Scritto da Andrea Baldazzini, Daniele Vico
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Gianluca Salvatori è dal 2009 segretario generale di EURICSE e dal 2018 segretario generale della Fondazione Italia Sociale. Membro del GECES (Gruppo di esperti della Commissione Europea sulla economia sociale) e osservatore nella UNTFSSE (UN Inter-Agency Task Force on Social and Solidarity Economy). In precedenza, si è occupato di ricerca e innovazione come dirigente della Fondazione Bruno Kessler, poi come assessore alla ricerca e innovazione della Provincia autonoma di Trento, ed è stato fondatore e presidente di Progetto Manifattura.
Guardando all’evoluzione della situazione economico-sociale nel nostro Paese, così come a livello europeo e internazionale, alla luce delle conseguenze indotte dal diffondersi della pandemia del coronavirus, si può osservare come un tale momento di crisi stia portando nuovamente all’attenzione di tutti due temi decisivi per il futuro di ogni paese: il lavoro e il welfare. Soprattutto quest’ultimo era stato da tempo rimosso dal dibattito pubblico, oppure affrontato, come sta avvenendo tutt’ora, in maniera frammentaria, rivolgendo l’attenzione ad un singolo aspetto quale ad esempio la garanzia di un’assistenza sanitaria, la necessità di non paralizzare l’istruzione o il mettere in campo misure per sostenere le categorie più vulnerabili. Allo stesso tempo, lo stravolgimento improvviso dell’intero contesto socioeconomico offre l’occasione per rilanciare una riflessione rispetto al bisogno di ripensare in maniera altrettanto radicale l’intero sistema del welfare, tenendo in stretta considerazione le forme e le logiche che il mercato del lavoro ha assunto negli ultimi anni. Proprio il lavoro, per riprendere la nota teorizzazione proposta dal sociologo danese Esping-Andersen, ha costituito e in gran parte continua a costituire ancora oggi uno dei principali cardini attorno al quale è stato ideato il sistema di welfare italiano. Rispetto a tutto ciò un ruolo di sempre maggiore rilevanza, tanto sul versante del welfare, quanto su quello del lavoro, è ricoperto dalle organizzazioni appartenenti al campo dell’economia sociale, le quali sono state anche tra le realtà che hanno subito per prime gli effetti delle decisioni prese dal Governo per contrastare il diffondersi del virus. Ciononostante, il lavoro di queste organizzazioni sarà decisivo non solo nel momento di ripartire, terminata la fase acuta della crisi, ma anche nell’ideare nuove modalità di creazione di valore e di risposta ai bisogni che emergeranno, magari anche attraverso una ridefinizione dei rapporti sia con i soggetti pubblici, che con quelli privati for profit e con la cittadinanza.
Partiamo da uno sguardo sulla situazione attuale. A poco più di un mese dall’entrata in vigore delle prime misure restrittive messe in atto per il contrasto alla diffusione del virus, e alla conseguente sospensione di diverse attività o servizi, potrebbe offrirci una breve fotografia su quali sono le organizzazioni dell’economia sociale maggiormente colpite da questa emergenza improvvisa? Guardando invece al breve e medio periodo, quali sono i principali rischi a cui queste organizzazioni andranno incontro se l’emergenza dovesse protrarsi ancora a lungo e rispetto ai quali stare in guardia?
Gianluca Salvatori: L’impatto della crisi da coronavirus sull’economia sociale italiana non sarà dimenticato facilmente. Non è una previsione particolarmente originale, vero. Il lockdown ha colpito duramente tutti, non solo le organizzazioni dell’economia sociale. Settimane di chiusura forzata hanno messo a rischio centinaia di migliaia di imprese e posti di lavoro. In un Paese di piccole e piccolissime aziende, il più delle volte sottocapitalizzate, il blocco delle attività è stato una sciagura che ha messo in difficoltà le attività economiche senza distinzioni di forma giuridica. Si tratti di imprese familiari, botteghe e esercizi commerciali locali, piccole cooperative, artigiani o professionisti, quando si è costretti a sospendere ogni attività gli effetti sono gli stessi. Le conseguenze provocate da mancati incassi non sono una prerogativa delle imprese sociali. E il problema della liquidità – che significa stipendi e spese fisse da pagare comunque, così come mutui e prestiti da rimborsare – ha il potere di travolgere tutti i soggetti economici nella stessa misura. Come anche le difficoltà di accesso al credito, che non cambiano in funzione della forma giuridica quanto piuttosto in relazione alle dimensioni dell’impresa.
