“Il cosmo della mente” di Edoardo Boncinelli e Antonio Ereditato
- 05 Ottobre 2021

“Il cosmo della mente” di Edoardo Boncinelli e Antonio Ereditato

Recensione a: Edoardo Boncinelli e Antonio Ereditato, Il cosmo della mente. Breve storia di come l’uomo ha creato l’Universo, il Saggiatore, Milano 2018, pp. 262, 12 euro (scheda libro)

Scritto da Riccardo Canaletti

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Nei Pensieri e conclusioni sulla interpretazione della natura o sulla scienza operativa, Francesco Bacone sostiene che «Il dominio dell’uomo consiste solo nella conoscenza: l’uomo tanto può quanto sa»[1]. E nello stesso testo si tenta di storicizzare la verità, in linea con l’idea che quest’ultima abbia carattere e qualità proporzionali allo stato del progresso nella ricerca. L’intera opera di Bacone poggia su questa idea di reciprocità tra mondo e conoscenza, dove il mondo è mediato dalla mente in modo tale che l’uomo possa considerare come prova l’esperienza, e l’esperienza come lo strumento con cui si rappresenta il mondo. Dunque è questa capacità di comprendere che ci permette di studiare in modo sistematico le cose e la realtà si presenta agli occhi dell’uomo come una sua creazione (ma non creatura). Il libro del genetista Edoardo Boncinelli e del fisico Antonio Ereditato sembra recuperare lo stesso spirito[2] che permette ai due autori di tracciare, in modo sintetico, una storia dell’origine dell’Universo ai nostri occhi. Quest’idea viene già espressa dal sottotitolo, «Breve storia di come l’uomo ha creato l’Universo» e sembra svilupparsi di concerto con un’idea che potrebbe sembrare prescientifica, ma non lo è, dal momento che filosofi della natura come Paracelso possono rappresentare al meglio la scienza contemporanea, più di quanto non si voglia ammettere (si rimanda in proposito alle ricerche di Hasok Chang)[3]. L’idea è la seguente, espressa dal titolo «Il cosmo della mente»: la mente e il cosmo non sono separati e non sono inconciliabili se confrontati attraverso uno studio delle strutture che sottostanno al loro funzionamento. È importante notare come non ci sia nulla di metafisico in questa tesi, dal momento che non si sostiene una corrispondenza tra Universo e mente sul piano ontologico; piuttosto si difende l’idea che la comprensione dell’Universo (ovvero della sua architettura e del suo funzionamento) non possa prescindere dalla comprensione della natura della mente, così come non sia possibile conoscere l’Universo senza puntargli gli occhi addosso.

Dalla lettura del saggio sembra si possa comunque escludere una forma di costruttivismo radicale, simile a quello di autori come Humberto Maturana o come Ernst von Glasersfeld. Forse vi è sottesa piuttosto una visione realista di tipo kantiano. Tuttavia, l’obiettivo dei due autori non è quello di proporre un’idea originale su cosa sia la realtà, bensì di raccontare come abbiamo imparato a conoscere ciò che ci troviamo di fronte. Si inizia dall’origine dell’Universo. L’ordine temporale della storia raccontata nei capitoli rispetta l’ordine della narrazione scientifica dell’origine della vita, e prima dell’origine della materia e del tempo. L’esposizione in nessun momento ammicca a concezioni della scienza postmoderne o indefinite. La scienza, per il genetista e il fisico, non è altro che «l’osservazione e l’interpretazione il più possibile concreta di quello che succede intorno a noi, compiuta mediante schemi logico-matematici»[4]. Così l’Universo, che ha avuto origine almeno 13,8 miliardi di anni fa, dopo un non-tempo e un non-luogo che priva di ogni senso qualunque domanda su cosa ci fosse in precedenza[5], viene visto non solo con degli occhi ma (ed ecco il kantismo) con degli occhiali particolari, quelli della formalizzazione logico-matematica. Questi occhiali servono non solo ad amplificare gli strumenti disponibili per osservare l’Universo, dal momento che i nostri sensi sono limitati[6], ma anche a interpretare ciò che con i nostri sensi limitati riusciamo a cogliere della realtà. Oltre dunque al limite dei sensi, e al limite conseguente della nostra capacità di interpretare, abbiamo un ulteriore limite al livello dell’interpretazione dovuto all’uso di strumenti formali consistenti e non vaghi, che non permettono di lanciare ipotesi contraddittorie e, ancora di più, non sufficientemente specifiche da inserirsi in un puzzle di conoscenza che è anche conoscenza operativa (ovvero funzionante). In ogni caso, è proprio questa capacità, per quanto limitata, che ci permette di considerare rilevante la storia della Terra, altrimenti completamente trascurabile rispetto alle dimensioni spaziotemporali dell’Universo[7].

