Scritto da Giacomo Bottos
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Marco Marcatili è Direttore Sviluppo Nomisma e Presidente Centro Agroalimentare di Bologna (CAAB).
Quali considerazioni è possibile fare rispetto all’utilizzo ricorrente della categoria di economia sociale nel dibattito pubblico?
Marco Marcatili: La prima cosa da dire è che è chiaro che avevamo bisogno di una sistematizzazione all’interno di un perimetro culturale di economia sociale. Però queste categorie evidenziano anche un lato di preoccupazione: se abbiamo bisogno di un’economia sociale, vuol dire che c’è un’economia che non è sociale. E questo è esattamente il presupposto sbagliato, perché l’economia o è sociale o non è, sia per come è nata, sia per gli obiettivi. Io credo che anche gli “spiriti animali” più crudi oggi lo capiscano, perché le aziende per essere attrattive sanno che devono incorporare valori e fornire servizi sociali. Magari lo fanno con un’intenzionalità diversa, cioè con un’intenzionalità tesa al profitto, però se ne rendono conto. Esattamente come con il concetto di economia etica o di commercio etico, questi sono tutti aggettivi che in realtà sarebbero ridondanti perché dovrebbero essere già incorporati nella categoria stessa di economia.
Quindi, al netto dell’economia sociale come ambito specifico, che riguarda l’impresa sociale, la cooperazione, il Terzo settore e via dicendo, si segnala anche la necessità che l’economia tout court abbia una dimensione sociale che non ha sviluppato abbastanza?
Marco Marcatili: Sì, e non solo, lo direi in maniera più forte. Il fatto che ci sia bisogno di un piano sull’economia sociale vuol dire che abbiamo avuto una deviazione culturale da parte di tutti i mondi, di tutti gli attori. A mio modo di vedere, l’economia sociale non è un perimetro dentro cui collocare alcune tipologie di imprese. L’economia sociale è un rafforzativo culturale, un pensiero culturale, che ci aiuta a tornare sui giusti binari, perché oggi l’economia sociale non è di interesse solo per il Terzo settore, o per le imprese sociali o per la cooperazione. Oggi l’economia sociale è interessante per la finanza, per il mondo profit, per la famiglia e per tanti altri soggetti. Quindi interpreterei l’economia sociale non come il pensiero di una parte dell’economia, ma come l’obiettivo culturale che aiuta a rientrare nei ranghi rispetto alla deviazione capitalistica che esclude ogni altro scopo oltre al profitto in relazione all’attività d’impresa. Ma è importante, a mio modo di vedere, non creare contrapposizioni. Anche il Terzo settore e la cooperazione hanno bisogno di tornare a una vera economia sociale, così come il mondo profit. Il paradosso è che oggi vedo che ci sono imprese for profit che agiscono secondo i principi dell’economia sociale in modo più efficace di alcune imprese cooperative e realtà del Terzo settore. Inoltre, a mio avviso, oggi non siamo nelle condizioni di operare una pianificazione. Siamo sempre stati abituati a pensare prima alla visione, allo studio, e poi all’azione e al lavoro. Ma queste timeline sono saltate. Oggi occorre pensare mentre si fa. Il pensiero tende a costruirsi nell’azione. Le aziende stesse sono produttrici di conoscenza, perché l’azione contribuisce a generare la visione. E abbiamo un enorme bisogno di azione, perché gran parte della sfiducia che si è creata in tutti gli ambiti – ambientale, sociale, economico – parte dall’idea che siamo incapaci di agire.
A cosa è dovuta oggi questa difficoltà o incapacità di agire?
Marco Marcatili: Sembra che ci sia qualcosa che blocchi l’azione, che comporta dei rallentamenti, perché fino a quando tutto non è chiaro e tutto non è pronto si fatica ad agire. Ed è la società del rischio quella che si è persa. Il punto è: questo Piano Metropolitano per l’Economia Sociale ci spinge ad assumere dei rischi tali per cui dei soggetti mettono in campo un’azione? Quello di cui abbiamo bisogno è un piano inteso non in senso programmatico, ma come piattaforma culturale che spinga all’azione.