In che senso allora l’economia sociale rischia di essere colpita più duramente? A mio avviso ci sono almeno tre ragioni che giustificano questa previsione. La prima è che molti dei soggetti dell’economia sociale (non parlo qui delle grandi cooperative nel settore della distribuzione alimentare e della produzione agricola, ovviamente tra le meno colpite) operano in ambiti che sono tra quelli che soffriranno di più per una gestione dell’uscita dall’emergenza dai tempi lunghi. In particolare, per chi lavora nel settore dei servizi alla persona, dell’educazione e della cultura il ritorno alla normalità sarà complicato dalle misure di distanziamento sociale e dalle cautele organizzative che verranno imposte alle aziende come condizione per riprendere a lavorare. Osservare le procedure anti-contagio in un ambiente strutturato come la fabbrica è molto meno complicato rispetto alla gestione di servizi di assistenza domiciliare agli anziani o di servizi ricreativi rivolti a infanzia e minori. Quindi la riduzione delle attività potrebbe durare per un periodo molto più esteso, senza che la capacità finanziaria delle organizzazioni sia in grado di compensare le mancate entrate. Il sistema potrebbe non riprendersi dalla stretta di questi mesi.
Una seconda ragione è che l’economia sociale è un concetto che comprende non solo imprese e cooperative sociali, ma un numero molto più ampio di soggetti che svolgono attività economiche pur non avendo forma di impresa. Nel Terzo settore, che in Italia conta 350.000 organizzazioni, operano soggetti che garantiscono tutta una serie di servizi di assistenza, accoglienza, inclusione, educazione che vengono svolti con combinazioni diverse di lavoro retribuito e volontario. Di queste, le imprese sociali propriamente dette sono circa 20.000 e hanno un giro di affari attorno ai 12 miliardi di euro. Questo significa che la parte restante, per arrivare ai 70 miliardi di euro che sono il giro d’affari complessivo del Terzo settore, è il risultato delle attività economiche delle organizzazioni non profit costituite in forme diverse dall’impresa (associazioni, fondazioni, organizzazioni di volontariato, ecc.). A queste fino ad oggi le misure anticrisi del governo non hanno pensato. Mentre per imprese e lavoratori autonomi sono stati messi in campo forme agevolate di credito o contributi a fondo perduto, nulla è previsto per le organizzazioni di Terzo settore costituite in forma diversa dall’impresa. Fatta eccezione per la cassa integrazione in deroga, estesa anche agli enti di Terzo settore, non sono stati assunti provvedimenti per evitare il collasso di questa componente, consistente, dell’economia sociale del Paese. Inevitabile quindi che in mancanza di misure di sostegno l’impatto possa risultare devastante. Oltretutto, nella maggior parte dei casi si tratta di organizzazioni per le quali l’apporto di risorse più rilevante deriva dai cittadini e non dal finanziamento pubblico, vuoi in forma di contributo ai servizi vuoi in forma di donazioni. Quindi sono doppiamente colpite: per un verso il fermo prolungato delle attività significa azzeramento delle entrate, e per altro verso l’emergenza Covid-19 ha comportato il dirottamento di parte notevole delle donazioni (si calcola almeno la metà, rispetto al 2019) sull’emergenza sanitaria. Così come anche il congelamento di progetti e altre attività finanziate da fondazioni filantropiche o soggetti analoghi. La conseguenza è che il settore non è mai stato tanto in pericolo come oggi, quando la sua funzione è maggiormente richiesta.
