Scritto da Giacomo Bottos
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Il ruolo delle città e le possibili evoluzioni degli ecosistemi cittadini sono questioni chiave che – intrecciando economia, tecnologia, demografia e innovazione culturale – daranno forma alle nostre società. In questa intervista Paolo Verri – manager culturale, urban practitioner e docente universitario – affronta alcune delle grandi sfide poste dal “secolo urbano” che abbiamo davanti a partire dal suo ultimo libro Il paradosso urbano. Nove città in cerca di futuro (Egea Editore 2022) dedicato alle peculiari esperienze di Barcellona, Torino, Pittsburgh, Lione, Milano, Istanbul, Tokyo, Wrocław e Matera.
Per iniziare le chiederei come è nata l’idea di questo libro. Quali esperienze nel suo percorso professionale sono state maggiormente significative per la stesura de Il paradosso urbano?
Paolo Verri: Il libro, secondo l’idea originaria, doveva essere interamente dedicato a Torino. Pensavo di scrivere un pamphlet su ciò che era accaduto dal 1998 al 2008, e su come nel 2008 una trasformazione urbana poderosa si fosse interrotta. A partire da questo avrei tratto alcuni insegnamenti su come progettare una strategia urbana condivisa, e su ciò che accade quando una strategia di questo tipo conosce una battuta d’arresto. Sono torinese, anche se ho studiato a Milano, laureandomi all’Università Cattolica con una tesi sulla relazione tra cultura, letteratura e televisione dal titolo Libri e televisione: una storia difficile. L’editoria è stata per dieci anni la mia professione, sono stato anche Direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino, dal 1993 al 1997, e Direttore della comunicazione dell’Associazione Italiana Editori. Un anno significativo per il mio percorso è stato il 1998, quando l’allora sindaco di Torino Valentino Castellani – che aveva costruito un gruppo ricco e variegato di figure professionali, esperti e giovani per promuovere il rilancio della città dopo la crisi degli anni Ottanta – ritenne di coinvolgermi, chiedendomi di far parte di questa task force. In quel momento lavoravo a Milano. A Torino, in una prima fase mi occupai di alcuni eventi e progetti specifici, come la manifestazione artistico-culturale Luci d’Artista, il progetto di rilancio dei Murazzi e la comunicazione di Porta Palazzo, che si voleva rilanciare come modello di grande mercato open air europeo, come luogo di melting pot. Successivamente mi è stato chiesto di occuparmi di un lavoro di studio, esaminando i casi di alcune città europee che potevano essere paragonate a Torino ed essere interessanti per progettare il futuro della città. Mi sono occupato in particolare di Barcellona, Bilbao, Stoccolma, Glasgow e Monaco di Baviera. Sono quindi diventato il responsabile del Piano Strategico della Città, incarico che ho ricoperto dal 2000 al 2006. Dal 2004 ho avuto anche la responsabilità della Fondazione Atrium, che supportava la partecipazione dei cittadini agli eventi olimpici. Le Olimpiadi invernali sono state, ovviamente, un tassello fondamentale della trasformazione della città. Inizialmente erano solo un progetto, che poi si è concretizzato in un evento che ha accelerato enormemente la trasformazione urbana, forse in maniera persino troppo veloce. Quando è stata presentata la candidatura di Torino, sulla falsariga dell’esperienza di Barcellona, l’aspettativa era che ci si sarebbe potuti aggiudicare l’edizione del 2010 – è difficile che una città ottenga l’organizzazione dell’evento al primo tentativo. Invece Torino, a sorpresa, si aggiudicò l’edizione del 2006. Questo ha portato ad un’accelerazione enorme e come dicevo, con il senno di poi, forse troppo improvvisa. I problemi principali non sono stati sul fronte finanziario, tanto che la città ha speso meno rispetto al budget ipotizzato al momento della candidatura. Non si è però riusciti, forse, ad esprimere tutta la qualità urbana che sarebbe stata immaginabile, perché le competenze disponibili, in un contesto che per questo genere di eventi restava in parte provinciale, erano limitate. Parliamo, ad ogni modo, di un’occasione straordinaria per la città. Successivamente, dal 2007 al 2011 mi sono occupato dell’organizzazione delle celebrazioni