Quali potrebbero essere le modalità più idonee per unire attori diversi per determinare questo tipo di azione condivisa?
Marco Marcatili: Il metodo concertativo scelto dal Piano metropolitano può funzionare, perché il coinvolgimento delle parti genera responsabilità. Tuttavia, noi nel tempo siamo diventati tutti manager e sono rimasti pochi imprenditori. Esistono tantissime scuole di managerialità e nessuna scuola di imprenditorialità. La propensione all’imprenditoria dunque cala. Inoltre, siamo così concentrati sulle imprese tradizionali che ci dimentichiamo di sostenere i tanti progetti d’impresa a spiccata vocazione sociale che emergono, le startup e le imprese giovani. Occorre chiamare a raccolta tutte le nuove imprese giovani di questo territorio che per definizione hanno una dimensione sociale, che non partano dall’idea di creare un profitto, ma dall’idea di risolvere una sfida sociale. Quella è già azione. Mentre sia le imprese mature che le cooperative si portano dietro la storia, i fardelli, gli equilibri; le nuove iniziative imprenditoriali, anche se poche, sono già economia sociale in senso proprio. Qualunque sia la forma giuridica, le nuove iniziative nascono in genere da una comunità, non più dal genio singolo, e hanno un obiettivo che si pone primariamente una sfida sociale di qualche tipo, che sia di ricerca dell’innovazione o di risoluzione di una sfida ambientale. Inoltre, nascono con uno stile sociale.
Non vorrei che stessimo commettendo un errore nell’interpretare il significato di sociale. Con il concetto di sociale non si intende l’occuparsi delle sfortune del mondo, dell’Italia, di Bologna. Sociale vuole dire certamente anche occuparsi delle situazioni ai margini, ma è in primo luogo sinonimo di “relazionale”. Abbiamo bisogno di un’economia sociale che non si occupi solo delle povertà ma anche delle relazioni, ed è per questo che si percepisce l’interesse forte del mondo for profit. Un’impresa che si occupa di meccanica non può essere sociale? Non è che una macchina automatica risolva una sfida sociale, ma a mio modo di vedere può e deve far parte dell’economia sociale, in quanto sviluppa un processo nell’economia aziendale che è relazionale. Poi il contesto dell’impresa la fa emergere come economia sociale, anche per lo stile che assume e le modalità di conduzione delle attività.
Quali potrebbero essere gli strumenti e le strade principali per rendere l’economia più sociale in questo senso?
Marco Marcatili: È appena stata approvata una legge nazionale che prevede di far entrare nella gestione delle aziende anche i lavoratori, secondo diverse declinazioni e livelli di responsabilità. Noi siamo d’accordo perché potrebbe essere un miglioramento nell’ottica dell’economia sociale. Non bisogna tentennare perché, quando parliamo di economia deliberativa, al di là delle parole, dobbiamo osservare quanto il mondo dell’impresa e del lavoro sia compatto e quanto riesca ad assumere responsabilità condivise. Tende a sfumarsi la differenza tra padrone e lavoratore: siamo tutti un po’ lavoratori, manager e imprenditori. Quanto all’economia relazionale, dobbiamo capire in che modo conduciamo le leadership dell’impresa: se siamo ancora su leadership verticistiche o sull’esperienza delle leadership adattive, ovvero quelle nuove forme che derivano dall’esperienza Olivetti. Siamo abituati ad avere un padrone unico all’interno delle aziende o abbiamo una managerialità sociale che ascolta? Che sistemi di welfare applichiamo? Che sistemi di supporto alla produttività? Ci riempiamo di parole legate al performance management, basate sul tempo dell’output, oppure emergono dei sistemi meno stringenti, ma più efficaci per verificare le performance collettive? La mia preoccupazione, per quello che vedo da dentro e da fuori, è che le alternative al modello tradizionale di fare impresa siano un’eccezione. Per questo dobbiamo coinvolgere grandi e piccole imprese, insieme alla pubblica amministrazione, per respingere l’idea che il sociale sia solo un settore. Come dicevo, sociale significa relazionale e riguarda anche uno stile. Al momento però, facciamo fatica su entrambi i fronti.
