Tra polvere e ricatti: lavorare alla Eternit di Casale Monferrato
- 01 Febbraio 2018

Tra polvere e ricatti: lavorare alla Eternit di Casale Monferrato

Scritto da Rebecca Paraciani

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Continua la serie di articoli sul cruciale tema dell’amianto in Italia, dopo un primo contributo che ha ripercorso l’origine dell’industria dell’amianto e analizzato la diffusione della consapevolezza dei suoi rischi e le parallele strategie messe in atto dai consorzi dei produttori per difendere i grandi profitti che il settore garantiva. Questo articolo si prefigge di ricostruire il caso dello stabilimento Eternit di Casale Monferrato, evidenziando le condizioni di lavoro al suo interno ed il ruolo avuto dalla vicenda nel processo che ha portato alla messa al bando dell’amianto in Italia. 

Le informazioni relative alle modalità di produzione e alle condizioni di lavoro all’interno dello stabilimento sono derivate dalla raccolta di testimonianze di ex lavoratori, ex lavoratrici e familiari di lavoratori e lavoratrici della Eternit di Casale. Fanno riferimento alle modalità di produzione di materiali in cemento-amianto messe in atto dallo stabilimento dagli anni del secondo dopoguerra fino alla sua chiusura.


Casale Monferrato è una cittadina in provincia di Alessandria. A partire dal 1907 viene scelta per la sua posizione al centro del triangolo commerciale Genova-Torino-Milano per ospitare lo stabilimento Eternit, costola della Eternit SPA dell’Europa continentale e di proprietà dell’ingegnere Mazza, che nel 1911, con la sua invenzione di impianti per tubi per condotte a pressione, eleverà la fama internazionale della fabbrica. La società verrà quotata in borsa e lo stabilimento sarà talmente produttivo da non cessare la propria attività nemmeno durante gli anni delle due guerre, a seguito delle quali troverà nella necessità di ricostruzione a basso costo la propria fortuna[1]. L’industriale italiano muore nel 1956, la società diviene di proprietà belga, per poi essere presa in gestione dal gruppo svizzero della famiglia Shmidaney.

La fabbrica occupava 94.000 metri quadrati dell’area industriale del Ronzone, di 200.000 metri quadrati complessivi. Lo stabilimento rappresenta “l’America senza emigrare”: benessere, stabilità, un lavoro ben retribuito e orari flessibili.

 

Lavorare alla Eternit di Casale Monferrato

Il reparto dal quale l’amianto veniva introdotto nel ciclo di produzione era quello delle materie prime, situato in un sotterraneo dove giungevano sacchi di juta privi di sigillatura che potevano contenere fino a 60 chili di asbesto[2]. Questi sacchi venivano aperti dai lavoratori manualmente, con un coltello, senza protezione; una volta aperti, l’amianto veniva messo a macinare nelle quattro molazze. La loro funzione era quella di disgregare quanto più possibile le fibre di amianto. Era compito dei lavoratori spurgare questi macchinari le molte volte in cui si bloccavano, smuovendo e grattando via l’amianto. Una volta macinato, il prodotto veniva stoccato. A queste fasi erano riservati cinque piani. Tale complesso comunicava direttamente con l’esterno. Negli ultimi 20 anni di vita dello stabilimento questo reparto fu abbandonato, chiuso senza nessun tipo di smaltimento. A seguito della chiusura di quest’area, l’amianto veniva inviato direttamente al reparto degli impasti, mentre quando i cinque piani di pre-stoccaggio erano ancora operativi, arrivava al reparto impasti trasportato dagli “uomini-bicicletta” su dei carretti simili a tricicli.

Il reparto degli impasti è quello all’interno del quale venivano realizzate le miscele: le impastatrici univano a secco amianto e cemento. Erano utilizzati macchinari diversi per la produzione di tubi e di lastre. Quando l’amianto a secco veniva inserito nel miscelatore, un’enorme nuvola di polvere offuscava l’intero settore; ogni giorno, a tutte le ore. “Era impossibile distinguere i volti dei colleghi”. Finito il turno ci si spolverava con l’aria compressa.

