Scritto da Giovanni Carrosio, Daniela Luisi, Filippo Tantillo
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Ci sono luoghi nel nostro Paese dove, più che altrove, l’emergenza coronavirus si configura come un punto di svolta. Per le aree interne le opzioni sul tavolo sono sostanzialmente due: scegliere di dare loro una nuova centralità nel pensiero per lo sviluppo del nostro Paese, nel discorso pubblico, nell’economia attraverso il riconoscimento del ruolo essenziale che già oggi hanno nell’economia e nel campo dell’innovazione sociale, e quindi operare una rottura con la vecchia maniera di approcciarle, oppure cercare il più velocemente possibile di archiviare l’emergenza, e di tornare al pregresso. In sostanza scegliere di non scegliere. Optare per una strada, o per l’altra, avrà delle conseguenze di segno opposto.
Possiamo decidere di fissare la situazione attuale, magari riconoscendo la debolezza di questi spazi attraverso una nuova iniezione di denaro, ma sostanzialmente ingabbiandole in uno stato di eccezione permanente, perpetuandone i meccanismi che le vedono subalterne alle città e che ne fanno bacino di clientele per una politica sempre più distante, o di invertire lo sguardo, di superarle reintegrando la loro diversità nelle politiche ordinarie dello Stato, ricucendole a quel continuum città campagna che è l’ossatura del nostro Paese, la sua caratteristica storica più originale. Su questi due fronti sono già attivi, sui territori, degli schieramenti politici trasversali e in qualche maniera contrapposti.
L’auspicato ritorno alla normalità, una normalità fatta di marginalizzazione, di impoverimento progressivo delle reti sociali in loco, di consumo smodato delle risorse, di rarefazione di servizi e opportunità economiche, suona come una condanna definitiva per le aree interne. E non è questione solo di quantità di risorse, ma di modalità di spesa; e anche di passare da una logica compensativa, ad una di investimenti. Continuare come prima, e anzi spingere l’acceleratore su una spesa pubblica che pur non essendo mancata a questi territori, non è stata in grado di produrre sviluppo, di cogliere le opportunità che offriva il contesto, di innovare, può significare una riproposizione e un aggravamento delle condizioni di vita della popolazione che le vive, in termini di servizi e di lavoro, e un del tutto prevedibile accentuarsi del fenomeno migratorio.
D’altra parte, la mutazione delle aree interne, da margini a nuova frontiera, è stata più volte raccontata ed evidenziata in questi anni da una letteratura, scientifica e non, che ne ha messo in luce, senza negarne però le fragilità, le opportunità. E ha trovato riscontro in una politica pubblica dedicata, la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI), di cui abbiamo già avuto modo di parlare sul sito di Pandora Rivista.
In realtà le aree interne oggi rendono possibili uscite dalla crisi che vanno in direzione di modelli di sviluppo alternativi, più equi, più sostenibili, più democratici, che ne fanno laboratorio di futuro per tutto il Paese. A patto, naturalmente, di rimuovere alcuni ostacoli. Queste vie d’uscita sono già parzialmente visibili nelle sperimentazioni promosse in 72 aree italiane dalla SNAI, in ambito sociosanitario, dei trasporti, del lavoro in agricoltura e nel turismo, e permettono di intravedere, nella convergenza di temi ambientali, sociali, culturali, delle risposte tanto alla gestione dell’emergenza sanitaria, quanto nel far crescere la capacità di resilienza dell’intero Paese di fronte agli shock di natura politica, ambientale ed economica al quale oggi si trova esposto.
Oltre alla riorganizzazione del sistema sanitario, l’emergenza Coronavirus ha posto l’urgenza di intervenire su degli ambiti prioritari sui quali ricostruire degli scenari possibili. Questi ambiti prioritari riguardano la valorizzazione del capitale naturale, e la rilocalizzazione e il controllo di filiere produttive oggi diventate essenziali, e il superamento delle disuguaglianze attraverso un incisivo intervento sull’istruzione.