Dal suo punto di osservazione, qual è la situazione di questo territorio, di Bologna e dell’Emilia-Romagna, in questi ambiti?
Marco Marcatili: Guardando i dati ESG (environmental, social and governance), che noi monitoriamo attraverso la piattaforma Synesgy di CRIBIS, quando si tratta di fare investimenti l’Emilia-Romagna è una regione all’avanguardia soprattutto in tema ambientale. Ma sulla S di ESG è evidente una certa fatica, sia perché entrano in gioco molti fattori legati alla burocrazia, sia perché sviluppare quella S è complicato, perché significa rimettere in discussione il modo in cui guidiamo le aziende, conduciamo le nostre famiglie e ci comportiamo nella società. La discriminante è proprio qui, perché non è più possibile condurre un’impresa come se fossimo negli anni Ottanta e poi parlare di welfare, perché il rischio è che chi fa più profitti diventi automaticamente sociale, perché può permettersi di investire maggiormente in programmi formativi o di solidarietà. Questo è, a mio modo di vedere, uno dei grandi errori culturali che stiamo facendo. Dopodiché la grande ricchezza del contesto bolognese ed emiliano-romagnolo è la presenza di famiglie imprenditoriali con un attaccamento e un radicamento territoriale molto forte, per cui la parte di economia relazionale è quasi spontanea. Moltissimi imprenditori, infatti, si fanno carico di salvaguardare la filiera, di ascoltare i nuovi bisogni di welfare delle famiglie, o partecipano a iniziative per migliorare la qualità di vita del territorio. Ma l’economia sociale deve aiutarci a modificare anche il modo in cui guidiamo le nostre aziende e il modo con cui guardiamo alla managerialità. Ad esempio, con quali criteri selezioniamo i nuovi manager di questo territorio? Guardando a chi fa più EBITDA o a chi migliora il contesto sociale? Si tratta di scelte che incidono anche sull’attrattività che è legata al miglioramento e al rafforzamento della qualità sociale dei contesti familiari, di impresa e territoriali.
Visto che parliamo di un piano che unisce amministrazione pubblica ed enti privati, quale può essere un rapporto produttivo, in quest’ottica, tra pubblica amministrazione e imprese?
Marco Marcatili: Una soluzione potrebbe essere modificare un contesto in cui è presente una sorta di welfare “bricolage”, per cui il welfare è gestito dal pubblico per i bisogni assistenziali, poi da privato per la cura sanitaria – con il privato sociale che ricava ruoli su entrambi i fronti – e ancora il welfare aziendale per quanto riguarda l’attività fisica o la cultura. Tanti welfare e di fatto nessun vero welfare. Dovremmo ricomporre questi interventi del pubblico e del privato per interpretare alcuni nuovi bisogni della società. Questa idea che ciascun imprenditore crea il suo “mausoleo” di misure di welfare, semplicemente perché ha i soldi, è fallimentare. Sarebbe molto più utile contribuire insieme alla costruzione di un welfare territoriale per migliorarne la qualità. Ad esempio, un punto importante è rappresentato dalla mobilità, come il lavoratore si sposta, una dinamica che dipende dai mezzi con cui si muove, che siano pubblici o privati, e da come sono gestite le strade, ma che in genere comporta una perdita di tempo notevole. Perché non ragionare insieme sul modo in cui organizziamo questi spostamenti? Dobbiamo liberarci dalla trappola di un welfare in stile “buono Amazon”: il welfare non è un regalo sotto forma di reddito aggiuntivo, né può essere ridotto a buoni spesa dati al posto di un aumento in busta paga solo perché quest’ultimo sarebbe tassato. Questo non è vero welfare, ma piuttosto una strategia di bilancio aziendale, utile sì, e magari anche gradita ai lavoratori – ma non è una politica su cui sia possibile costruire un partenariato pubblico-privato. Il vero nodo da affrontare è un altro: oggi, ad esempio, una giovane coppia che decide di avere un figlio a Bologna si trova ad affrontare difficoltà enormi. Come possiamo aiutarli? Mettersi in questa prospettiva aiuta ad assumere una logica sistemica.
