Recensione a: Massimo Baldini e Leonzio Rizzo, Flat tax. Parti uguali tra disuguali?, il Mulino, Bologna 2019, pp. 136, 11 euro (scheda libro).
Scritto da Luca Picotti
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Da decenni si discute di una riforma complessiva del sistema tributario italiano che abbia come obiettivo quello di alleggerire una pressione fiscale tra le più alte in Europa e di superare la crisi dell’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche. Questa, la cui funzione originaria era di realizzare i principi di universalità e progressività, è diventata sempre più frammentata e selettiva, gravando ormai quasi esclusivamente sui redditi da lavoro – dipendente perlopiù – mentre i proventi del capitale finanziario o immobiliare si sono nel tempo guadagnati spazi di autonomia con una tassazione alla fonte o in via sostitutiva attraverso imposte proporzionali; in questo modo, assistiamo ad una discriminazione qualitativa alla rovescia dove, al posto di vedere i redditi da capitale maggiormente tassati rispetto a quelli da lavoro, vediamo invece quelli da lavoro gravati da aliquote progressive sempre più alte e quelli da capitale tassati con un’aliquota proporzionale tendenzialmente bassa.
In questo contesto, dove l’equità orizzontale tra i diversi produttori di reddito sembra essere venuta meno e dove i concetti di progressività e universalità faticano a trovare attuazione, tra le numerose proposte di riforma è emersa negli ultimi anni la tentazione di cambiare radicalmente paradigma, portando in parlamento un’idea di tax design completamente diversa da quella che nel 1974 ha dato vita all’Irpef in Italia: un’imposta con aliquota unica formale invariante all’aumentare della base imponibile, ovvero la cosiddetta flat tax. Nel dibattito pubblico italiano si è sentito spesso parlare di flat tax, prima con Berlusconi e ora con Salvini, passando per le varie idee provenienti dall’ambito accademico-intellettuale come quella dell’Istituto Bruno Leoni.
Per orientarsi all’interno di questo dibattito spesso caotico e superficiale, cercando di capire in cosa consiste un sistema ad aliquota unica, quali siano i vantaggi e i limiti e le esperienze in altri paesi, è utile leggere il libro Flat tax. Parti uguali tra disuguali?, scritto da i due economisti Massimo Baldini e Leonzio Rizzo, edito per la sempre preziosa collana “Farsi un’idea” del Mulino. In poco più di cento pagine i due Autori tracciano una sintetica ma lucida panoramica della questione, con un approccio analitico che permette di focalizzare, attraverso l’aiuto dei dati, i possibili benefici e le maggiori problematicità nell’adozione dell’aliquota unica.
«Flat tax significa, alla lettera, imposta piatta. In genere s’intende un’imposta sul reddito con una sola aliquota, quindi molto distante dall’Irpef attuale che applica aliquote crescenti a scaglioni più alti di reddito». (p.10).
Bisogna innanzitutto, ogniqualvolta si intenda discutere di sistema tributario, partire dalla norma costituzionale che sancisce il principio di progressività del nostro ordinamento: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Dunque, la prima domanda da porsi è: un’imposta ad aliquota unica può essere progressiva e, quindi, coerente con il principio costituzionale? Teoricamente sì, perché attraverso un’esenzione del minimo vitale (ad esempio: i primi diecimila euro di reddito non vengono tassati) o altre deduzioni nonostante l’aliquota legale (unica) rimanga invariata all’aumentare del reddito, l’aliquota media (effettiva) invece aumenta. La flat tax infatti non consiste in un prelievo di eguale ammontare, la cosiddetta pool tax inevitabilmente regressiva e quindi incostituzionale, come venne giudicata quella «introdotta dal governo conservatore di Margaret Thatcher, che nel 1990 modificò completamente il criterio di calcolo della community charge, il tributo destinato a finanziare gli enti locali. Da imposta proporzionale al valore catastale degli immobili, essa divenne un prelievo di importo uguale per ogni elettore inglese, con limitate esenzioni solo per i redditi più bassi» (p.16). Per questo, scrivono i due Autori, l’espressione flat tax va considerata piuttosto come una semplificazione di flat rate tax, cioè imposta ad aliquota piatta (unica); un’imposta la cui equazione è T= t Y (T è l’imposta in euro; t è l’aliquota unica; Y è il valore della base imponibile) e che può essere resa progressiva con l’inserimento di una deduzione: T= t (Y-D).