La miscela ottenuta veniva spinta da tubazioni a pressione o fino alle macchine-lastre o fino alle macchine-tubi, a seconda del prodotto da realizzare. Questo reparto era di tre piani. La miscela arrivava asciutta in un vascone dove, con acqua, veniva realizzato l’impasto, spinto poi sul retro della macchina, dove c’erano tre vasconi nei quali ruotava un cilindro di pescaggio ricoperto da una rete metallica, sopra la quale venivano adagiate le fibre d’amianto, per poi essere trattate e dosate. In questo reparto le macchine erano in funzione 24 ore al giorno.

Le lastre, una volta fatte e messe a riposo, venivano rifinite nel reparto Petralit, un “girone dantesco” dove venivano effettuate le lavorazioni manuali a secco. La polvere era una presenza quotidiana. Per quanto riguarda i tubi, una volta terminato il prodotto e lasciato riposare facendolo ruotare ogni 24 ore, veniva calato nel piano sotterraneo, in un reparto angusto con scarsissima illuminazione ed estremamente umido, dove veniva lasciato stagionare in vasche colme d’acqua. Una volta estratto, il tubo veniva introdotto nel reparto tornitura, comunicante con quello delle vasche, che dunque non era esente dalle scie di asbesto. La tornitura avveniva a secco, disperdendo una grande quantità di polvere.

Se la nebbia offuscava l’intera fabbrica, nei reparti più nocivi, al termine del turno ci si trovava di fronte ad una montagnola di polveri di tornitura alta oltre un metro. Solamente negli ultimi anni di produttività dello stabilimento, quando l’imperativo era quello della cosiddetta “lavorazione sicura” dell’amianto, sono state prese delle minime precauzioni, tra cui l’installazione di ventoline che aspiravano le polveri di tornitura e avrebbero dovuto filtrarle per renderne possibile il riciclo, rilasciando nell’ambiente aria pulita. Per il loro corretto funzionamento sarebbe stata necessaria una manutenzione quotidiana, ma la dirigenza decise per una pulizia settimanale. Non era previsto un sistema di vero e proprio smaltimento delle polveri, che in questo modo venivano semplicemente espulse all’esterno della fabbrica. La polvere si disperdeva facilmente nell’area di Casale Monferrato, basti pensare che il portone del reparto a pressione comunicava con l’esterno e veniva aperto ogni quarto d’ora per far circolare i camion. Nelle stagioni calde veniva lasciato aperto tutta la giornata.

Recipienti, contenitori, tegole, canne fumarie e pezzi speciali venivano realizzati manualmente nel magazzino Po, che lavorava pasta cemento fresca e morbida: la lavorazione in umido rilasciava meno polveri, anche se poi la merce veniva carteggiata e rifinita a secco. In questo reparto era prevalente la presenza femminile. Gli operai del Po erano chiamati “operai canterini”. Cantare era l’unico modo per non pensare alla fatica del lavoro, che qui era a cottimo: il compenso incrementava all’aumentare della produzione. Nonostante questo fosse il reparto meno nocivo, passava di lì il trenino che portava l’amianto in fabbrica. Le lavoratrici, per evitare che i capelli si ingrigissero per la polvere, utilizzavano un fazzoletto in testa e l’altro in volto. Sono diverse le testimonianze di ex lavoratrici che oggi temono per la salute dei propri figli, allattati tra un turno e l’altro con la tuta ancora addosso.

Tutto ciò che veniva prodotto all’interno dello stabilimento veniva stoccato nei magazzini di piazza d’Armi. Le operaie apponevano i timbri sul materiale che giungeva al deposito, mentre agli uomini spettava il compito di scaricare i camion. Questi camion portavano tubi appena torniti e lastre molate, attraversando la città senza alcuna copertura del carico, con il conseguente rilascio di residui di lavorazione lungo il tragitto.

Un’ulteriore attività riguardava il riciclaggio di lavorazioni errate, che fino ai primi anni Sessanta venivano gettate in una discarica alla quale molti casalesi si recavano alla ricerca di pezzi ancora in buono stato. Con l’introduzione del re-utilizzo, poco per volta le merci venivano portate sotto ad un capannone senza mura, dove una ruspa le frantumava 24 ore al giorno, rilasciando grandi quantità di polvere. Prima di essere reintrodotti nel ciclo produttivo, i frammenti venivano portati al mulino Hazemag per la macinazione. L’impianto era altamente nocivo: operava a cielo aperto ed essendo quello di Casale l’unico stabilimento che recuperava materiali di scarto, si faceva carico della macinazione degli scarti di tutte le altre fabbriche Eternit d’Italia. Alla fine di ogni turno gli operai uscivano, completamente bianchi. La tuta blu, ricoperta dalla patina di amianto, andava a casa con l’operaio. Tornata polvere, la merce difettosa veniva reintrodotta nel ciclo produttivo.

