Scritto da Giacomo Bottos
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Maurizio Marchesini è Presidente Marchesini Group e Vicepresidente Confindustria per il Lavoro e le Relazioni Industriali.
Qual è il ruolo delle imprese profit in relazione all’ecosistema dell’economia sociale?
Maurizio Marchesini: Quando affronto questi temi, parto sempre da un presupposto che ritengo fondamentale: le imprese profit, come suggerisce il nome, devono innanzitutto generare profitto. Questo è l’elemento base, ma va inteso correttamente. La responsabilità sociale di un’impresa si esprime in gran parte nella sua capacità di creare ricchezza e distribuirla. E lo fa attraverso l’occupazione, la crescita aziendale, l’inserimento dei giovani, la correttezza nei rapporti con i fornitori e altri aspetti analoghi. Questo è il nucleo della sua funzione sociale. Un’azienda che produce profitto è in grado di reinvestire in ricerca e sviluppo, di potenziare la propria capacità di innovazione e di migliorare continuamente la propria tecnologia. Senza profitto, tutto questo non sarebbe possibile. Accanto a questo, però, esiste un altro concetto che per noi è molto radicato, soprattutto in una regione come l’Emilia-Romagna, che è quello della restituzione al territorio. Non si tratta semplicemente di donazioni, né di qualcosa di astratto, ma di una responsabilità concreta. Ripetiamo spesso che non esistono imprese ricche in territori poveri. E soprattutto per realtà come la nostra, che si fondano sul valore delle persone, sulla loro motivazione a crescere e contribuire, prendersi cura del contesto in cui si opera non è un’opzione, ma una necessità. Il benessere delle persone passa anche dal benessere della comunità, e l’impresa ha un ruolo attivo in questo equilibrio.
Qual è il confine tra pubblico e privato in questa cura del contesto? Quali sono i compiti che ciascuno di essi deve assumersi?
Maurizio Marchesini: Esiste, da sempre, una grande – e forse eterna – discussione sul rapporto tra pubblico e privato: dove finisce l’uno e dove comincia l’altro? Qual è il punto d’incontro? Non è facile stabilire un confine netto. Ne parlavo recentemente con una persona straordinaria, la Direttrice italiana di Save The Children, Daniela Fatarella, e ci siamo trovati d’accordo su molti punti. A mio avviso il privato deve assumersi la parte più coraggiosa: essere l’avanguardia, prendere il rischio, creare ciò che ancora non esiste. Deve alzare l’asticella, non solo investendo risorse economiche, ma anche mettendo in campo competenze, capacità imprenditoriali, visione. Una volta che un progetto si è dimostrato valido non solo in fase sperimentale, ma anche nella sua applicazione concreta, dopo anni di riscontri positivi, allora, a mio avviso, è giusto che venga sostenuto dal pubblico, inteso in senso ampio. A quel punto, il privato può spostare la sua attenzione su nuove sfide, continuando a spingere verso l’innovazione. Perché questa complementarietà funzioni davvero, è necessario un dialogo costante e permeabile tra i due mondi. Credo che il Piano attuale stia cercando di agire proprio in questa direzione: un approccio di collaborazione e costruzione condivisa. Ma servono anche strutture pubbliche capaci di comprendere le logiche del privato. Noi, ad esempio, abbiamo la Fondazione Marchesini ACT, acronimo di “Avanguardia, Cultura, Territorio”. Sono i tre pilastri su cui riteniamo debba poggiare una realtà che nasce dal tessuto produttivo locale. A questo proposito, racconto un episodio emblematico: un gruppo di genitori di una scuola di Pianoro si è rivolto alla nostra Fondazione per chiedere aiuto. Avevano un problema concreto: il giardino della scuola era impraticabile, pieno di fango e in cattive condizioni. Dopo averli ascoltati, abbiamo detto chiaramente che quello era un intervento che spettava al pubblico. Semmai, potevamo sostenerli nel fare pressione affinché le istituzioni intervenissero. Diverso sarebbe stato se ci avessero proposto un’attività innovativa o sperimentale non prevista dai programmi scolastici standard: in quel caso, sì, sarebbe stato giusto il nostro coinvolgimento. Può sembrare un esempio banale, ma serve a chiarire dove tracciamo il confine: il privato non può essere chiamato a supplire alle responsabilità del pubblico. Allo stesso tempo, il pubblico non deve vedere il privato come un erogatore di risorse per risolvere problemi che competono alle istituzioni. Il rischio, altrimenti, è quello di snaturare entrambi i ruoli.
