“Fare umanità” di Francesco Remotti
- 19 Dicembre 2020

“Fare umanità” di Francesco Remotti

Recensione a: Francesco Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari 20206, pp. 246, euro 22 (scheda libro)

Scritto da Andreas Iacarella

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Si è forse poco abituati, in quest’epoca intellettualmente vivace ma ancora pesantemente condizionata dagli strascichi dell’ondata postmodernista, a contributi che propongano con coraggio e rigore scientifico concetti nuovi per pensare il mondo. Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi di Francesco Remotti, recentemente rieditato da Laterza, è uno di questi casi felici. Al di là, dunque, di ogni possibile discussione sul merito delle tesi proposte dall’autore, va innanzitutto colto questo suo carattere decisivo: il tentativo di offrire agli studiosi delle varie discipline un apparato concettuale per certi aspetti nuovo.

La problematica dell’antropo-poiesi è stata posta da Remotti già a partire dall’inizio degli anni Novanta, trovando una prima sistematizzazione nel 1996[1]. Negli anni successivi è stata approfondita, estesa e adottata da un gruppo di studiosi sempre più ampio[2]. Il termine non è di immediata comprensione, ma di straordinaria capacità euristica. Come scrive Remotti, la prospettiva antropo-poietica parte dal presupposto che costantemente nell’ambito di una cultura «gli esseri umani abbiano da essere costruiti e plasmati e che, in un certo senso, nella loro vita non conoscano una sola nascita, quella biologica» (p. 34); queste ulteriori nascite, queste seconde nascite, assumono carattere prettamente sociale (basti pensare ai riti di passaggio[3]). L’essere umano appare dunque, in quest’ottica, al tempo stesso produttore e prodotto della propria cultura, in un circolo di creatività culturale che propone l’idea di una costante riformulazione.

Già da questo accenno dovrebbe apparire chiaro come la nozione vada a destrutturare in profondità le certezze identitarie e le costruzioni monolitiche sull’idea di natura umana. Come ricostruisce l’autore, a fondamento della teoria antropo-poietica si trovano alcuni presupposti concettuali: da un lato il «paradigma “costruttivistico” (…), il quale utilizza idee come costruzione, invenzione, immaginazione, finzione», dall’altro «la teoria dell’incompletezza dell’essere umano» (p. 35). Su questo secondo aspetto, Remotti spende pagine preziose, per inquadrare anche il percorso di pensiero che ne è all’origine (da Pascal a Clifford Geertz). L’affermazione della manchevolezza, innanzitutto biologica, dell’uomo chiama in causa la necessità di un costante, irrinunciabile e imprescindibile lavoro di antropo-poiesi, che coinvolge la realtà dell’essere umano nella sua interezza. La vastità di questo compito è riassumibile in una frase di Herder, deciso sostenitore della teoria dell’incompletezza: «Noi non siamo ancora uomini, ma lo diventiamo ogni giorno» (cit. p. 42).

La cultura, intesa in senso antropologico, assume così il compito primario di plasmazione e modellamento; questo si esplica sia in un’azione minuta, quotidiana e inconsapevole (determinata dal semplice trovarsi all’interno del flusso della vita sociale), che in occasioni programmate e consapevoli, che determinano una forte discontinuità (come i rituali di iniziazione)[4]. Ma essendo esso stesso un prodotto umano, non si deve correre il rischio di assumere il lavoro antropo-poietico come portatore di una ragione superiore: anche le culture possono sbagliare.

Quello dell’antropo-poiesi è dunque un sistema di pensiero che, anche se suscettibile di critiche, offre uno spazio epistemico fondamentale per analizzare le culture umane nel loro farsi. Definisce contorni entro i quali discutere questioni che, tutt’altro che specialistiche, riguardano la natura prima del nostro interrogarci su noi stessi. Un aspetto che Remotti presenta come ancora di difficile soluzione in questo quadro, limitandosi ad evocarlo nella sua incontestabile realtà, è la ricerca umana della bellezza. Un bello che non è funzionale alla costruzione di un determinato modello di umanità, ma che nonostante ciò guida e determina le scelte. Proprio la questione del bello dovrebbe forse indurre ad un approfondimento della tematica antropo-poietica, indagando la scelta non solo come facoltà razionale, o come ragione sociale collettiva, ma anche come ricerca irrazionale personale[5]. Un ripensamento in questa direzione consentirebbe fra l’altro di ammettere la validità della teoria antropo-poietica anche in un’ottica che non presentasse l’essere umano come irrimediabilmente vuoto e manchevole.