Qui si innesta la terza considerazione. Le organizzazioni che riusciranno a farcela, superando questa crisi perigliosa, saranno sottoposte ad una enorme pressione perché la situazione sociale richiederà il loro intervento ancor più di quanto avvenisse prima della pandemia. Il rischio però è che si presentino stremate all’appuntamento: senza le risorse necessarie per adeguare la propria offerta ai bisogni vecchi e nuovi. Del resto, già si vedono i primi segni di un aumento della domanda. Un esempio tra i molti riguarda gli effetti della prolungata chiusura scolastica. Nei prossimi mesi saranno necessari sia interventi per compensare gli effetti del blocco delle lezioni in termini di disuguaglianza educativa, sia un’ampia offerta di attività ricreative, ludiche e formative per dare sostegno alle famiglie nelle quali i genitori saranno impegnati a recuperare il lavoro perduto e dove la presenza dei nonni andrà gestita con cautela per il rischio non scongiurato di un ritorno del contagio. Queste situazioni metteranno sotto stress le organizzazioni dell’economia sociale, chiamate ad una maggiore presenza ma ancora probabilmente troppo fragili per far fronte alle nuove richieste. Anche perché difficilmente si potrà contare su una disponibilità di risorse pubbliche per far fronte a queste nuove domande: con debito a livelli record, lo Stato nei prossimi mesi avrà margini di manovra molto stretti per venire incontro ai nuovi bisogni sociali, al di là delle misure messe in campo nelle settimane dell’emergenza. E sarà ridotta anche la possibilità di ricorrere a domanda privata pagante, visto che chi avrà più bisogno di servizi sociali non sarà verosimilmente in grado di sostenerne i costi. Quindi, nel momento in cui le attività dovranno essere potenziate è probabile che l’economia sociale, malgrado la forte motivazione etica e l’orientamento solidale, si scontrerà con una drammatica carenza di risorse. Trattandosi di un settore economico, non si può pensare che sopravviva basando la continuità delle proprie attività soltanto sull’apporto volontario. Il tempo della ripartenza sarà quindi molto complicato.
D’altra parte, ci sono studi che hanno mostrato la maggiore resilienza delle organizzazioni dell’economia sociale (in particolare le cooperative), rispetto alle imprese tradizionali, in situazioni di crisi, come ad esempio la crisi globale del 2008. Resilienza dovuta alla precedenza data agli obiettivi sociali, che ha permesso di salvaguardare il lavoro a discapito del profitto durante gli shock di mercato. Possiamo ipotizzare che questa capacità di resilienza mitighi i danni della crisi in corso?
Gianluca Salvatori: Io credo che le due crisi non siano comparabili sotto questo punto di vista. Come dicevo prima, le organizzazioni dell’economia sociale probabilmente risentiranno più delle altre dell’impatto della crisi, e questo non dipende solo dalle conseguenze economiche e occupazionali dirette, condivise con gran parte delle altre attività economiche, ma dal cambiamento nello scenario sociale e nella domanda dei servizi. Nonché dalla minore disponibilità di risorse pubbliche e private destinate agli ambiti di attività maggiormente presidiati dall’economia sociale. Il che, per questo settore, pone la nuova crisi in una luce totalmente diversa rispetto a quella del 2008. Se allora, infatti, venne alla luce la resilienza di queste organizzazioni, tradottasi in un mantenimento o addirittura nella crescita dei livelli occupazionali e dei servizi offerti a fronte di una tendenza opposta del settore profit, ottenuta a scapito dei margini di profitto (seguendo una coerente logica di priorità alla missione sociale), oggi le cose stanno diversamente. Il blocco forzoso è intervenuto dall’esterno e ha colpito tutti nella stessa maniera, azzerando l’offerta. Il sistema dell’economia sociale non ha potuto far valere le proprie qualità anticicliche semplicemente perché non ha potuto lavorare. E quando potrà ripartire, risentirà comunque dell’assottigliamento delle proprie capacità finanziarie, che in questi ultimi dieci anni – come dimostra l’analisi di EURICSE sui bilanci delle cooperative italiane – hanno risentito della scelta di difendere l’occupazione rispetto ai profitti. Questa crisi è capitata troppo a ridosso della precedente, con l’organismo dell’economia sociale ancora debole. Il rischio di paralisi del settore è più che concreto, proprio quando la fragilità delle reti di protezione sociale richiederebbe invece una sua azione robusta e vivace.