per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia. Ho avuto la fortuna di poter scegliere, come luogo emblematico per il racconto dell’anniversario, le OGR – Officine Grandi Riparazioni –, che erano state riaperte e riportate all’uso della città nel 2008. Quello fu un vero anno di svolta, segnato dai tragici eventi della ThyssenKrupp e dalla grande crisi globale. In quel frangente storico i progetti di Sergio Marchionne relativamente alla FIAT presero una direzione diversa, meno innovativa e più conservatrice, rispetto all’impostazione dei primi anni. Si percepiva un cambiamento della situazione complessiva. Anche gli stessi eventi del 150° dell’Unità d’Italia sono stati considerati per certi aspetti come una forzatura, piuttosto che come l’occasione di completare un processo di sviluppo urbano. A questo proposito già alla fine del 2011 avevo raccolto alcuni appunti su Torino, anche tracciando un confronto con altri casi europei. Nel frattempo, avevo iniziato a lavorare per Matera. Feci così esperienza di una situazione completamente diversa, passando da una grande città ad un piccolo centro del Sud. È stata un’esperienza per me straordinaria che mi ha tenuto occupato per dieci anni, dal 2011 al 2020 e che ha portato come suo momento culminante a Matera 2019 Capitale europea della cultura. In quegli anni ho potuto confrontarmi con grandi città come Pittsburgh, Barcellona, Lione. In seguito, mi sono dedicato anche ad altre realtà, come Wrocław, Tokyo, Istanbul. Essendomi soffermato nel mio lavoro e nelle mie ricerche su un panorama così variegato e consistente a livello mondiale ho infine pensato che, piuttosto che concentrarmi solo su Torino, sarebbe stato più interessante impostare un discorso trasversale, a partire dall’analisi di casi diversi di città che affrontano una crisi, che intendono risolverla e a questo fine mettono in campo delle strategie, pur consapevoli che la strada del rinnovamento urbano non finisce mai. È come la tela di Penelope.
Alla base del libro c’è una forte convinzione relativa alla centralità delle città nello sviluppo globale. Quali sono gli elementi alla base di questa centralità? È un fenomeno che persisterà anche in futuro?
Paolo Verri: Assolutamente sì. Non abbiamo nessun elemento per ritenere di stare assistendo, come alcuni sostengono, alla conclusione di un ‘secolo urbano’. Da una decina d’anni la maggioranza della popolazione mondiale vive in aree urbane dense. In Africa e in Asia questo trend è in aumento, e anche in Europa non assistiamo, nonostante tutto, ad un’inversione di tendenza. Oggi, inoltre, tra queste aree si creano connessioni sempre più fitte e veloci. La voglia di abitare in aree ricche di opportunità è fortissima. Quando i giovani vengono intervistati, esprimono il desiderio di abitare a Parigi, Londra, Berlino, Shangai, New York, Los Angeles, aree dove vi sono vivacità intellettuale, opportunità e scambi che solo i grandi contesti urbani possono offrire. Certo, può accadere che persone e gruppi, con il passare degli anni, raggiunta la maturità e dopo aver fatto esperienze diverse, decidano di intraprendere percorsi di downsizing anche a livello lavorativo e di trasferirsi nelle aree rurali o nelle aree montane. Sono esperienze interessanti, che dobbiamo assolutamente promuovere, perché solo venendo abitate le aree interne possono rinascere. Tuttavia, non vedo segni che lo straordinario interesse per le città possa venire meno. Peraltro, è estremamente istruttivo osservare le dinamiche tra le diverse realtà urbane, talvolta più interessanti di quelle tra Stati. Molte persone scelgono di trasferirsi in un’area urbana, considerandola di per sé attrattiva, spesso a prescindere dall’attrattività generale dello Stato in cui essa è inserita. Esistono reti di città appartenenti a Stati diversi e magari talvolta tra loro in conflitto, non soltanto nel senso ora drammaticamente attuale della guerra, ma anche dal punto di vista economico o delle visioni politiche. Tuttavia, queste città riescono a lavorare e a sviluppare progetti insieme. La città è l’unità minima dello sviluppo socioeconomico, nella quale ci troviamo in primo luogo inseriti e con la quale abbiamo più familiarità e confidenza, e ciò rappresenta un aspetto determinante.