 

Ricatti e monetizzazione del rischio

Alla Eternit era nocivo anche il clima di lavoro ai quali erano costretti i lavoratori. La fabbrica metteva in atto una politica paternalistica. Questo atteggiamento di benevola superiorità della dirigenza rispetto a chi all’Eternit ci lavorava, si traduceva nell’imposizione di regole di condotta paragonabili a vere e proprie forme di sfruttamento e di ricatto. Già dagli anni Quaranta l’azienda era pienamente al corrente dei rischi amianto-correlati. Non era un caso che gli operai dei settori più pericolosi avevano lo stipendio incrementato di circa ventimila lire rispetto agli altri. Questa cifra, simbolica rispetto alla reale portata del rischio, era una sorta di “indennità di polvere”.

All’Eternit si “prendeva la polvere[3]. Ammalarsi era vissuto quasi come una medaglia al valore dopo anni di duro lavoro. Era considerato normale: una ovvia conseguenza di un duro lavoro. L’operaio, lavorando, poteva infortunarsi, ammalarsi e anche morire. I dirigenti mettevano in atto ricatti e minacce, specialmente contro i lavoratori dalle voci più sonore, ai quali, per esempio, eliminavano l’indennità di polvere. Nicola Pondrano racconta come per prima cosa, visto che a due mesi dall’assunzione faceva già parte del consiglio di fabbrica dell’Eternit, gli bloccarono la carriera da tecnico di laboratorio, de-mansionandolo. L’azienda, inoltre, erogava un litro d’olio d’oliva al mese per ogni lavoratore, ma “se non siete bravi, l’olio ve lo togliamo”. Altra ritorsione nei confronti dei lavoratori non innocui era quella di isolarli dal resto degli operai. Coloro che dimostravano “insofferenza”, venivano collocati in un reparto chiamato “il Cremlino”. I lavoratori lo collocano in diversi reparti dell’azienda: secondo alcuni era il reparto della catramatura, secondo altri quello dove si tenevano i tubi a pressione. Il Cremlino non era un luogo fisico, ma una condizione punitiva di lavoro duro, usurante e umiliante, che andava dalla pulizia delle latrine alla pulizia dei filtri delle polveri. Spesso i turni punitivi erano durante le ore notturne, quando la stanchezza era sempre in agguato e c’era il rischio di cadere nei contenitori da otto metri di altezza. Altra pratica di ricatto un po’ più velata era quella di spostare i lavoratori che manifestavano l’intenzione di licenziarsi in reparti meno nocivi, più “confortevoli”. Questo apparente favore in realtà era un modo di revocare il diritto del lavoratore all’indennità di rendita di passaggio.

 

La lotta allo stabilimento

Nel 1976 viene istituita all’interno dello stabilimento casalese la commissione ambientale del consiglio di fabbrica, che decise di effettuare indagini ambientali per verificare la concentrazione di fibre d’amianto con propri periti. Uno sciopero di 87 ore fa sì che i lavoratori ottengano modifiche al processo di lavorazione, come l’imposizione di mascherine di carta, l’adozione di ventole e cappe aspiranti. Bastarono questi minimi miglioramenti per portare le testate dei giornali locali ad esultare: “All’Eternit l’amianto non nuoce più”. Come se quelle piccole migliorie avessero annullato il rischio amianto-correlato. L’azienda, coerentemente con l’azione intrapresa dalla società europea, metteva in atto campagne di contro-informazione per difendersi dalle accuse del consiglio di fabbrica, per esempio imponendo ai lavoratori di non fumare con campagne che ammonivano “fumare fa male” per limitare il numero di malati, visto che fumare accelerava gli effetti dell’amianto. Lo scopo di questi slogan era quello di relativizzare la portata delle informazioni: l’amianto nuoce alla salute, sì, ma solo se si fuma, o solamente se lavorato non in sicurezza.