Riprendendo quanto affermato nella breve introduzione a questa intervista, è d’accordo sul fatto che questa crisi potrebbe favorire il rilancio di un serio confronto tra tutte le parti sociali (Stato, privati for profit, cittadini e organizzazioni non profit) in merito al ripensamento dell’intero modello del welfare del nostro Paese in una logica integrativa che guardi, come scrive Amartya Sen allo sviluppo umano integrale della persona, superando la concezione tradizionale di welfare quale semplice spesa e adottando invece una concezione di welfare come investimento per lo sviluppo del Paese? Se sì, quali sono i nodi principali a partire da cui si dovrebbe riproporre questa riflessione? Se no, perché?
Gianluca Salvatori: L’emergenza coronavirus ha scoperto i nervi del nostro sistema di welfare in tutte le sue aree più cruciali. Non poteva esserci tempesta più perfetta. L’indicazione univoca che emerge dalla crisi è che un modello che abbia al centro solo il sistema pubblico, riservando al Terzo settore e alle organizzazioni di economia sociale dei ruoli ancillari e marginali, è disfunzionale e troppo poco reattivo rispetto alle trasformazioni dei bisogni sociali. Prendiamo come esempio i tre ambiti su cui tradizionalmente si misura l’efficacia del welfare pubblico: sanità, istruzione, cura degli anziani.
La gestione del Covid-19 ha messo in evidenza come nel nostro sistema sanitario, come del resto in tutti i paesi occidentali, nel tempo si sia andati in direzione di un accentramento delle risorse dal territorio – ospedali più piccoli, aziende sanitarie periferiche e soprattutto medici di famiglia – verso le strutture ospedaliere centrali, più grandi, efficienti e competenti. È quello che alcuni medici dell’ospedale di Bergamo, in prima linea nel tentativo di arrestare il contagio, hanno definito un approccio “centrato sul paziente” anziché “centrato sulla comunità”. Sono state potenziate le cure specialistiche, concentrandole nei grandi ospedali per ovvi motivi di efficienza, organizzativa e qualitativa, basando il sistema sull’eccellenza delle terapie e sulla ospedalizzazione (la Lombardia è l’esempio più evidente di questa tendenza, diventando un’eccellenza a livello nazionale). Questo modello organizzativo è il più adatto a trattare quelle patologie complesse che oggi rappresentano la grande sfida della sanità (tumori, diabete, patologie cardiovascolari), ma ha lasciato scoperto il fianco alla minaccia di un’epidemia, che ha piuttosto bisogno di essere intercettata tempestivamente attraverso una rete diffusa di presidi territoriali. Si è ritenuto, probabilmente, che il rischio epidemico fosse un’eventualità remota, retaggio di un passato premoderno o fenomeno confinato in paesi meno sviluppati. Quando ne saremo fuori ci sarà da ripensare a questo modello. E, tra le altre cose, nel riconsiderare il ruolo di una medicina di territorio troppo trascurata (anche perché non appetibile per le logiche di privatizzazione), si dovrà riconoscere la funzione che il Terzo settore può assolvere in un approccio alla salute pubblica non concentrato solo sulla dimensione clinico-assistenziale. La presenza capillare sul territorio, i servizi domiciliari, la vigilanza epidemiologica, le attività di prevenzione, sono tutte aree in cui va superato il paradigma Stato-centrico per aprirsi ad un modello plurale di welfare society in cui il “bene pubblico salute” può essere tutelato meglio con il coinvolgimento del privato sociale. L’economia sociale, per vocazione e per modelli organizzativi, è in grado di farsi carico dell’ultimo miglio di un sistema di assistenza e medicina territoriale costruito sulla partecipazione di soggetti diversi. Cure primarie, medicina di comunità e prevenzione sono temi che obbligano a guardare al di là dell’alternativa tra sanità pubblica versus sanità privata. Una riflessione sulle criticità che Covid-19 ha portato alla luce renderà possibile ragionare finalmente fuori da questo schema?