Molte delle città analizzate nel libro si sono dovute confrontare con il problema della riconversione rispetto a un passato post-fordista. Quali sono i fattori che, sulla base della sua ricerca, possono determinare o meno una transizione efficace?
Paolo Verri: Sicuramente l’ingrediente fondamentale è una buona governance. È necessario, per lo sviluppo urbano, che i soggetti e le persone che possono attivare le leve dello sviluppo, a livello pubblico e privato, si incontrino e condividano un piano congiunto di medio periodo. È quella che nel Regno Unito e negli Stati Uniti si chiama public-private partnership ed è un elemento fondamentale, la precondizione di un cambiamento efficace. Non è una condizione sufficiente, ma sicuramente è necessaria. Occorre poi sottolineare che quanto più questa collaborazione avviene in forma aperta e permeabile, tanto più i livelli di successo sono alti e diffusi. Se i gruppi di potere pubblici e privati sono ristretti, asfittici e autoreferenziali, il beneficio per la comunità si riduce a quanto direttamente prodotto e implementato da tali gruppi. Se viceversa questi gruppi di potere operano in maniera permeabile, sapendo essere dei gangli vitali, dei “tralci di vite” – per riecheggiare la parabola evangelica –, quanto più sanno aggregare diverse comunità, tanto più lo sviluppo sarà variegato e quindi di lunga durata. Se l’oggetto dell’accordo verte su un unico progetto e questo progetto fallisce, la crisi permarrà. Se invece una certa comunità riesce a elaborare, in risposta ai problemi rilevati, svariati progetti, le possibilità di successo sono evidentemente molto maggiori. Il problema con cui ci confrontiamo è quello di costruire uno spazio di ricerca e sviluppo permanente di un’area urbana. Questo è, in fondo, il suggerimento del libro. Certo, occorre un lavoro permanente sui problemi posti dalla quotidianità. Ma il vero sviluppo urbano richiede che vi sia un gruppo di progettazione permanente, con un alto grado di ricambio ma nel quale persone diverse vadano a ricoprire le medesime funzioni, che sappia discernere le sfide che si profilano e riorientare il presente rispetto al futuro. Si pensa spesso che i problemi centrali delle città si riducano alla sistemazione delle strade, alla nettezza urbana e all’efficacia dei trasporti pubblici – cosa certamente vera –, ma oltre a questi compiti che attengono all’ordinario, il vero fattore distintivo riguarda il riposizionamento continuo della comunità rispetto alle sfide che il futuro pone alla città.
Un altro elemento su cui il libro si sofferma, anche a partire dalla sua esperienza professionale, è il ruolo dei grandi eventi, e della loro capacità di promuovere trasformazioni urbane di lungo periodo. Quali sono le condizioni perché gli eventi possano diventare un volano per questi cambiamenti e cosa fa la differenza tra un caso di successo e un’opportunità mancata?