In ogni caso, al di là delle possibili osservazioni, questa impostazione di pensiero permette, come nota giustamente Remotti, di affondare un colpo potenzialmente mortale al pensiero post-umanista di matrice foucaultiana. Contrariamente a quanto il pensatore francese assume nella celebre conclusione de Le parole e le cose, Remotti ribadisce come «l’uomo (…) è appunto la domanda che pone in relazione a se stesso». «Da sempre gli esseri umani si sono posti il problema dei modelli di umanità da adottare nelle loro vite» ed è questa una condizione permanente e irrinunciabile della nostra specie (p. 53).

Assumere la prospettiva dell’antropo-poiesi come strumento concettuale, chiama con sé inevitabilmente un’altra questione. Una volta fissato, con Pico della Mirandola, l’uomo come «opera dall’immagine non definita» (cit. p. 28), ne deriva che, «a differenza degli altri esseri, l’uomo (…) è in grado di inventare se stesso», si trova dunque su un terreno infinito di potenzialità (p. 29). Si pone cioè, in altri termini, il tema della creatività[6].

L’antropo-poiesi non è dunque soltanto strumento di indagine utile agli antropologi, ma è prima di tutto, secondo Remotti, esigenza delle società umane, le quali non si limitano ad adottare modelli di plasmazione, ma hanno necessità di «sviluppare, presso i proprio membri, un sapere approfondito e articolato relativo al “fare umanità”» (p. 52). In molti casi, i rituali, i momenti critici e di passaggio, non assumono perciò il senso di semplice riproposizione della tradizione; al contrario, permettendo un allontanamento momentaneo da essa, guidano ad una presa «di coscienza critica delle proprie forme di umanità». Propongono il senso «dell’arbitrarietà delle forme di umanità» e, di conseguenza, il «senso delle possibilità», delle continue invenzioni di cui si può nutrire il fare antropo-poietico (p. 53).

Creatività, spirito critico, invenzione: l’identità non appare in questa prospettiva come una realtà definita una volta per tutte. Viene in mente, a questo proposito, l’efficace definizione data da un leader nativo della Nuova Caledonia, Jean-Marie Tjibaou: «Il ritorno alla tradizione è un mito (…). Nessun popolo l’ha mai vissuto. La ricerca di identità, il modello, secondo me, è davanti a sé, mai dietro»[7].

Quella fin qui presentata, potrebbe apparire però una visione pacificata e aproblematica. Remotti parla invece, convintamente, dei drammi dell’antropo-poiesi. La drammaticità sta innanzitutto nell’impermanenza e nella caducità dei modelli che possono essere adottati: l’essere umano è costretto a “fare umanità”, ma è un compito esposto al rischio continuo di una caduta. Inoltre, porta in sé necessariamente un principio di selezione e di esclusione, di soppressione di possibilità che non vengono scelte.

La selezione può diventare violenza nel momento in cui le società e le culture non ammettono, neppure velatamente, la natura artificiale dei propri modelli antropo-poietici. Non riconoscere la precarietà, ma anzi arrogarsi la pretesa di possedere le chiavi di volta della storia, tratteggiare il proprio orizzonte come quello finale delle vicende umane è un furore antropo-poietico, per usare l’espressione adottata da Remotti, che può portare con sé immani tragedie. È il caso ovviamente del nazismo, ma di qualsiasi dittatura o autoritarismo che si è proposto come iniziatore di una nuova umanità.

La modernità, analizza l’autore, ci ha proiettato in una nuova dimensione dell’antropo-poiesi. Il compito del “fare umanità”, quel momento di riflessione critica, è stato enormemente svalutato dalle società contemporanee, relegandolo al mondo angusto e imperfetto delle società tradizionali. La condanna o il rifiuto dei rituali tradizionali ha alla base un presupposto fondamentale: la certezza del proprio modello di umanità (sia questo di origine terrena o divina) e dell’immagine di umanità che ne deriva, che può essere dunque estesa indefinitamente a inglobare tutti i popoli. Questo non ha portato con sé, però, «un atteggiamento di tollerante attesa»; al contrario le «certezze antropo-poietiche» inducono «un atteggiamento particolarmente attivo, fattivo, realizzatore, conquistatore, rivoluzionario tanto presso di sé quanto presso gli altri» (p. 154).