Altro ambito in cui gli effetti della pandemia hanno evidenziato criticità è quello della scuola. Anche qui, come si è detto, ci sono ampi spazi per un’interazione tra sistema pubblico e sistema non profit. Se non vogliamo che questa lunga chiusura approfondisca ancor più la distanza sociale tra studenti che possono contare su robusti sostegni, della famiglia e del proprio ambiente, e studenti che invece se la devono cavare da soli, magari senza neppure le dotazioni minime richieste dalla didattica a distanza, si apre un vasto ambito di collaborazione con le organizzazioni di Terzo settore. Questa emergenza ripropone con ancora più forza il tema della povertà educativa e degli interventi per affrontarla coinvolgendo il privato sociale. Dai programmi extrascolastici di sostegno allo studio al mentoring per seguire individualmente i giovani più in difficoltà, la componente educativa del welfare si presta ad una varietà di integrazioni e complementarietà da parte di soggetti non profit. Altri paesi hanno collaudato esperienze di successo e non sarebbe difficile replicarle. Purché si comprenda che anche i bisogni educativi possono essere oggetto di una responsabilità condivisa in cui valorizzare l’impegno civile delle organizzazioni senza scopo di lucro. Riprendendo il paradigma sanitario, anche in questo ambito un approccio community-based avrebbe da offrire delle soluzioni che potrebbero rivelarsi semplici da attuare e compatibili con le ristrettezze dei bilanci pubblici. Solo per fare un esempio, si potrebbe introdurre un programma come il Teach First britannico con cui migliaia di giovani laureati prima di impegnarsi in un percorso lavorativo dedicano uno o due anni all’insegnamento volontario. Oppure imitare One Million Mentor, un progetto che sempre in UK favorisce l’orientamento al lavoro attraverso l’incontro tra giovani dell’ultimo anno delle scuole superiori e volontari che mettono a disposizione la propria esperienza professionale e la propria rete di contatti, in un rapporto personalizzato. Esempi in cui la mobilitazione di risorse civiche permette di affrontare problemi per i quali il sistema pubblico da solo altrimenti non è in grado di trovare una soluzione sostenibile.
Una terza area di welfare messa a nudo dal coronavirus è quella dei servizi per gli anziani. Anche in questo caso sono emerse carenze strutturali dell’intervento pubblico. Si è detto che le persone più anziane dovevano restare a casa se volevano mettersi al riparo dal contagio. Senza considerare però che nell’Italia del 2020 un terzo della popolazione italiana vive da sola (erano il 5 per cento un secolo fa, quando la norma era vivere in famiglie numerose e in ampi spazi). E senza tenere conto che a fronte di una vita media sempre più lunga (82,6 anni, circa 10 di più rispetto agli anni Settanta) in termini di speranza di vita senza limitazioni la posizione dell’Italia non è messa bene. Tra gli anziani con riduzione di autonomia nelle attività di cura della persona, il 58,1% dichiara di aver bisogno di aiuto o di riceverne in misura insufficiente. La quota di aiuto non soddisfatto appare superiore al Sud (67,5%) e tra gli anziani meno abbienti (64,2%). E questi sono dati pre-coronavirus. È chiaro che prescrivere, senza provvedere a nessuna forma di sostegno, l’isolamento domestico a persone anziane che vivono da sole, e sempre più spesso con una condizione di salute incompleta e possibili limitazioni funzionali, equivale a lavarsene le mani. Di nuovo, questo è un ambito in cui la presenza delle organizzazioni senza scopo di lucro può risultare fondamentale. Considerato anche che molti dei servizi richiesti hanno a che vedere soprattutto con la relazione personale e la presa in carico di azioni ordinarie e semplici che creano familiarità e vicinanza. Per tornare all’esempio dei servizi sanitari, si tratta di funzioni che appartengono più alla sfera della comunità che a quella dell’intervento pubblico. Un altro settore di grande impatto sociale, quindi, in cui mettere al lavoro tutte le risorse della società anziché aspettare che lo Stato sia di nuovo in grado di intervenire con efficacia risolutiva.
L’altro grande polo del dibattito emerso a partire dalla crisi in atto è il tema del lavoro, che rappresenta un aspetto decisivo nel ripensamento del modello di welfare nazionale. Quale potrebbe essere il contributo del mondo dell’economia sociale nel continuare l’impegno per il mantenimento di un alto livello qualitativo del lavoro in questo settore, evitando di cadere in tendenze al ribasso? Allargando poi la prospettiva, quale potrebbe essere il contributo di queste realtà nel preservare e creare opportunità lavorative in un contesto globale in cui il mondo del lavoro sta andando incontro a profonde trasformazioni?