Entrando nel merito delle scoperte, probabilmente la più importante acquisizione della scienza contemporanea è la comprensione della struttura della materia discreta, ovvero la scoperta delle molecole e degli atomi a inizio Novecento e, in pochi decenni (sempre nel primo trentennio del XX secolo) la scoperta di cosa ci fosse dentro a molecole e atomi, sorprendendosi del fatto che i costituenti subatomici fossero immersi nel vuoto (che in questo caso è il vuoto quantistico)[8]. I primi elementi da inserire nel filatoio che ci permette di “creare” l’Universo, sono dunque la natura discreta della materia e il vuoto. A questi si aggiungono le forze: quella gravitazionale, quella elettromagnetica, la nucleare debole e la nucleare forte. Lo studio delle forze ha permesso inoltre di scoprire che almeno due di queste, l’elettromagnetica e la nucleare debole, costituivano un’unica interazione all’origine dell’Universo e ciò ha permesso agli scienziati di ipotizzare che forse tutte queste interazioni, ai tempi del Big Bang, fossero un’unica grande forza[9].

Nel secondo capitolo, dedicato a noi e al microcosmo, si introduce un elemento teorico importante, che insieme alla definizione di scienza data nelle pagine precedenti ci permette di comprendere la natura pratica, operativa, della scienza. Questo nuovo elemento introdotto riguarda il concetto di verità, che si suggerisce debba essere sostituito con il concetto di affidabilità[10]. Tale nuovo concetto, tuttavia, non è lo stesso di cui si parla in epistemologia, poiché per affidabile si intende piuttosto la semplice garanzia che da tali conoscenze si possano ricavare previsioni corrette[11]. Il concetto di verità inteso in questo modo ci permette di liquidare molte delle obiezioni che potrebbero nascere se si giudicasse la meccanica quantistica a partire dalle nostre intuizioni o dalla comprensione di senso comune che abbiamo del mondo. Infatti la meccanica quantistica, come quasi ogni teoria fisica contemporanea, sembra inconciliabile con la nostra esperienza della realtà.[12] Ma funziona in un senso molto specifico, ovvero ci permette di fare previsioni enormemente raffinate, in grado di spiegare molto di ciò che accade a livello subatomico (e anche del perché, per esempio, un fotone può attraversare i muri, mentre la nostra mano no). Dopo la spiegazione di macro e microcosmo, ecco che fa capolino la vita. Tutto ciò che si è detto, è questo il filo rosso dell’intero libro, è il risultato di una conoscenza non solo pratica, fatta di errori ed esperimenti, ma anche di tipo relazionale. Ovvero, ha a che fare con gli altri, con gli altri corpi e con le altre intelligenze (dualismo che non riflette una presa di posizione in filosofia della mente, poiché non si crede che la mente sia qualcosa che trascenda il corpo). Nelle parole di Boncinelli ed Ereditato: «La nostra mente razionale – non da sola perché nessun individuo avrebbe potuto individualmente mettere insieme questa conoscenza – utilizza un complesso di persone le quali si correggono a vicenda»[13]. Ma questi corpi (e questi cervelli) hanno delle dimensioni irrisorie rispetto all’Universo e sono ridicolmente grandi rispetto al microcosmo. Perché? Sembra che la vita sia un trade-off, ovvero una chiave, tra microcosmo e macrocosmo. La vita, si dice, «può esistere soltanto a cavallo dello spartiacque fra microcosmo e macrocosmo» e questo perché le cose troppo piccole «non possono avere una struttura deterministica. Non si può decidere di camminare in una direzione precisa […] se si è troppo vicini al dominio delle incertezze quantistiche tipiche del microcosmo»[14]; mentre le cose troppo grandi non godono di un buon grado di libertà, come invece accade nel mondo quantistico.[15] Siamo dunque vincolati al grado di libertà necessario per le nostre cellule, che risultano essere davvero il centro della vita.

