“Futuri possibili. Il domani per le scienze sociali di oggi” di Vincenza Pellegrino
- 04 Febbraio 2022

“Futuri possibili. Il domani per le scienze sociali di oggi” di Vincenza Pellegrino

Recensione a: Vincenza Pellegrino, Futuri possibili. Il domani per le scienze sociali di oggi, Ombre Corte, Verona 2019, pp. 226, 19 euro (scheda libro)

Scritto da Luca La Cava

8 minuti di lettura

Ne L’uomo senza qualità (1930-1942), Robert Musil scrive: «Se il senso della realtà esiste […], allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo il senso della possibilità. Chi lo possiede non dice ad esempio “qui è accaduto questo o quello”, “accadrà o deve accadere”. Piuttosto immagina: qui potrebbe accadere tale o talaltra cosa»1. Il tema del possibile è da diverso tempo sotto i riflettori di numerosi studi di natura culturale, economica, politica e sociale, e si vede legato a doppio filo alle riflessioni attorno al futuro. Vincenza Pellegrino offre il proprio originale contributo ad una già ampia trattazione a riguardo con il saggio Futuri possibili. Il domani per le scienze sociali di oggi, primo resoconto di una ricerca2 accademica ed empirica che mira a studiare il futuro in quanto “immaginazione-azione culturale”. Come in precedenza evidenziato dal lavoro del sociologo americano Erik Olin Wright3, le scienze sociali si stanno dedicando con sempre maggior zelo allo studio del possibile, o meglio, alle condizioni che ne rendono plausibile la fioritura all’interno dei paradigmi culturali, economici e istituzionali vigenti. In tal senso, spiega l’autrice guardando al lavoro di Wright, «molto si gioca sulla capacità delle scienze sociali di svolgere un ruolo di analisi che consenta di vedere profondità, resistenza, applicabilità dell’emergente sociale rispetto alle storture dell’attuale sistema capitalista» (p. 173). In uno sforzo teso a indagare un presente-futuro potenzialmente differente, la ricerca di Pellegrino è interessata alle contraddizioni sistemiche e alle modalità che aprono a nuovi “possibili”.

Gli argomenti sinora menzionati rendono chiaro che il futuro non può prescindere da tutta una serie di rappresentazioni e archetipi narrativi che collegano in modo biunivoco l’individuo e la comunità. Si tratta di un rapporto che richiama il concetto di memoria collettiva, la quale, come spiegano Halbwacks4, Jedlowski e diversi altri autori, «non solo retro-agisce sul passato, ma […] pre-agisce sul futuro, cioè permette al singolo e alla collettività di interiorizzare una idea di storia e di farla agire nel presente in modo più o meno consapevole» (p. 54-55, nota 7). Volendo riferirci proprio a Jedlowski, l’immaginario sul futuro è un mosaico di produzioni psico-culturali che sfociano in un «orizzonte delle attese»5 composto di presenti e di vagheggiamenti futuri, è una tensione negoziante tra esiti e contro esiti che può condurre, una volta esplosa, a mettere in discussione i limiti di quelle narrazioni che recano in sé una “promessa” sul domani. È quanto sta accadendo da diverso tempo con la “narrazione Progresso”, secondo Pellegrino: dopo un interessante excursus sulle diverse chiavi di lettura che hanno nel tempo riguardato l’idea del futuro (quello “antico” in cui l’uomo e le divinità collaboravano per realizzare un destino, quello “escatologico” ereditato dalla tradizione cristiano-cattolica e quello “umano” figlio dell’Illuminismo e della sua visione progressiva e laica della storia), viene mostrato come le promesse di una “vita migliore” che hanno accompagnato lo sviluppo tecnologico-scientifico del secolo scorso – l’introduzione della catena di montaggio da parte di Henry Ford, la comunicazione di massa predetta da Velimir Chlebnikov in La radio del futuro, le ambiziose visioni del futurismo – siano sfociate in risultati contrapposti. Ovvero: «il capitalismo si attuava senza incremento di benessere diffuso. Così, il sistema precipitava […] nell’indeterminatezza del futuro» (p. 69). Si perde di vista la meta, i futuri divengono “limitati”, come l’opera di Jean-François Lyotard evidenziava parlando di “condizione postmoderna” e di “storia senza meta” – l’opera di Lyotard si colloca proprio due anni dopo quel fatidico 1977 in cui Steve Jobs, figlio del panorama americano cyberpunk del tempo e autore di una sintesi tra produttività e virtualità, dava vita ad Apple6. Ancora, il Progresso si dimostra incapace di tenere il passo davanti ai primi disastri ambientali – Chernobyl è un chiaro esempio7 –, nonché di fronte ad una serie di contraddizioni che, tuttavia, non sembrano minacciarne l’estinzione definitiva: paradossalmente, difatti, succede che mentre il capitalismo europeo – più in generale, occidentale – comincia a somigliare ad una creatura claudicante e indolenzita, la controparte cinese è alla pari di un bambino «pieno di energie e di investimenti sul futuro» (p. 76). In altre parole, «La fede nel progresso si sposta e si rinnova, ma altrove, e pare nutrire un capitalismo nuovo, ancora giovane» (ibid.). Pare, per l’appunto, perché non siamo che Benvenuti nel deserto del reale, per rifarci al titolo del libro di Slavoj Žižek. Davanti alla crisi di una narrazione che sembrerebbe giunta al capolinea, il nostro disincanto non ci risveglia; piuttosto, ci dimostriamo incapaci di formulare una nuova idea di progresso, di rompere gli schemi. Dunque, «“si spera a vuoto” slegando la speranza dalla critica all’esistente» (p. 80).