Paolo Verri: Gli eventi sono importantissimi, anche se talvolta chi, come me, se ne occupa professionalmente, finisce per essere stanco del termine “eventi”. Ma allora è bene rifarsi alle parole di un grande fisico e intellettuale italiano come Carlo Rovelli, uno dei principali studiosi a livello mondiale della materia che compone il mondo, che sottolinea come gli eventi siano fondamentali nella storia del pianeta. La presenza di occasioni che consentano di fissare il cambiamento è necessaria per le comunità, è un bisogno intrinseco alla vita dell’uomo, dalle origini ad oggi. Perché gli eventi sono così importanti? Innanzitutto, perché fissano dei limiti spazio-temporali, che spesso le comunità da sole non riescono a darsi. La decisione di svolgere determinate attività, in determinati luoghi, entro date precise, sulla base di accordi, è fondamentale, specialmente nelle città del mondo di origine latina. Essendo meno pragmatici, più burocratici, abbiamo la necessità che vi sia qualcuno o qualcosa che ci costringa a raggiungere un determinato obiettivo entro una certa data. Quali sono le condizioni di successo di un evento? Occorre che non sia fine a se stesso, che non venga posto come l’obiettivo finale, ma come lo strumento con cui illuminare una trasformazione o con cui aprire una nuova fase nella storia di una comunità. Questo si vede in modo emblematico nel primo caso raccontato nel libro, quello di Barcellona, per la quale le Olimpiadi non erano un fine, ma lo strumento con cui Barcellona avrebbe potuto affermarsi come città globale in quanto tale e non dipendente da Madrid, dalla Spagna o dall’Europa. Si voleva immaginare la città come una vera piattaforma, nella quale i giovani potessero incontrarsi e considerarla anche come propria. Quale occasione migliore per fare ciò di un grande evento sportivo, con le delegazioni che arrivavano da tutto il mondo, in un momento in cui si era reduci dalla caduta del Muro e stava nascendo un’idea nuova di Europa? C’era bisogno di una città emblematica, che rappresentasse tutto questo. Quando un evento del genere, invece che essere uno strumento, diventa il fine stesso che permette ai gruppi di potere di autocelebrarsi, come è successo con le Olimpiadi di Atene 2004, allora l’impatto rischia di essere ridotto o addirittura negativo. In generale gli eventi sono oggi assolutamente necessari: le città, infatti, competono sempre di più, sia a livello nazionale che globale, per aggiudicarsi opportunità, darsi delle tempistiche e degli obiettivi condivisi da raggiungere. Contemporaneamente, sono necessarie professionalità che non sono scontate e che vanno sempre replicate e non lasciate disperdere. Servono dei pianificatori in grado di strutturare il futuro della città, in grado di far sì che l’evento non sia l’obiettivo finale, ma lo strumento per rendere visibile un’idea di città concepita e condivisa precedentemente.
Abbiamo parlato di sistemi di governance. Possiamo fare qualche esempio di modello efficace, partendo dai casi analizzati del libro?
Paolo Verri: Il modello migliore è senza dubbio quello del Piano Strategico di Barcellona, non concepito peraltro con grande anticipo rispetto all’evento: il Piano è stato lanciato nel 1990 quando ormai da quattro anni si sapeva che nel 1992 si sarebbero realizzate le Olimpiadi. Il Piano nasce dalla consapevolezza che la gestione architettonica e ingegneristica della trasformazione non bastava, ma che bisognava agire anche sul versante della trasformazione sociale, che va anch’essa gestita sulla base di una progettazione sistematica e razionale. È bene peraltro ricordare che il termine Piano Strategico deriva proprio dall’ambito della pianificazione economica. L’esempio di Barcellona è stato molto seguito a livello europeo. Per quanto riguarda invece gli esempi extraeuropei, e in particolare nordamericani, la vicenda è in parte diversa. Il caso di Pittsburgh, ad esempio, è interessantissimo e potrebbe essere preso a modello, ad esempio, per una città come Taranto. Il sindaco, che proveniva da una storia operaia interna alla vicenda delle grandi acciaierie, ha saputo trarre vantaggio dall’intelligenza di alcuni grandi imprenditori privati, che avevano compreso che la loro storia doveva prendere una direzione diversa. Hanno iniziato a reinvestire i propri margini non nell’acciaio, ma nella ricerca medico-scientifica. Si è così dato vita ad un’esperienza unica come quella della Carnegie Mellon University. Si è anche creata una struttura peculiare – di cui non c’è un equivalente in Italia –, incaricata di individuare ogni settimana le persone che arrivavano in città, organizzando occasioni di colloquio con gli abitanti. La possibilità di apprendere da ciò che avviene nelle altre città è fondamentale per la governance. A differenza di ciò che si pensa spesso – soprattutto nel nostro Paese, dove c’è molto provincialismo – i casi a livello nazionale e internazionale si somigliano molto. Le storie delle comunità sono vicine tra di loro. Si può ricordare quanto scriveva Tolstoj in Anna Karenina: i casi virtuosi, come le famiglie felici, si somigliano. In conclusione, voglio sottolineare ancora che il segreto di una buona governance è un equilibrio efficace tra pubblico e privato, obiettivo molto difficile da raggiungere in Italia.
