accelerazione drammatica negli ultimi quindici anni guidata meno dai governi che da interessi commerciali, nel bene e nel male.
Quali interazioni e sinergie positive si possono innescare tra la space economy e altri ambiti innovativi e di frontiera?
Alec Ross: Per molti aspetti esiste una distinzione senza significato in termini di segregazione dell’economia spaziale con altri aspetti dell’economia. Ad esempio, la nuova ondata di società satellitari private che forniscono assistenza con i dati agricoli sono costituite tanto da aziende agricole quanto da aziende spaziali. Un’azienda come Starlink è una società satellitare ma è anche una società di telecomunicazioni particolarmente utile nelle zone rurali. Penso che lo spazio oggi sia meno una nicchia di quanto lo fosse durante la Guerra Fredda. I suoi prodotti e servizi sono più integrati sia nei mercati business-to-business (B2B) che business-to-consumer (B2C), mentre l’economia spaziale non era realmente un’economia aperta durante la Guerra Fredda.
Se un tempo il settore spaziale vedeva un ruolo pubblico centrale, ora i privati giocano un ruolo sempre più importante. Se da un lato questo genera grandi possibilità in termini di apertura e innovazione, dall’altro alcuni evidenziano il rischio di esacerbare ulteriormente le disuguaglianze sociali, come si è evidenziato nel caso del cosiddetto “turismo spaziale”. Si può garantire che l’innovazione spaziale vada a vantaggio della cittadinanza nel suo complesso, senza andare a frammentare ulteriormente il “contratto sociale” che tiene insieme cittadini e istituzioni e che ha ben descritto nel suo libro I furiosi anni Venti. La guerra fra Stati, aziende e persone per un nuovo contratto sociale?
Alec Ross: Penso che la questione dell’economia spaziale sia indissolubilmente legata alla questione più ampia del contratto sociale e ad altri campi in cui un numero relativamente piccolo di persone può produrre grandi guadagni finanziari. Permettetemi di suggerire che l’Italia non dovrebbe seguire il modello americano che consiste nel gettare di peso il settore commerciale nelle mani dei conglomerati globali, verso l’acquisto di ogni bene e servizio tramite una transazione digitale su una app. Pensate al fruttivendolo. Questo tipo di negozio non esiste più in quasi tutti i Paesi sviluppati. Sono stati sterminati dalle piattaforme online che facilitano la consegna a casa dei generi alimentari. I piccoli negozi gestiti da persone che conosciamo, impegnate da decenni nella comunità, sono stati spazzati via dalle app. Nonostante la necessità di modernizzare l’economia, c’è una necessità ancora più urgente di tutelare la possibilità di far convivere le imprese piccole e grandi, che insieme definiscono la cultura e il carattere del territorio. Ci serve un modello italiano di crescita e governance che rifletta i valori e le priorità dei cittadini. Dobbiamo rivedere il nostro contratto sociale in modo da proteggere ciò che è “sacro” e che definisce l’Italia in senso culturale, pur permettendo di crescere in un mondo in cui le multinazionali di Stati Uniti e Cina influenzano sempre di più l’architettura politica ed economica del mondo. Il contratto sociale è uno degli aspetti più basilari della civiltà umana. In qualsiasi società del pianeta la popolazione tenta da millenni di trovare un equilibrio tra i diritti e le responsabilità dei singoli e l’ampio potere degli Stati e delle grandi imprese. Il contratto sociale è l’accordo che stabilisce l’equilibrio, che specifica i diritti di cittadini, governo e imprese, così come i reciproci doveri. I dettagli del contratto sociale non sono mai scolpiti nella roccia dato che esso include sia le leggi di una società sia le regole non scritte. Però l’idea di base è semplice: quando l’umanità può unirsi per vivere e lavorare come tanti elementi di un’unica società, ne usciamo enormemente più ricchi della semplice somma delle parti. Tornando al settore spaziale, l’opportunità è quella di scegliere un modello di capitalismo per il settore che sia capitalismo degli stakeholder e non capitalismo degli azionisti. Nel capitalismo degli stakeholder, le scelte vengono fatte a vantaggio di tutti i membri dell’ecosistema, dai dipendenti ai fornitori della comunità circostante. Nel capitalismo azionario, c’è un’applicazione spietata del capitale per garantire il massimo ritorno finanziario possibile agli azionisti, senza tener conto dell’ecosistema più ampio. Sembra ovvio abbracciare il capitalismo degli azionisti quando è inquadrato in questo semplice binario, ma in realtà sappiamo che il capitalismo degli azionisti è efficiente e tende a essere il più veloce in termini di innovazione. La scelta qui sarà: possiamo essere efficienti, veloci e innovare rispettando allo stesso tempo tutte le parti interessate. Possiamo avere un settore che abbia anche un contratto sociale ben funzionante?
Se il settore spaziale storicamente si è concentrato in altre regioni del nostro Paese – Lazio, Campania, Lombardia, Piemonte, Puglia – l’Emilia-Romagna sta compiendo un esperimento interessante, provando a sviluppare un nuovo ecosistema a partire da punti di forza del suo sistema produttivo – come l’attenzione alla qualità, alle lavorazioni di precisione e alle tempistiche che sono proprie di filiere come l’automotive –, sostenuto da un investimento strategico da parte delle istituzioni. Questo percorso ha visto una missione a Houston e altre missioni internazionali, la partecipazione a una missione spaziale promossa da Axiom con lo svolgimento di esperimenti per conto di alcune imprese emiliano-romagnole e, in generale, lo sforzo di mettere in rete aziende tecnologiche, università e istituzioni. Si tratta a suo avviso di un caso di interesse, e quali ne sono gli elementi più rilevanti?
Alec Ross: Devo essere sincero e dire che non vedo le varie regioni d’Italia in competizione tra loro. In un mondo di 196 Paesi sovrani, l’Italia deve avere una proposta di valore coerente da offrire e che arriverà integrando i migliori prodotti provenienti da tutta Italia in un unico prodotto. Il campanilismo non ci serve. I valori chiave in Emilia-Romagna sono l’attenzione alla qualità e la straordinaria capacità di realizzare lavorazioni di precisione e produzioni ad altissimo livello tecnico. Se tutto questo sarà integrato in prodotti che possono avere applicazioni commerciali anche in nuovi settori, come la space economy, si tratterà sicuramente di uno sviluppo positivo per l’Emilia-Romagna e anche di un interessante caso di studio.
Quali indicazioni si potrebbero dare per proseguire e approfondire questo percorso e, più in generale, per rafforzare l’ecosistema dell’innovazione in Emilia-Romagna?
Alec Ross: Concludo con una nota sulla cultura. Sono molti gli interventi tecnici e politici che possono essere attuati per migliorare la competitività di un territorio e renderlo un centro di innovazione, ma un aspetto a cui bisogna prestare attenzione è la cultura. Innovare significa non fare scandalo del fallimento ma imparare da esso. Significa non far aspettare le persone fino ai quarant’anni per essere prese sul serio ma significa, invece, riconoscere che le persone tra i venti e i trent’anni vedono il mondo con occhi nuovi e sono spesso i motori dell’innovazione. Vuol dire essere aperti agli immigrati. Il 40% delle cinquecento più grandi aziende americane sono state fondate da immigrati o da figli di immigrati e molte delle più grandi aziende americane, tra cui Microsoft e Google, hanno amministratori delegati immigrati. Queste sono tutte sfide culturali. E se l’Emilia-Romagna riuscirà diventare il punto di riferimento per una cultura orientata all’innovazione potrà costituire un esempio positivo per tutta l’Italia.