Da un punto di vista squisitamente teorico, la flat tax potrebbe essere anche iper-progressiva: se la deduzione, scrivono i due economisti, fosse superiore all’attuale area esente (oggi per un dipendente è di 11.636 euro l’anno) e l’aliquota unica fosse uguale o superiore alla più alta aliquota marginale dell’attuale Irpef (43%), allora la flat tax sarebbe addirittura più progressiva dell’Irpef di oggi. Questo ovviamente è solo un esperimento teorico, perché nessuna proposta di flat tax ha mai previsto un’aliquota così alta, dal momento che i sostenitori della tassa piatta basano gran parte delle loro convinzioni sulla trickle-down economics e gli studi di Laffer – in sostanza, sull’idea che aliquote marginali troppo alte disincentivino il lavoro creando quindi dopo una certa soglia una perdita di gettito; più in generale sull’idea che abbassando le tasse ai più ricchi poi i benefici dei maggiori investimenti dovrebbero ricadere anche sui redditi medio-bassi.
La flat tax viene quindi proposta per creare un terreno più favorevole all’iniziativa privata, senza aliquote marginali pesanti e con un sistema semplificato e organico che porterebbe, secondo i sostenitori, ad una riduzione dell’evasione e ad un aumento del gettito nel lungo periodo. Gli Autori vagliano criticamente queste tesi, ad esempio sottolineando come, considerata la minor propensione al consumo delle classi più abbienti, lo stimolo effettivo all’economia potrebbe essere basso («se si lascia un euro in più a una famiglia a reddito medio-basso, questo euro verrà con gran probabilità speso aumentando la domanda aggregata, mentre una famiglia ricca ne potrebbe risparmiare un quota significativa»); oppure, sulla questione del gettito, riportando l’esperienza del governo Reagan in cui l’aliquota marginale più alta passò dal 70 al 28% senza però un aumento del gettito dovuto al conseguente rilancio dell’economia ma, anzi, con un aggravio del debito pubblico che durante la sua presidenza dal 31% arrivò al 51% del Pil.
A chi converrebbe la flat tax? I due Autori dimostrano come sia impossibile introdurre una flat tax che realizzi allo stesso tempo a) una parità di gettito rispetto all’Irpef attuale; b) un risparmio significativo sia per i poveri che per la classe media. Se volessimo infatti mantenere la parità di gettito dell’Irpef attuale, con una aliquota del 35% ed un’area esente più ampia si avvantaggerebbero i poveri e i ricchi, ma non la classe media[1] – il guadagno medio per i poveri sarebbe di 280 euro all’anno, per ogni famiglia del 5% più ricco sarebbe di 3000 euro, mentre la perdita per la classe media sarebbe di circa 550 euro. Con un’aliquota del 25% invece, che non manterrebbe in ogni caso la parità di gettito, guadagnerebbero tutti tranne i redditi bassi, con i ricchi beneficiari netti della riforma.
«Se la flat tax è così poco conveniente per le classi medie, come mai sembra aver riscosso un ampio consenso nelle elezioni del marzo 2018? Forse perché la suggestione della flat tax si è intrecciata con quella, ben più potente, del calo delle tasse […] All’obiezione che una perdita di gettito di decine di miliardi sarebbe insostenibile e obbligherebbe il governo a tagliare la spesa, si può ribattere che forse gli elettori hanno interpretato la promessa di una flat tax con aliquota molto bassa […] come un generico ma forte impegno a ridurre le imposte e semplificare il sistema fiscale» (p.25).
Dopo un excursus storico sulla nascita e lo sviluppo dell’imposta sul reddito – con anche un importante focus sul passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta che ha visto le aliquote marginali calare drasticamente in tutti i paesi occidentali secondo quello che potremmo definire lo Zeitgeist neoliberista – i due Autori si concentrano sulle esperienze dei paesi dell’Est Europa che hanno adottato la flat tax, sottolineando come sia difficile fare paragoni tra le economie avanzate di cui l’Italia fa parte e paesi che sono usciti dal comunismo con uno stadio di sviluppo ben differente.