Sul tema della casa quali potrebbero essere alcune vie da percorrere?
Marco Marcatili: Numerosi imprenditori stanno oggi cercando aree edificabili su cui realizzare nuovi insediamenti abitativi, traendo vantaggio economico su più fronti. Questa dinamica è figlia della necessità, per il mondo produttivo, di mantenere competitività e attrattività. Tuttavia, anche in questo contesto, sarebbe auspicabile sperimentare forme di collaborazione a regia pubblico-privata, capaci di generare un’offerta strutturata. L’imprenditore, in questo schema, potrebbe decidere se acquisire in proprietà un certo numero di alloggi, stipulare contratti di lungo periodo o affidarne la gestione a soggetti terzi. Ciò che desta preoccupazione, però, è l’idea sempre più diffusa che il territorio e il suo welfare finiscano per coincidere con l’azienda, come se ogni spazio e tempo della vita del lavoratore ricadesse sotto l’egida del datore di lavoro. Ma il territorio non è un’estensione dell’impresa, né il lavoratore può essere contrattualizzato a ciclo continuo, dall’orario di lavoro fino all’uso della palestra o all’abitazione. Una visione di questo tipo rischia di trasformarsi in una forma di feudalesimo contemporaneo, con servitù della gleba annessa. Questa non è la direzione che dovremmo seguire.
Occorre, invece, una nuova generazione sia di imprenditori sia di amministratori pubblici, in grado di proporre ciò che definisco un “welfare ricomposto”. Oggi vantiamo un buon livello di competenza sia sul welfare pubblico sia su quello privato, e ci difendiamo discretamente anche nel Terzo settore. Tuttavia, ciò che manca è la capacità di integrare queste dimensioni in un sistema coerente e sinergico. Una ricomposizione, oltre a razionalizzare le risorse disponibili, consentirebbe di fare significativi passi avanti nella risposta ai bisogni reali delle persone. Le famiglie, infatti, vivono una frammentazione dell’offerta che ne limita la percezione complessiva. Abbiamo finalmente compreso che l’abitare non può più essere ridotto alla semplice “scatola” dell’alloggio. Potremmo essere il primo territorio capace di compiere un salto di qualità: dall’offerta di case, all’offerta di un vero e proprio “abitare”. Per le nuove generazioni, infatti, non conta soltanto la metratura dell’appartamento, ma la qualità del contesto: ambienti connessi, funzionali, accessibili, dotati di servizi capaci di rispondere a esigenze concrete, spesso complesse. Oggi, anche le famiglie con occupazione stabile manifestano segnali di disagio psicologico post-pandemico. I dati mostrano un aumento di situazioni difficili: persone non autosufficienti, padri separati, madri sole. In molti territori, le famiglie monogenitoriali superano ormai il 50% e spesso non dispongono di reti di supporto né di accesso a servizi adeguati. E allora, ci chiediamo: queste reti, vogliamo offrirle attraverso un sistema di servizi integrati e accessibili? Si tratta di un ambito prioritario su cui intervenire. Serve però una rinnovata energia collettiva. Troppo spesso, di fronte alla complessità, si tende a fare un passo indietro. Ma non possiamo permetterci di scegliere la via più semplice solo per dimostrare efficienza. È sulle questioni complesse che un territorio come il nostro deve misurarsi, con coraggio e visione.