Gianluca Salvatori: Prima ho usato volutamente l’espressione “mettere al lavoro” perché il tema del welfare di comunità, inteso nel senso ampio che ho provato a definire con gli esempi sopra accennati, può essere una leva straordinaria di nuova occupazione. La cura dell’altro – che si traduca in assistenza socio-sanitaria o in attività educativa, in servizi alla terza età o all’infanzia, in animazione culturale o in servizio al territorio – comprende un’ampia serie di quei lavori che la digitalizzazione non renderà facilmente sostituibili. In questi anni le analisi degli effetti sul lavoro dell’introduzione di robot, sistemi di intelligenza artificiale e altre tecnologie digitali sono state più numerose degli oroscopi. Ma tutte coincidono nell’individuare tra i mestieri meno sostituibili quelli che non possono fare a meno di una relazione personalizzata, capace di empatia e intelligenza emotiva. A questo tema, sempre come EURICSE, recentemente abbiamo dedicato un rapporto realizzato per conto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Abbiamo analizzato le opportunità dischiuse dall’economia sociale, e il suo potenziale nel compensare i posti di lavoro che andranno perduti a causa dell’automazione di molte funzioni che oggi diamo per scontato vengano svolte da persone in carne ed ossa. Abbiamo messo in luce la capacità inclusiva dell’economia sociale, che non solo privilegia la stabilità dei rapporti di lavoro ma riserva anche un’attenzione speciale alla condizione dei lavoratori svantaggiati e più vulnerabili, che nelle crisi sono anche i più colpiti. Abbiamo infine messo sotto la lente le sfide aperte dalla trasformazione di mestieri oggi considerati marginali, quindi spesso mal retribuiti e poco tutelati, in posti di lavoro fondamentali in una prospettiva di future of work. Concludendo che le forme organizzative e imprenditoriali dell’economia sociale possono contribuire sostanzialmente ad arricchire di contenuti e riconoscimento sociale questi lavori, dando struttura ad una realtà oggi ancora fragile.
Prendendo poi come riferimento l’amministrazione pubblica, ritiene che passato il momento di maggiore emergenza, dovendo essa tornare a confrontarsi con il bisogno di definire una strategia per il medio e lungo periodo rispetto alla gestione del proprio territorio e comunità, vi siano i margini per rimettere in discussione le tradizionali forme di erogazione dei servizi, superando ad esempio la logica del mero appalto, o per la sperimentazione di nuove forme di governance a livello locale? Oppure ritiene che la reazione del soggetto pubblico sarà di maggiore irrigidimento e chiusura su se stesso?
Gianluca Salvatori: La trasformazione di cui ho parlato poco fa – che significa dare identità e dignità a interi nuovi settori ad alta densità occupazionale, come la silver economy e l’economia dell’educazione – non può avvenire se non cambia drasticamente la considerazione del privato sociale da parte del sistema pubblico (e, aggiungo, anche da parte dell’opinione pubblica). Schiacciare l’economia sociale in una posizione strumentale, da puro fornitore di servizi, vuol dire restare ancorati ad una concezione dogmatica della divisione tra Stato e mercato, del tutto inadatta ai tempi che ci attendono. Ignorando, per di più, che i numeri da tempo smentiscono la dipendenza di questo settore dalla committenza pubblica. La realtà è che nei bilanci dell’economia sociale e del Terzo settore la componente privata è prevalente: nel 2015 le risorse di fonte privata ammontavano a 50 miliardi di euro contro 20 miliardi di euro provenienti da contratti, convenzioni o contributi di enti pubblici. Tendenza, peraltro, in costante crescita. Quindi si tratta di un settore che porta al welfare più risorse di quante ne riceva dallo Stato. Oltretutto, le porta negli ambiti che più sono in presa diretta con le vulnerabilità rese acute da questo periodo di incertezza.