Infine, le ultime pagine sono dedicate alla crisi dell’Irpef – con le criticità accennate nell’introduzione, ovvero l’assetto sempre più schedulare, iniquo e frammentato dell’imposta sul reddito[2] – e alle proposte di flat tax in Italia, in particolare quella della Lega e quella dell’Istituto Bruno Leoni. In entrambi i casi è evidente come gran parte del guadagno andrebbe ai più ricchi, rischiando di esacerbare disuguaglianze già molto marcate nella società italiana. Proprio per questo gli Autori concludono la loro analisi con una riflessione che contiene anche l’individuazione di una via alternativa a quella della flat tax:
«Gli effetti distributivi delle proposte di flat tax in buona sostanza sono piuttosto chiari, e rappresentano il principale ostacolo all’adozione di un’imposta di questo tipo nei paesi dell’Europa occidentale che vogliano mantenere un welfare state di qualità. Certo l’Italia rappresenta un caso a sé sia perché il motore della crescita economica si è inceppato da tempo, sia perché come abbiamo visto l’Irpef è ancora un’imposta particolarmente pesante sui bilanci delle famiglie, decisamente più che in altri paesi europei. Una riduzione delle sue aliquote sarebbe importante sotto molti punti di vista. Potrebbe rilanciare la crescita economica, stimolando sia la domanda aggregata che l’offerta dei fattori produttivi; ridurrebbe il cuneo fiscale; renderebbe l’Irpef più equa tra soggetti che percepiscono redditi di tipo diverso, senza penalizzare come ora i dipendenti e i pensionati. Ma per realizzare questi obiettivi non c’è bisogno dello shock della flat tax, che rischia di mettere in crisi il bilancio dello Stato e la spesa sociale. Meglio procedere con gradualità, ad esempio partendo dal forte divario che separa la seconda (27%) e la terza (38%) aliquota dell’Irpef attuale […] Ridurre la terza aliquota marginale (o aumentare la soglia superiore del secondo scaglione è sicuramente una priorità. Ne trarrebbero beneficio le classi medie e anche i redditi alti, ma non in modo così sproporzionato come con la flat tax. Se si vuole un sistema più equo ed efficiente, qualche intervento sulle aliquote non può comunque prescindere da uno sforzo di ricomposizione della base imponibile dell’Irpef» (pp. 122-123).
Il libro di Baldini e Rizzo aiuta a fare chiarezza sulla questione della flat tax attraverso un approccio analitico scevro da ideologie o preconcetti, capace anche di mettere in luce le non più trascurabili criticità dell’Irpef attuale; una lettura utile ad un vasto pubblico, per migliorare la qualità di un dibattito pubblico per ora molto scadente. Inoltre, queste pagine confermano quanto importanti siano, per la comprensione del presente, iniziative come quella della collana “Farsi un’idea” del Mulino, grazie alla quale le principali questioni della contemporaneità vengono analizzate in numerosi volumi accessibili a tutti. Un contributo prezioso che merita tutta l’attenzione possibile.
[1] Sono definite come povere le famiglie dei primi 8 ventili, come classe media i ventili dal 9 al 18 e ricchi l’ultimo 10%. Per l’Istat è in povertà relativa un nucleo famigliare di due persone la cui spesa totale è minore o uguale alla spesa media pro-capite; quella assoluta è invece relativa all’impossibilità di poter comprare un paniere di beni ritenuti indispensabili.
[2] Sulla crisi dell’Irpef si legga D. Stevanato, Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax. Prospettive per una riforma dell’imposta sul reddito, il Mulino 2016. L’autore dopo una buona diagnosi sulla crisi dell’Irpef propone una flat tax con esenzione del minimo vitale – proposta dalla quale chi scrive si sente molto lontano. Per quanto concerne invece l’individuazione delle maggiori criticità dell’Irpef, il volume è consigliato perché, come scrive l’autore, «è vero che con una flat-rate tax tornerebbero in auge i vecchi stilemi della tassazione proporzionale, ma presente e futuro della progressività sono molto meno radiosi di quanto si possa comunemente pensare». Di questa realtà bisogna necessariamente prendere atto.