Il tema dell’abitare è una delle missioni principali del Piano. Qual è la sua visione a questo proposito?
Maurizio Marchesini: Il tema della casa è, oggi, uno dei problemi più gravi e urgenti. Lo vediamo chiaramente anche attraverso le nostre attività nelle carceri. Di recente, siamo stati molto onorati di ricevere, per il nostro impegno in quell’ambito, la Turrita d’Argento dal Sindaco Lepore: un riconoscimento ai volontari della nostra rete, che ci ha fatto davvero piacere. La difficoltà abitativa colpisce in modo particolare categorie fragili, come appunto gli ex detenuti. Persone che, grazie ai percorsi fatti in carcere, hanno acquisito competenze professionali e che, una volta uscite, trovano subito un lavoro grazie al nostro supporto. Eppure, nonostante un impiego stabile, per loro è quasi impossibile trovare una casa in affitto. Il problema non riguarda solo chi porta con sé uno stigma sociale, ma anche molti cittadini senza particolari criticità faticano enormemente ad accedere a un’abitazione. È un momento davvero molto complesso da questo punto di vista. Tuttavia, crediamo che ci siano margini importanti di azione comune perché esistono progetti nati nel privato che, grazie al coinvolgimento del pubblico, riescono a intervenire su problemi collettivi. E questo, a mio avviso, rappresenta uno dei modelli virtuosi: risolvere questioni di interesse pubblico attraverso l’attivazione di capitali privati. In altri Paesi, iniziative di questo tipo sono già state sperimentate con successo; anche a Bologna ci sono progetti in corso che vanno in quella direzione, e ci auguriamo che portino risultati concreti. In fondo, le dinamiche del mercato sono abbastanza chiare: per abbassare i costi, bisogna aumentare l’offerta. Serve più disponibilità di alloggi, più opportunità di accesso. Su questo punto il Piano sta lavorando con determinazione.
Quali sono oggi i punti centrali della discussione sul tema abitativo, le azioni già avviate e quelle che dovrebbero essere sviluppate?
Maurizio Marchesini: Un nodo centrale riguarda in particolare l’affitto, tema su cui il Piano ha posto, come sappiamo, grande attenzione. Esiste un’enorme riserva di appartamenti oggi sfitti semplicemente perché i proprietari non si sentono tutelati: temono, ad esempio, di non poter rientrare in possesso del proprio immobile in caso di necessità, o non trovano garanzie sufficienti da parte degli inquilini. Affrontare questi ostacoli è essenziale per rimettere in circolo un patrimonio abitativo inutilizzato. Credo, quindi, che la chiave stia ancora una volta nella collaborazione tra pubblico e privato, capace di trovare un punto di contatto che consenta di affrontare il problema abitativo con strumenti condivisi, responsabilità reciproche e obiettivi comuni. Un’idea è, ad esempio, che il pubblico – in questo caso la Città Metropolitana – possa intervenire offrendo garanzie che sblocchino una parte consistente degli immobili attualmente non utilizzati. È già un serbatoio potenziale molto rilevante, e intervenire qui può avere un impatto significativo. Parallelamente, sono in cantiere alcuni progetti immobiliari finanziati con capitali privati, ma concepiti in ottica di rigenerazione urbana, senza ulteriore consumo di suolo. Penso a due aree specifiche: Ravone, nei pressi dell’Ospedale Maggiore, e Casaralta. Entrambe oggi versano in condizioni di degrado, ma hanno il potenziale per essere completamente riqualificate. L’idea è quella di sviluppare quartieri misti, con una parte di edilizia libera e una parte di edilizia convenzionata, offrendo così soluzioni accessibili ma integrate nel tessuto urbano.
Questo tema, secondo lei, come influenza altri aspetti citati dal Piano?