Questa vita ha come protagonista indiscusso non l’uomo come organismo concluso, bensì le molecole, e in particolare quelle che, evolvendosi casualmente, hanno iniziato a duplicarsi. I replicatori sono sempre stati imperfetti, nel senso che potevano duplicarsi solo accumulando piccole e grandi variazioni casuali di generazione in generazione. Tali molecole hanno creato dei conglomerati, le cellule, che hanno riempito la Terra e costituiscono il nostro corpo insieme alla flora batterica, ovvero la popolazione di cellule batteriche che vivono e permettono al nostro organismo di mantenere un equilibrio simbiotico. Queste cellule, tuttavia, non sono interessanti solo per la loro struttura, ma anche per il loro contenuto, l’informazione genetica, necessaria per specificare le caratteristiche biologiche di una data cellula e del suo organismo, e affidata a un nastro molecolare di DNA o RNA che trasporta l’informazione in modo digitale, attraverso un alfabeto di quattro lettere-basi azotate, e lineare, poiché si legge linearmente. Il nostro genoma è costituito proprio da porzioni di DNA contigue (i geni), il cui compito è quello di sintetizzare differenti proteine; e un replicatore biologico non può dirsi tale senza informazione genetica[16].

A questo punto il testo affronta il nodo principale, la scoperta cardine, alla base della tesi di questo agevole saggio: la teoria dell’evoluzione, meglio definita con il termine originale di «trasmutazione» delle specie. Tale teoria si deve, come è noto, a Darwin e al suo L’origine della specie (1859), che incontrò moltissima resistenza dentro e fuori dalla comunità scientifica. Si trattava di una teoria che, nelle parole del cardinale Manning, incarnava una filosofia barbara, che negava l’esistenza di Dio[17]. Nonostante tutto riuscì a fare breccia. Tale teoria permetteva infatti di comprendere come potessero convivere cambiamenti casuali dovuti a errori di replicazione e sopravvivenza di alcune specie invece che di altre. Non sostituzione di specie ad altre, poiché non si tratta di un processo di natura progressiva ed evolutiva nel significato che siamo abituati a dare a questo termine (forse sulla scorta della sociologia positivista e non della lettura diretta dell’opera darwiniana); bensì, sopravvivenza delle più adatte. Giudice è l’ambiente circostante, che permette di mettere, in un certo senso, ordine all’enorme varietà di individui che vengono introdotti nel mondo a ogni generazione. Non tutti, infatti, possono sopravvivere e l’estinzione delle specie, per questo motivo, non è una disgrazia (tranne quando è l’uomo a provocarla), poiché si tratta di un processo di selezione impersonale (conclusione che, ci verrebbe da dire sulla scorta dell’ultimo Leopardi, stempera la crudeltà nell’indifferenza, anche se non la percezione di essa).

Infine, all’interno del discorso sull’evoluzione della specie, si inserisce non solo l’origine biologica, ma anche il marcatore culturale attraverso cui l’evoluzione ha accelerato il suo processo di trasformazione rispetto al sostrato materiale e fisiologico. In effetti un individuo di 3 milioni di anni fa non differisce molto da uno di 2 milioni di anni fa sul piano biologico, tuttavia la differenza sostanziale tra loro è la presenza di uno strumento. La produzione di un utensile permette di sostanziare intenzioni e scopi, di renderli praticabili nella realtà. Così l’uomo impara a conoscere se stesso creandosi gli strumenti per sopperire alle proprie mancanze, per crearsi autonomia e protezione rispetto alle avversità della vita. Così l’uomo, più che animale intelligente (e lo è, anche se mediamente), può essere definito un essere ingegnoso, un produttore di strumenti[18]. È anzi probabile che lo sviluppo della nostra massa cerebrale dipenda proprio dalla stimolazione conseguente all’uso sempre più raffinato di strumenti e ai sistemi di comunicazione sociale. Tale comunicazione è possibile grazie al linguaggio che, a differenza degli altri animali, ci caratterizza come interlocutori anche di ciò che non è alla portata dei nostri sensi. Il linguaggio infatti, al di là della pura percezione, non serve per indicare (lo aveva già capito Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extra-morale, 1873), ma può esprimere, grazie a un alto livello di simbolizzazione, ciò che definiamo pensiero. Purtroppo la discussione su questo tema viene troncata da una troppa frettolosa vena riduzionistica, che fa coincidere il pensiero con nient’altro che un modo di reagire agli stimoli dell’ambiente circostante, quasi fosse una «azione in prova»[19] (rimandando, probabilmente, anche ai recenti studi sull’embodied cognition, ma solo volendo essere charitable verso questo brevissimo paragrafo, a dispetto del giudizio sommario dei due autori)[20].