È il furore dell’affermazione di un «uomo nuovo», cioè un «nuovo tipo di umanità, a cui finalmente si può accedere andando oltre le forme di umanità dettate» dalle tradizioni (p. 183). Vi è dentro, come evidente, il pensiero di una cesura che si vorrebbe assoluta e definitiva: un «inizio assoluto e irripetibile», dato una volta per tutte (p. 59). Come argomenta Remotti, questa hybris è presente sia nelle religioni monoteistiche, in particolare nel cristianesimo, che nei regimi totalitari del Novecento. Il passaggio dalle une agli altri è segnato dal fatto che, mentre nelle religioni l’uomo nuovo sarebbe opera di Dio, nel delirio totalitario salta anche questa labile garanzia esterna ed è l’uomo stesso che «si sostituisce a Dio» (p. 193).

La riflessione dell’antropologo assume qui una portata che è fortemente attuale. L’ipotesi di una via di fuga dal dramma, dal rischio insito nell’antropo-poiesi, si è consumata nelle tragedie dell’uomo nuovo. La chiave è assumere questa prospettiva e farla propria, consapevoli della fragilità delle proprie creazioni di umanità ma anche dell’irrinunciabilità di questa provvisorietà. Tra i baNande della Repubblica democratica del Congo, racconta Remotti, era presente un canto-preghiera di invocazione alla divinità che ripeteva, come domanda senza risposta certa: «omundu, niki? “un uomo, che cos’è?”» (p. 213). È questa dimensione di dubbio, connaturata allo stesso fare antropo-poietico, che andrebbe recuperata nell’oggi, «contro deliri, furori, mostri, tragedie antropo-poietiche» (p. 217). In molte società tradizionali, i rituali che si situano nei momenti critici, di passaggio, non hanno la funzione di rassicurare; rappresentano invece uno spazio di riflessione critica dei giovani. Quasi a sancire la necessarietà di una «certa distanza critica rispetto non soltanto a se stessi (…) e alla società in cui si sta per entrare ormai a pieno titolo, ma anche rispetto ai modelli di umanità che gli iniziatori sono in procinto di incidere sui corpi e sulle menti dei giovani» (p. 207).

Le sfide dell’oggi, acuite dalla pandemia che stiamo ancora vivendo, ci pongono nella necessità di spogliarci di ogni residua certezza antropo-poietica, ideologica o religiosa, e abbracciare una condizione di ripensamento e trasformazione permanente. In uno splendido passo citato da Remotti, Hanna Arendt scrive: «Ogni fine nella storia contiene necessariamente un nuovo inizio (…). L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. (…) Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo»[8]. Proprio quando il «disorientamento è più atroce», occorre risalire, scrive l’antropologo, a questa spinta profonda e originaria (p. 195).


[1] Si veda, in particolare: S. Allovio, A. Favole (a cura di), Le fucine rituali. Temi di antropo-poiesi, introduzione di F. Remotti, Il Segnalibro, Torino 1996.

[2] Si vedano, tra gli altri: C. Calame, M. Kilani (a cura di), La fabrication de l’humain dans les cultures et en anthropologie, Payot, Lausanne 1999; F. Remotti (a cura di), Forme di umanità, Mondadori, Milano 2002; S. Forni, C. Pennacini, C, Pussetti (a cura di), Antropologia, genere, riproduzione. La costruzione culturale della femminilità, Carocci, Roma 2006.

[3] Il lettore meno esperto può vedere, oltre al classico di Arnold Van Gennep (I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2012), la teorizzazione di Victor Turner sul “dramma sociale” (Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna 2013).

[4] Molti degli interventi antropo-poietici hanno per oggetto primario il corpo, si veda a questo proposito l’ampia classificazione che Remotti presenta nel capitolo IV del volume.

[5] Si veda, a questo proposito: S. Maggiorelli, Attacco all’arte. La bellezza negata, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2017.

[6] Per una bella presentazione del tema in una prospettiva antropologica, si veda: A. Favole, Oceania. Isole di creatività culturale, Laterza, Roma-Bari 2010.

[7] Cit. in: ivi, p. 177.

[8] H. Arendt (1948), Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009, p. 656.

Scritto da
Andreas Iacarella

Laureato in Scienze storiche presso la Sapienza di Roma con una tesi di antropologia delle scritture personali. Svolge attività di ricerca presso il Gramsci centre for the humanities di San Marino e collabora a vario titolo con diverse riviste tra cui «Pandora Rivista», «Storiografia», «Il sogno della farfalla». Ha co-curato il volume collettivo “Conoscere per trasformare. La ricerca di Ernesto de Martino” (Left 2021), è inoltre autore di “Indiani metropolitani. Politica, cultura e rivoluzione nel ‘77” (Red Star Press 2018) e di diverse pubblicazioni sulla storia delle scienze della mente in Italia.

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