L’approccio che Pellegrino sposa muove dalla consapevolezza, ormai sempre più lampante agli occhi degli studiosi sociali, che ci troviamo in un’epoca in cui la retorica delle “grandi possibilità” non si è ancora estinta, convivendo prepotentemente con una retorica dei “grandi rischi”. La sensazione di trovarsi ad un “bivio”, di «essere arrivati allo snodo delle possibilità divergenti interne ai processi sociali e culturali che viviamo» (p. 139) è rintracciabile nelle immagini sul futuro che ci raccontiamo a vicenda. Dalla ricerca sul campo svolta dall’autrice ricorrendo allo strumento dei Future Lab8 emerge che i giovani individuano nella crisi delle istituzioni democratiche, generata, in parte, dai modi accelerati dell’iper-capitalismo, un “bivio” per tramite del quale non riescono ad affermarsi visioni stabili e rassicuranti del potere legittimo. Le rassicurazioni sembrano a questo punto giungere da un mondo “g-localizzato”, in cui si cerca una sintesi tra i circuiti culturali e materiali globali e un’esperienza più piena e inclusiva delle comunità territoriali. Le giovani e i giovani protagonisti coinvolti nel lavoro di Pellegrino sono gli stessi che devono fare i conti con gli ostacoli che il capitalismo globale ha prodotto; soprattutto, con quelle tendenze “cronofagiche” e “cronofrenetiche” che, per dirla con il filosofo Byung-Chul Han, hanno trasformato la società della prestazione «nella “società della stanchezza”»9 (p. 91). Ed è parlando di queste categorie prestazionali che nel saggio di Pellegrino emergono forti le storture del capitalismo odierno: da un lato, la “colonizzazione del tempo libero” da parte del sistema produttivo nutre quest’ultimo grazie alle preferenze che esprimiamo e alla fruizione di centinaia di prodotti – è, questa, la cronofagia di cui parla Jean Paul Galimbert10 –; dall’altro, una corsa che rende impossibile la visualizzazione di un futuro tangibile – la cronofrenia. Il capitalismo del XXI ci chiede sempre di scegliere, di esprimere preferenze, di immaginare senza però porci nelle condizioni di indirizzare queste attività verso una forma-futuro alternativa e realmente collettiva. Secondo Pellegrino, «La continua connessione al flusso inarrestabile di stimoli, che ci ruba il pensiero sul futuro, non conduce più ad un […] radicamento nel presente, piuttosto porta ad un disorientamento costante» (p. 91). Il punto è che il radicamento nel presente è condizione essenziale a prendere contezza del potenziale insito in esso, nei suoi limiti e nelle sue possibilità, per attribuire un senso alla direzione del tempo. La disattivazione delle giovani generazioni, in questo caso, non può che porsi come una reazione alla mancanza di senso. Basti considerare i numerosi studi che hanno per oggetto il fenomeno dei N.e.e.t. (not in employment, education or training)11, giovani che rinunciano al contatto con la spazio pubblico e incapaci di sintonizzare i desideri e le speranze individuali con i desideri e i cambiamenti della collettività.