Nel complesso questo saggio permette di avere un quadro generale dello stato dei lavori in campo scientifico, sia sul versante dell’infinitamente grande e piccolo, sia su quello dell’uomo, aiutando a far luce su teorie spesso difficilmente affrontabili dai non addetti ai lavori, aiutati anche dalla direzione teorica del testo, che ci permette di apprezzare i meriti delle nostre intelligenze ingegnose. E questo costituisce sicuramente il merito maggiore del testo, insieme all’invito a essere noi stessi scienziati, quindi umili e interessati, capaci di sorprenderci e di rispondere a questa sorpresa (quindi forse, come avrebbe voluto Aristotele, anche filosofi?), guardando la natura «con occhi vergini quali quelli di un bambino curioso che rifiuti la raccomandazione degli adulti a essere saggio»[21].


[1] Francesco Bacone, Scritti filosofici, Paolo Rossi (a cura di), UTET, Torino 1975, p. 389.

[2] Edoardo Boncinelli e Antonio Ereditato, Il cosmo della mente. Breve storia di come l’uomo ha creato l’Universo, il Saggiatore, Milano 2018, p. 11.

[3] A titolo di esempio, Hasok Chang, Presentist History for Pluralist Science, «Journal for General Philosophy of Science», 2020, 52, pp. 97-114.

[4] Boncinelli e Ereditato, Il cosmo della mente, op. cit., p. 25.

[5] Ivi, p. 9.

[6] Ivi, p. 17.

[7] Ivi, p. 23.

[8] Ivi, p. 33.

[9] Ivi, p. 41.

[10] Ivi, p. 47.

[11] Per un’introduzione alla concezione affidabilista della conoscenza, che viaggia parallelamente al concetto di verità e non la sostituisce, si veda Tommaso Piazza, Che cos’è la conoscenza?, Carrocci, Roma 2017.

[12] Si veda a tal proposito Richard Feynman, QED, Adelphi, Milano 1989.

[13] Boncinelli/Ereditato, Il cosmo della mente, op. cit., p. 50.

[14] Ivi, p. 51.

[15] Ivi, p. 52.

[16] Ivi, pp. 101-107.

[17] Marco Beretta, Storia materiale della scienza, Carrocci, Roma 2017, p. 117.

[18] Boncinelli e Ereditato, Il cosmo della mente, op. cit.: 129.

[19] Ivi, p. 138.

[20] Si veda Fausto Curuana e Anna Borghi, Il cervello in azione, il Mulino, Bologna 2016.

[21] Boncinelli e Ereditato, Il cosmo della mente, op. cit., p. 182.

Scritto da
Riccardo Canaletti

Nato nel 1998 nelle Marche, ha pubblicato vari libri di poesia (“La perizia della doccia”, affinità elettive 2017; “Sponde”, Arcipelago Itaca 2019, Premio Pordenonelegge 2020; “Trascurabile oblio”, in traduzione russa, per la casa editrice Free Poetry nel 2019). Suoi testi sono apparsi in vari lit-blog italiani come «Interno Poesia» e «Poetarum Silva». Alcuni suoi articoli sono stati pubblicati su «Carmilla Online», «Nazione Indiana», «Nuovi Argomenti», «Argo», «Nuova Ciminiera» e «Yawp» e «Marxismo Oggi» . Nel 2020 ha pubblicato un contributo sui rapporti tra poesia e presente nel questionario a cura di Giorgiomaria Cornelio, uscito per la casa editrice Argo, "La radice dell'inchiostro". Studia Scienze filosofiche all’Università di Bologna, dopo aver conseguito la laurea Triennale in Filosofia del linguaggio.

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