Sul finire degli anni Settanta, i risultati emersi da un’indagine condotta all’interno dello stabilimento (in preparazione dei quali la Eternit casalese aveva disposto pulizie straordinarie ed alternato il ciclo produttivo in modo da ridurre lo spargimento di polvere) portarono l’INAIL a ridurre il premio corrisposto per il rischio amianto perché, eccetto un paio di reparti, non esistevano più spazi altamente nocivi nella fabbrica. Queste decisioni accesero la reazione della Camera del Lavoro; la mobilitazione dei lavoratori comincia ad essere seguita dai giornali e a catalizzare l’attenzione dei casalesi, dando vita a un primo dibattito tra chi ritiene necessaria una presa di posizione contraria alla dirigenza Eternit e chi, invece, sostiene che la Eternit serve per dare lavoro ai casalesi. Nel 1983 la CGIL promuove una causa civile nei confronti dell’INAIL conducendo un’indagine con propri periti. Nonostante le macchine spente e i reparti lucidati, da questa seconda indagine è chiaro che l’amianto è ovunque e questo porta alla vittoria del processo, accendendo l’attenzione della stampa. In concomitanza di questi eventi il PM Guariniello e Terracini, epidemiologo presso l’Università di Torino, analizzano i sessantuno casi di mesotelioma diagnosticati a Casale Monferrato tra il 1973 e il 1982. Di questi, soltanto il 39,3% coinvolgeva lavoratori a contatto con l’amianto. Le informazioni relative al doppio volto dell’amianto faticano a rimanere taciute. Iniziano le prime mobilitazioni, che stanno attirando l’attenzione della stampa. I vertici dell’industria europea dell’amianto, riunitisi nell’AIA[4], decidono di lasciar fallire il gruppo Eternit italiano. Il 4 giugno 1986 lo stabilimento Eternit di Casale Monferrato è dichiarato fallito. L’azienda pare voler riprendere l’attività nel 1987, ma un’ordinanza emessa dal sindaco Riccardo Coppo, che vieta su tutto il territorio casalese l’impiego di amianto, lo impedisce.

Di amianto si può morire anche se non si lavorava alla Eternit. Questa battaglia non trova un immediato consenso. “Ci dicevano che era colpa nostra se la Eternit era chiusa”, mi viene detto durante le interviste. A non far comprendere subito la reale entità del rischio era la campagna di disinformazione messa in atto dalla Eternit, che passava dall’affermare l’inesistenza del rischio al sostenere la sua avvenuta risoluzione. A seguito dei risultati epidemiologici ottenuti, la pretura di Casale avvia un’indagine tesa ad accertare la responsabilità penale di tali morti. La fase istruttoria si concluderà dopo cinque anni con il rinvio a giudizio dei quindici dirigenti della società italiana. I capi di accusa sono omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime aggravate. Il processo si chiude nel 1993 con la condanna di quattro degli imputati.

Con la legge 257 del 1992, la norma casalese di messa al bando dell’amianto viene estesa a tutta Italia, che per prima in Europa ne impedisce l’attività di estrazione, la lavorazione e l’impiego.


[1] Altopiedi R., Un caso di criminalità di impresa: l’ETERNIT di Casale Monferrato, Torino, L’Harmattan Italia, 2011.

[2] Quando si parla di asbesto o amianto, ci si riferisce ad un insieme di minerali costituiti da sottilissime fibre.

[3]  Linguaggio gergale utilizzato dai lavoratori e dalle lavoratrici dell’Eternit. Prendere la polvere significava ammalarsi di asbestosi: malattia polmonare cronica conseguente all’inalazione di fibre di asbesto.

[4] L’AIA è l’Associazione Internazionale per l’Amianto, nata dall’intento delle industrie internazionali produttrici di amianto di garantirsi profitti in un regime di oligopolio, anche oscurando ed occultando informazioni in merito alla nocività del minerale, informazioni delle quali erano a conoscenza già dagli anni Quaranta.

Scritto da
Rebecca Paraciani

Dottoranda in Sociologia e Ricerca Sociale presso l'Università di Bologna. Studia le irregolarità lavorative utilizzando la prospettiva della street level bureaucracy, si occupa principalmente di lavoro e azione pubblica.

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