Maurizio Marchesini: Il tema della casa è l’emblema di un bisogno sociale profondo che, se non affrontato in modo sistemico, finisce per produrre effetti anche sul sistema economico. La difficoltà a trovare un alloggio a costi sostenibili diventa un ostacolo concreto allo sviluppo. Già oggi assistiamo a una combinazione critica: da un lato la crisi demografica, in particolare il calo delle nascite, dall’altro l’impossibilità per molte persone di accedere a un’abitazione a condizioni eque. Come ha ricordato anche il Cardinale Zuppi, una persona non può essere costretta a spendere più di un terzo del proprio reddito per la casa. In caso contrario, non ha abbastanza risorse per vivere dignitosamente. Questa situazione ha effetti concreti anche sulla competitività e sulla crescita del nostro territorio. Molti lavori su cui si fonda l’economia della nostra città e della nostra regione sono legati alle persone, alla loro presenza e partecipazione attiva. Se non si riesce a garantire loro una condizione abitativa ragionevole, è naturale che cerchino soluzioni altrove. Lo stesso vale per gli studenti. L’Università di Bologna sta già sperimentando una flessione delle immatricolazioni, e uno dei motivi principali è proprio la difficoltà a trovare un alloggio a prezzi accessibili. Se studiare a Bologna diventa insostenibile dal punto di vista economico, è ovvio che i ragazzi scelgano altre città dove la situazione è più gestibile. Il fatto che il tema dell’abitare sia stato indicato come la prima missione del Piano Metropolitano per l’Economia Sociale non è un caso, perché rappresenta un punto cruciale, da cui dipendono molte altre dinamiche sociali ed economiche.
Che tipo di collaborazione avete con il mondo dell’economia sociale?
Maurizio Marchesini: Innanzitutto, abbiamo scelto di costituire la Fondazione Marchesini ACT perché vogliamo approcciare anche questo ambito in modo industriale, strutturato e continuativo. Ormai da quattro anni, la Fondazione è pienamente operativa: abbiamo persone dedicate a verificare che le risorse vengano utilizzate correttamente, che individuano progetti significativi – anche pluriennali – e ne seguono lo sviluppo nel tempo, valutando con attenzione anche le proposte che ci arrivano. Questo rappresenta, secondo me, un salto di qualità rispetto a interventi episodici o estemporanei. Ci siamo dati tre ambiti di azione, che poi sono quelli rappresentati dall’acronimo ACT: avanguardia, cultura e territorio. Operiamo non solo a Bologna, ma anche in altre realtà territoriali, sempre con un’attenzione forte al contesto locale. Il nostro rapporto con il volontariato e più in generale con l’economia sociale è costante e convinto. Personalmente, ho grande stima per il mondo del volontariato, dove vedo un patrimonio enorme di tempo, energia e dedizione. Tuttavia, credo che esista un limite strutturale che ne riduce l’efficacia, che è la frammentazione. In Italia il volontariato è spesso costituito da piccole realtà, molto frazionate, e questo rende complicato realizzare interventi strutturati o progetti ambiziosi nel lungo periodo. Mi piacerebbe vedere un maggiore coordinamento tra queste realtà, una capacità di mettersi in rete per valorizzare davvero quel capitale di passione, di altruismo, di volontà positiva che esiste e che, se organizzato meglio, potrebbe generare un impatto molto più ampio. Nel mio rapporto ormai pluriennale con queste associazioni – comprese quelle che fanno riferimento alla Chiesa, in senso ideale – ho potuto constatare quanto sia difficile mettere in sinergia queste esperienze. È un vero peccato, perché il potenziale c’è.
Quindi, ancora una volta, emerge la necessità di un maggiore coordinamento.
Maurizio Marchesini: Esattamente. Una delle criticità maggiori è che queste realtà, spesso, non dialogano tra loro. Se lo facessero, se iniziassero davvero a comunicare e a costruire insieme, già questo rappresenterebbe un grande passo avanti. Anche un progetto ancora in fase iniziale come il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale potrebbe, da questo punto di vista, avere un ruolo importante. Ho partecipato alla sua presentazione e ho apprezzato molto il tentativo di avviare un dialogo tra gli attori coinvolti, di favorire una prima forma di coordinamento. È un approccio prezioso, perché solo attraverso la collaborazione si possono ottenere risultati concreti e duraturi. Parlo, ovviamente, con lo sguardo dell’imprenditore, che non so se sia una deviazione o semplicemente una caratteristica ineliminabile del mio modo di vedere le cose. Ma da questo punto di vista, il rischio che gli sforzi si disperdano a causa della mancanza di coordinamento è reale. Ed è un rischio che dobbiamo assolutamente evitare.