La cronofagia e la cronofrenia della nostra attualità producono evidenti ricadute sulla dimensione psicologica individuale e collettiva. Il senso del futuro è uno dei pilastri attorno ai quali si regge l’equilibrio del singolo e di una comunità, ma la progressiva erosione dei “garanti psico-sociali” denunciata da René Kaës12 – la simbolizzazione, la capacità di soggettivazione, la religione, le istituzioni o ancora i garanti del senso di autorità e gerarchia – ci ostacola nel dare un senso allo scorrere del tempo. L’ “intemporalità” – termine preso in prestito da Han – del nostro presente ha sostanzialmente dato vita a tre tipologie di soggetti. La prima è quella del normotico-cronico, per il quale proseguire con il presente di cui è parte è più verosimile che prospettare una transizione verso un diverso funzionamento delle cose, in una sorta di atteggiamento di «tenuta irragionevole davanti alle storture dell’ordine contemporaneo» (p. 113). C’è poi il crono-frettico, così assorbito dalla frenesia di costruire un futuro da non avere l’energia per pensarlo: è una madre intervistata dall’autrice che non trova i modi di vedere oltre la realtà in cui è immersa; è l’uomo flessibile di Richard Sennett13, «“attivissimo” e al tempo stesso “inerme” davanti alla direzione delle cose» (p. 116); è il precario che performa costantemente e che crede che il futuro si realizzerà per inerzia, e che quando ciò accadrà, ecco, allora si potrà mollare la presa. E infine c’è il crono-depresso, frustrato dall’idea di non essere abbastanza per performare a dovere, nella maniera che mostrano la tv o la rete: è, volendo sintetizzare, colui che pensa che «Se è vero che la felicità per “gli altri” tuttora esiste […], allora l’insuccesso dell’individuo, la scarsa visibilità, lo scarso potere sul futuro di cui il soggetto si sente portatore è messo in relazione ad una incapacità personale» (p. 118). Una condizione, quest’ultima, molto dolorosa, e caratterizzante la postura di molti millennials che si colpevolizzano ma al tempo stesso “attendono” il futuro. Guardando proprio alle generazioni più giovani, il futuro viene letto da Pellegrino come il più grande “campo da gioco” – per stare con Bourdieu – su cui si articola il processo educativo. I futuri-passati si rivelano ancora capaci di esercitare un’influenza: la performatività resiste come valore a cui si viene (anche indirettamente) socializzati, e le speranze di una crescita economica vantaggiosa, dell’autonomia individuale, della soddisfazione a tutto tondo sono i traguardi a cui l’educazione sembra guardare ancora. L’eroe, oggi, non è più l’eroe tradizionale, il cui compito era quello di inverare la Storia, di riconciliare quest’ultima con il dovuto ordine delle cose, non si occupa di riordinare l’esistente; piuttosto, si preoccupa di portare a compimento un progetto individuale all’interno di un patimento collettivo: la Storia, il destino della comunità, non cambia, ma questo eroe approda ad un orizzonte futuro tutto privato. Volendo sintetizzare, «il long-term future è quello della “propria” vita futura», ma il mondo che si trova al di fuori delle biografie individuali resta immutato. In tutto ciò, gli adulti che si fanno carico della funzione educativa, paladini di un vecchio ordine che non riescono a mettere in discussione, socializzano le generazioni più recenti alla sopravvivenza di fronte all’incerto, riversando su di loro una narrazione ingombrante che, tuttavia, i giovani continuano a mettere in discussione – per fare un esempio, attraverso lo strumento dei social network.

Eppure, in questo contesto di incertezza e spaesamento emerge di nuovo forte il bisogno di un rilancio del possibile, che le scienze sociali definiscono come quell’insieme di ingredienti silenti ma già inseriti nella realtà a partire dai quali si producono evoluzioni inattese. Più che affidarci ad un probabilismo capace di schiacciarci entro i limiti di un presente che non si rinnova, la soluzione prospettata da Pellegrino per riabilitare il discorso sul futuro consiste nel trattare il possibile come un discorso appassionato da cui venire collettivamente contagiati. Insomma, fare del futuro una «“esperienza estetica”» (p. 183), come direbbe Ugo Morelli14, prendendoci cura delle possibilità latenti, pur consapevoli che il fallimento non può essere del tutto escluso, ma può vedersi anche superato dalla natura testarda di certi potenziali sociali.