Il capitale naturale e la rilocalizzazione delle filiere strategiche
Proprio nelle scorse settimane si è discusso molto sulla perdita di controllo da parte dello Stato sulle filiere di produzione dei dispositivi medici, come le mascherine e i respiratori, sulle implicazioni che questo ha sulla capacità di garantire i diritti dei cittadini, e sulla necessità di ricostruire delle economie di stoccaggio dei beni tornati ad essere improvvisamente fondamentali e di accorciare le catene di produzione. Lo stesso ragionamento può essere spostato sui beni ambientali. La crisi climatica ci pone di fronte a cicliche e sempre più frequenti situazioni estreme, nelle quali beni come acqua, energia, cibo e diverse materie prime possono entrare temporaneamente in regimi di scarsità. A livello internazionale esiste ormai da anni un filone di studi che si occupa di food desert, ovvero delle situazioni di scarsità di cibo conseguenti a eventi climatici estremi, che interrompono temporaneamente le reti di fornitura. In questo caso, resilienza significa ricostruire spazi di autonomia nel reperimento e nella riproduzione dei beni ambientali e delle risorse primarie, dove il presidio e la cura dei beni e servizi ecosistemici permettono la tenuta e la valorizzazione del capitale naturale anche in un’ottica di sostenibilità, in linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030.
In Italia, questi spazi possono essere ricostruiti rimettendo al lavoro il capitale naturale delle aree interne, territori dove lo spopolamento e l’abbandono hanno causato una situazione di sottoutilizzo insostenibile dei beni ambientali, che si è tradotta in dissesto idrogeologico, perdita di superficie agricola utilizzata, depauperamento della qualità e disequilibrio degli ecosistemi, perdita di biodiversità.
Riconnettere la gestione sostenibile dei beni ambientali con i sistemi produttivi significa reintrodurre materiali naturali e sottoprodotti di lavorazione in alcune filiere come l’edilizia, la fabbricazione di tessuti, le produzioni di design, l’innovazione terapeutica a base di complessi molecolari naturali. Senza dimenticare il ruolo che la gestione dei beni ambientali può avere nella decarbonizzazione del sistema energetico nazionale, sia sul fronte della produzione di energia che del risparmio energetico.
Ad oggi esistono già alcune esperienze più o meno strutturate, che si muovono sul fronte dell’innovazione e occupano alcune nicchie specifiche di mercato. Tuttavia, esse non trovano contesti regolativi idonei per fare il salto di scala e occupare segmenti di mercato sufficientemente grandi da rimettere al lavoro il capitale naturale delle aree interne. Condizione necessaria perché anche le politiche che lavorano sulla infrastrutturazione di servizi di cittadinanza possano raggiungere risultati in termini di arresto dello spopolamento e miglioramento delle condizioni di vivibilità delle aree interne: è ormai consolidata, infatti, l’idea che sia possibile mettere in sicurezza il territorio soltanto attraverso una sua manutenzione attiva. Sicurezza degli approvvigionamenti, manutenzione del territorio, economie circolari, decarbonizzazione sembrano essere, in questa prospettiva, obiettivi reciprocamente vantaggiosi.
Tuttavia, esistono diverse problematiche perché questi obiettivi si possano inverare. La prima riguarda la frammentazione fondiaria e l’accesso alla terra: una parte dell’innovazione imprenditoriale che guarda alla riconnessione tra materie prime locali e filiere e alla rimessa in produzione del capitale naturale delle aree interne è penalizzata dalla difficoltà di accesso alla terra e dal problema della frammentazione fondiaria. La seconda riguarda alcune attività di manutenzione, indispensabili per gli equilibri ecosistemici, che non trovano riscontro diretto sul mercato e che hanno bisogno di vedere riconosciuto il proprio lavoro e valore per continuare ad esistere. La terza riguarda la costruzione della domanda: dando per scontato che i mercati sono sempre direttamente o indirettamente regolati da politiche e sistemi di incentivazione, bisogna pensare a come introdurre una postura territoriale alle politiche (per esempio le incentivazioni per il risparmio energetico delle abitazioni, che richiedono utilizzo di materiali coibentanti) che rimetta al centro la domanda di beni naturali locali. Ad oggi, le politiche regolative e di incentivazione one fits all, favoriscono settori e filiere già strutturati e non permettono di creare spazi alla diffusione di nuovi prodotti, materiali, metodi.