Proprio in quanto settore che agisce in funzione di una missione sociale e non ha finalità di lucro – entrambi elementi che non possono essere rimossi dalla sua natura – l’economia sociale deve essere tenuta in una considerazione diversa, perché ha un ruolo rilevante nell’esercizio di una responsabilità condivisa nella gestione dei servizi di interesse sociale. Questo del resto è il principio che ha portato a introdurre, nel nuovo Codice del Terzo settore, il modello della co-programmazione e della co-progettazione. Un’innovazione su cui, malgrado le resistenze della pubblica amministrazione chiamata ad applicarlo, è importante insistere. Non è solo l’aspetto tecnico di come si aggiudicano i servizi e di come evitare che la logica degli appalti al massimo ribasso contraddica profondamente gli obiettivi sociali che si vorrebbero perseguire. La questione, più profonda, riguarda un’idea di bene comune che non può essere fatta coincidere esclusivamente con l’azione di un’autorità pubblica. È il tema che collega l’efficacia di un sistema pubblico alla vitalità di una cultura civica che induce i membri di una comunità ad assumersi delle obbligazioni reciproche, senza pretendere che sia lo Stato a intervenire su ogni bisogno.
La vitalità della cultura civica è in effetti un elemento cruciale alla base di qualsiasi espressione dell’economia sociale, non solo in Italia. Come vede questo elemento in relazione alle sfide attuali (il lockdown) e alle sfide future della ripartenza?
Gianluca Salvatori: Il periodo di intorpidimento sociale in cui il coronavirus ci ha fatto sprofondare è un’incognita difficile da decifrare. Da un lato c’è il rischio di adeguarci all’idea che lo Stato debba prendere l’iniziativa e farsi carico delle azioni necessarie non solo nell’emergenza ma anche nelle fasi successive, quelle della ripartenza. Con un deciso arretramento rispetto al percorso che fin qui ha condotto a spazi sempre più ampi di riconoscimento della funzione complementare e non ancillare delle organizzazioni non profit. È però anche vero, d’altro lato, che nel tempo di Covid-19 la reazione alle severe restrizioni alle libertà personali è andata oltre la semplice obbedienza all’autorità, manifestando un senso collettivo di responsabilità di cui siamo stati i primi a sorprenderci. È vero, il rischio per la salute è un forte deterrente e ha contribuito a far rispettare le regole. Nondimeno se siamo stati così disciplinati e tolleranti non è solo il risultato di una coercizione. È come se la pandemia avesse agito come correttivo al disincanto sociale, facendoci riconoscere in un destino comune in cui non c’è comportamento del singolo individuo che può essere separato dagli effetti che provoca sulla condizione degli altri. La riscoperta del valore della socialità – sia pure a distanza, e dunque desiderata proprio in quanto negata – potrebbe essere una delle conseguenze impreviste di questo periodo di isolamento nelle nostre case.
Che probabilità ci sono che questo sentimento collettivo riesca a resistere anche dopo il ritorno alla normalità? Qui sta appunto l’incognita, in cui si confrontano due forze opposte ugualmente potenti. Per un verso il desiderio legittimo di tornare a come eravamo prima, chiudendo la parentesi e riprendendo la vita che ci è familiare. Con il corollario di una rinuncia a utilizzare questo tempo per diventare un po’ migliori. Dall’altro la spinta a convertire la reazione emotiva di queste settimane in una leva per riconsiderare sotto un’altra luce alcuni aspetti fondanti la nostra vita associata e le sue prospettive. Questa alternativa vale anche per il mondo non profit. La crisi ha prodotto ritorno di consapevolezza, esercizio della responsabilità personale, apprezzamento per i comportamenti collaborativi, riconoscimento dell’altruismo, fiducia nella competenza. Anche senza prospettare radicali cambi di paradigma è un’esperienza da non disperdere. Potrebbe segnare un passaggio nella psicologia e nei comportamenti collettivi. Ma non è scontato e neppure meccanico: richiede impegno e credo che far fruttare questo “momentum” sia anche compito delle organizzazioni dell’economia sociale e del Terzo settore. È in tempi come questi che il senso della propria azione va riaffermato e fatto valere, con una visione di lungo periodo, non solo concentrata sulla riparazione dei danni e sul ritorno al business as usual. Solo così questo periodo, anziché essere una semplice parentesi da lasciarci rapidamente alle spalle, sarà servito a sviluppare nuove idee e rinvigorire energie per non farci travolgere dall’incertezza.