1 Robert Musil, L’uomo senza qualità, Mondadori, Milano 2015.

2 Gli altri e più completi risultati della ricerca empirica condotta da Vincenza Pellegrino sono contenuti in Vincenza Pellegrino, Futuri testardi. La ricerca sociale per l’elaborazione del “dopo-sviluppo”, Ombre Corte, Verona 2020.

3 Wright ha parlato in questo caso di «Real Utopias», immaginando un sistema socio-economico post-estrazionista e radicalmente critico e alternativo rispetto all’attuale iper-capitalismo. Si veda Erik Olin Wright, Envisioning Real Utopias, Verso Books, Londra-New York 2010.

4 Maurice Halbwachs coniò il concetto di «memoria collettiva» negli anni Venti del secolo scorso. Si veda in merito il saggio La memoria collettiva, a cura di Paolo Jedlowski e Teresa Grande, UNICOPLI, Milano 2001.

5 Paolo Jedlowski, Memorie di futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali, Carocci, Roma 2016.

6 L’immaginario cyberpunk, recentemente tornato in voga grazie a numerosi prodotti di stampo narrativo, offriva una fuga dalla materialità con le sue immagini psichedeliche, ma al tempo stesso era un futuro-già-presente insidioso e spaesato, come quello descritto da Philip Dick in numerosi romanzi, tra cui Ma gli androidi sognano pecore elettriche?

7 Esattamente nel 1986, Ulrich Beck usava per la prima volta l’espressione «società del rischio» per indicare un tipo di società in cui il rischio si trasforma in un fattore operante silenziosamente e indipendentemente dalla volontà dei membri della comunità sociale, e in cui diventa importante poter individuarne la presenza capillare per poterlo in qualche modo gestire. Si veda Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2013.

8 Ideato da Robert Jungk e Norbert Müller, si tratta un metodo di ricerca finalizzato a “visualizzare” il futuro e che l’autrice ha applicato articolandolo in tre fasi: una prima, che si avvale di tecniche come il brainstorming o la slam poetry, orientata a esplorare le paure sul futuro; una seconda, basata sulla pratica dei focus group, in cui si dà la possibilità ai partecipanti di “scrivere” la propria utopia, di visualizzare un diversa quotidianità; una terza, in cui si punta ad individuare quell’insieme di condizioni, caratteristiche e tendenze già esistenti nella società e che aprono la strada alle condizioni auspicate – ovvero, l’emergente sociale.

9 Per un maggior approfondimento, si rinvia a Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Roma 2012.

10 Jean-Paul Galibert, I cronòfagi. I 7 principi dell’ipercapitalismo, L’alternativa, Viterbo 2015. Galibert parla di come il tempo sia divenuto il campo di conquista del capitalismo del XXI secolo, che trae e rigenera il proprio profitto grazie all’uso che facciamo dei suoi prodotti, multimediali e non, in quelle ore extra-lavorative che solitamente venivano impiegate tramite lo svago o il sonno.

11 Alessandro Rosina ha scritto un interessante libro-inchiesta sul tema della generazione dei N.e.e.t. Si rimanda a A. Rosina, NEET. Giovani che non studiano e non lavorano, Vita e Pensiero, Milano 2015.

12 René Kaës, Un singolare plurale, Borla, Roma 2007.

13 Richard Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999.

14 Si consiglia la lettura di Ugo Morelli, Anticipare è possibile, una raccolta di saggi in rete consultabili all’indirizzo http://www.ugomorelli.eu/doc/anticiparepossibile.pdf

Scritto da
Luca La Cava

Nato a Reggio Calabria nel 1996. Dottore triennale in Scienze politiche presso l’Università della Calabria con una tesi in Sociologia generale dal titolo “Forme di aggregazione e disaggregazione sociale. Un itinerario sociologico”, dottore magistrale in Relazioni internazionali all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, appassionato di temi sociali, filosofici, psicologici e culturali. Ha conseguito un Executive Master in Organizzazione e Sviluppo delle Risorse Umane presso la GEMA Business School.

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