Per superare queste problematiche è necessario lavorare su patti tra territori metro-rurali, dove gli strumenti di accorpamento e accesso alla terra siano utilizzati come forme di apertura dello spazio di possibilità nelle aree interne e di connessione con la domanda che viene dalle città. Ma l’accesso alla terra non basta, bisogna costruire la continuità di domanda di prodotti derivati dalla gestione sostenibile del territorio, attraverso la creazione di nested markets (mercati nidificati), dove il ruolo delle amministrazioni pubbliche e delle imprese pubbliche può essere fondamentale per strutturare la nascita di nuovi mercati e garantire quantitativi di domanda stabili e sufficienti perché vi siano investimenti imprenditoriali. Infine, bisogna lavorare a forme di reciprocità e solidarietà fiscale tra territori, perché quelle attività di cura per l’ambiente che non trovano riscontro sul mercato, vengano pagate attraverso nuove forme di fiscalità ambientale o lavorando sulla componente reputazionale dei prodotti locali.
Ripensare l’istruzione come dispositivo di superamento delle disuguaglianze
L’altro fronte sul quale l’emergenza sanitaria in corso ha posto l’accento su molte disuguaglianze in campo educativo e dinamiche di esclusione è quello dell’istruzione. In Italia negli ultimi mesi hanno interrotto la scuola 9 milioni di bambini/e e ragazzi/e e oltre 1 milione di bimbi/e dei nidi e dei servizi educativi della prima infanzia. Dei primi si è parlato molto (dalla didattica della quarantena, all’assenza di didattica), dei secondi molto meno. Tuttavia, due sono i temi chiave, in parte speculari, che si possono isolare: il primo riguarda i luoghi nei quali si stanno adattando soluzioni per superare le emergenze educative; il secondo riguarda i metodi e le strategie che si stanno sperimentando. Entrambi, attingono a un’idea di educazione come processo non esclusivamente scolastico, ed entrambi gli aspetti sono stati al centro delle progettualità della Strategia Nazionale per le Aree Interne. Si tratta di progetti che, oggi, confermano la loro portata innovativa, e possono diventare ‘casi pilota’ non solo per i contesti nei quali sono stati pensati, ma per tutto il territorio nazionale.
Mentre nel corso dell’emergenza sanitaria il discorso politico e sulle politiche ha trattato le scuole in modo uniforme, molte di queste hanno reagito in modo diverso, soprattutto nelle aree interne, dove la relazione tra scuola e territori è ancora molto forte. E molte di queste capacità di reazione sono state possibili grazie a scelte pedagogiche, dettate da necessità ma anche da opportunità. In aree interne, per esempio, la didattica a distanza (DAD) è stata scelta per superare le distanze fisiche e le difficoltà di mobilità, ed è diventata un modello sul quale investire risorse, competenze, modelli organizzativi. Inoltre, non sono poche le esperienze che stanno producendo risultati, come l’educazione all’aperto e la rete dei nidi di montagna in Casentino-Valtiberina. Cosa fa la differenza? La dirigenza scolastica, l’amministrazione locale e i docenti che stanno investendo in un progetto educativo. Quali sono i risultati? In alcuni casi, per esempio, si è avuto un ricambio di docenti e un aumento degli iscritti. Sono piccoli numeri, piccoli risultati che in queste aree hanno un grande valore, che diventano leva di cambiamento e sviluppo.
In Casentino, inoltre, l’emergenza sanitaria ha stimolato il coordinamento pedagogico dell’Unione dei Comuni a ripensare il modello educativo di tutte le scuole dell’infanzia sull’esempio della scuola all’aperto e nel bosco. L’idea è quella di estendere in tutta l’area la prima sperimentazione avviata con la SNAI. È stata dunque riconosciuta la validità un’attività in esterno che, pur con una cornice educativa complessa, può essere estesa a tutte le scuole dell’area. È un primo risultato, anche in termini di apprendimento istituzionale, che nasce da una lettura integrata dei bisogni, che si è tradotto in un progetto integrato 0-6 e che diventa più urgente se si pensa alla fascia dei più piccoli, al nido e all’infanzia.