Quali sono le principali incomprensioni tra le imprese tradizionali e le nuove generazioni di lavoratori, e quali rischi corre un territorio come Bologna se non riesce a adattarsi a questi cambiamenti?
Marco Marcatili: Ho la netta impressione che non abbiamo ancora compreso fino in fondo cosa stia succedendo nel mondo del lavoro. Sono molto legato alle giovani generazioni e, purtroppo, sento spesso discorsi preoccupanti da parte di dirigenti e manager del territorio. Quando una grande azienda locale riporta che, durante i colloqui, i giovani candidati chiedono innanzitutto quale sia il grado di flessibilità previsto – e che questa domanda viene percepita con sufficienza o fastidio – allora significa che non si è capito il cambiamento in atto. La questione non è giudicare se la richiesta di flessibilità sia giusta o sbagliata, ma prendere atto che questa generazione ha caratteristiche profondamente diverse rispetto a quelle precedenti. E lo sta dicendo in modo pacato ma inequivocabile. Primo: non è disposta a sacrificare la vita al lavoro. Non sono i nostri genitori, né i pionieri dell’imprenditoria locale, pronti a lavorare 12 ore al giorno. Secondo: cercano contesti coerenti con la loro visione culturale e sociale, e rifiutano ambienti artificiosi o governati da logiche superate. Terzo: vogliono modalità di lavoro che consentano una reale conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, tanto più considerando che – a differenza delle generazioni precedenti – non possono permettersi un’abitazione in centro città. Vivono in periferia o in collina, e se possono risparmiare due o tre ore al giorno in spostamenti, lo fanno con intelligenza. Non si tratta di voler “stare a casa a giocare alla PlayStation”, ma di organizzare meglio la propria esistenza. Liquidare queste esigenze come infantili o sbagliate è, a mio avviso, un segno di immaturità imprenditoriale. Poi, però, quando arrivano le “grandi dimissioni”, si corre ai ripari offrendo salari più alti o incentivi abitativi. Solo allora ci si accorge che le risorse giovani hanno il coltello dalla parte del manico. E anche nei contesti lavorativi più creativi o autonomi, non c’è più quella disponibilità totale che forse c’era un tempo. O si costruisce una relazione, o si perdono le persone. Le imprese non possono più illudersi di controllare o trattenere le dinamiche sociali: o le interpretano e vi si adattano, oppure restano tagliate fuori.
Quali sono i rischi sociali di questo difetto di dialogo intergenerazionale?
Marco Marcatili: Sul lavoro, sul welfare e sull’abitare – tre pilastri fondamentali – rischiamo di perdere risorse umane qualificate. Per vari motivi: da un lato, un’imprenditoria che, sebbene storicamente più relazionale e sociale rispetto ad altri territori, conserva tratti di provincialismo e si scontra con la fatica ad aggiornarsi; dall’altro, un’incapacità sistemica di leggere i bisogni reali delle nuove generazioni. Conosco molti giovani che oggi lavorano per aziende milanesi pur restando fisicamente a Bologna. Non è una questione di superiorità tra territori, ma di capacità di creare attrattività e produttività attraverso nuove forme di welfare familiare e conciliazione vita-lavoro. Le grandi imprese possono più facilmente affrontare questi cambiamenti, anche investendo nella trasformazione culturale. Per le imprese familiari, invece, modificare la propria visione del mondo è molto più difficile. Bologna ha il grande vantaggio di una classe dirigente sociale radicata. Ma al tempo stesso sconta il ritardo di una classe imprenditoriale e amministrativa non sempre pronta a raccogliere la sfida del cambiamento. Le giovani generazioni non chiedono assistenza o elemosina: chiedono coerenza, visione, rispetto. E quando non trovano risposte, se ne vanno altrove. In molti settori si è tentato di trattenerli senza comprendere ciò che realmente stavano chiedendo. E questo è l’errore più grave.