Le aree interne mostrano grandi opportunità, ma anche forti differenze, nella governance locale e nei sistemi educativi territoriali. Accanto ad esperienze positive ce ne sono altre che, per rispondere al welfare locale debole, si muovono nel solco del privato sociale. Una di queste è la casa di Cipì a Cerreto Sannita, un esempio di educazione parentale nato nell’ambito di un progetto riqualificazione di un ex convento, ma le cui finalità vanno oltre la riqualificazione dell’edificio in sé. L’analisi dei dati territoriali portata avanti nell’ambito della progettazione SNAI nell’area Tammaro Titerno, di cui il comune di Cerreto è parte, ha fatto emergere un quadro interessante. Il primo dato mette in relazione i residenti di 3, 4 e 5 anni in un’area di 75.000 abitanti con gli iscritti alle scuole dell’infanzia, statali e paritarie. Parliamo di poco più di 1.500 iscritti su poco più di 3.000 residenti/possibili beneficiari. Il secondo dato riguarda il comune di Cerreto Sannita, dove, su 35 posti disponibili e accessibili in graduatoria del nido comunale ci sono solo 7 bambini iscritti perché è convinzione diffusa che la qualità dei nidi non sia delle migliori.
Parliamo di un problema di offerta territoriale di servizi di qualità. Una prima risposta a questa emergenza educativa nasce fuori dalla scuola pubblica, valorizzando spazi riqualificati e puntando su specifici metodi di apprendimento. Non è il primo caso di dialogo possibile tra offerta pubblica e privata di servizi educativi. Anche gli agri-nidi, che rappresentano un’esperienza consolidata nel panorama della multifunzionalità agricola, con una specifica offerta di servizi educativi e una domanda di lavoro qualificato, nascono come un’opportunità per territori a bassa densità di popolazione. È un’offerta che, nei casi più avanzati come quelli delle Marche, si caratterizza per i servizi altamente innovativi, il coinvolgimento di professionalità diverse, il dialogo tra imprenditoria privata e istituzioni pubbliche, la creazione di reddito e occupazione. L’intervento degli enti locali ha rappresentato un aspetto determinante per il consolidamento della sperimentazione: i comuni e gli ambiti territoriali sociali, attraverso forme di convenzionamento, hanno riconosciuto a queste esperienze un ruolo di sostegno per i servizi sociali ed educativi del territorio.
Servono quindi prototipi di nuovi servizi, a trazione outdoor e culturale, che sappiano dialogare con l’offerta pubblica ordinaria, e occorre creare vasi comunicanti, a regia pubblica, dentro un Patto educativo territoriale. Nella fase di ripartenza sarà dunque necessario stimolare investimenti per le ‘infrastrutture sociali’ (stimolando così una nuova domanda), ma occorrerà garantirne l’innovazione nella qualità dell’offerta (e conseguente offerta di lavoro qualificato) e il suo radicamento territoriale.
Quello che l’azione pubblica può fare è portare avanti politiche e modelli di progettazione orientati allo sviluppo locale ed educativo, che devono tradursi in una ‘sperimentazione presidiata’. Così facendo, si scoprirà che interventi e azioni a regia pubblica, non hanno finanziano solo ‘infrastrutture’, ma hanno aumentato l’offerta, la qualità e l’equità dell’offerta didattica; hanno aumentato la domanda di prodotti derivati dalla gestione sostenibile del territorio, attraverso la creazione di nested markets (mercati nidificati); hanno creato piattaforme/mercati per la diffusione di nuovi prodotti, materiali, metodi; hanno creato opportunità di lavoro; hanno migliorato la qualità della vita di chi vive in queste aree; hanno ridotto le disuguaglianze territoriali e, quindi, hanno risposto agli obiettivi della politica di coesione.
Per concludere, la pandemia rende evidente l’urgenza di promuovere una maggiore capacità di resilienza del nostro Paese, riconoscendo e valorizzando l’estrema varietà di ambienti che lo caratterizzano. La risposta alla crisi potrebbe approfondire le diseguaglianze, o fornire nuovi elementi per ripensare un futuro nuovo per la nostra società ed economia, ripartendo dalla ricostruzione di quelli che oggi sono considerati margini, e che invece ne rappresentano forse le frontiere più avanzate.