Che cosa intende con il concetto di smart community, su cui si sofferma nell’introduzione del libro?
Paolo Verri: È un concetto che metto volutamente in contrapposizione con quello di smart city, volendo sottolineare la centralità dei cittadini. Se i cittadini non sono consapevoli delle opportunità, non sono coinvolti, non sono partecipi, la trasformazione non si può innescare o comunque non ha valore. La trasformazione non può essere realizzata da tecnocrati che la disegnano e la impongono ai cittadini. Vive dell’azione dei cittadini stessi, del loro impegno affinché la città si sviluppi in una certa direzione. Questi devono quindi essere messi nelle condizioni di discutere dei valori e degli obiettivi. I cittadini non sono esperti di città, spetta alle persone con compiti direzionali a livello pubblico e privato illustrare le tendenze generali e proporre alcune direzioni, chiedendo ai cittadini se sono d’accordo e proponendo loro di collaborare. È in questo modo che si costruiscono le smart community, che sono capaci di dare vita a progetti di medio periodo per cambiare l’orizzonte della città da un punto di vista sostanziale e non formale.
Quali sono le principali lezioni che, a suo avviso, si possono apprendere dai casi che ha raccontato nel libro? Quali indicazioni e suggerimenti si possono ricavare?
Paolo Verri: Nessuna città può sentirsi al sicuro rispetto alla necessità di progettare lo sviluppo e nessuna città deve pensare di non potercela fare. C’è un messaggio di grande speranza: ciascuna città, indipendentemente dalla sua dimensione e dal momento che sta vivendo, se la collettività è capace di individuare punti di forza e di debolezza, può risorgere e assumere un nuovo ruolo nel futuro. Questo vale anche per le città piccole e piccolissime. Viceversa, anche le città più grandi non possono ritenersi esenti da eventuali crisi, anche nei momenti in cui si sentono più forti. Il caso di Barcellona è emblematico. Anche se pochi ancora lo capiscono, oggi Barcellona si trova in un momento di grandissima crisi perché il costo delle case è troppo alto, i giovani non restano a lungo, l’identità della città rispetto al resto del territorio ha perso la sua definizione e all’interno delle stesse comunità politiche non è presente una volontà di convergenza rispetto alla costruzione di un’immagine della città. Questa città, che è stata in positivo un modello per l’Europa, oggi rischia di rappresentare un esempio negativo: un luogo troppo caro, con troppi turisti, con una frammentazione politica che rende impossibile una progettualità comune di medio periodo, se non a prezzo di durissimi contrasti. Ribadisco, dunque, che chi è in condizioni difficili può sempre trovare un modo per risorgere, chi è in una situazione apparentemente positiva – come scrive Erodoto in una citazione riportata all’inizio del libro – può in ogni momento fallire e non avere più il ruolo che aveva ricoperto per moltissimo tempo. Ricordo ancora il caso di una città emblematica a livello nazionale, Taranto, che negli anni Cinquanta e Sessanta era considerata il punto d’arrivo del Grand Tour e che è stata connotata da un forte sviluppo industriale. Questo punto di forza ha però distrutto a poco a poco la città. Oggi Taranto è fra le città da far risorgere e su cui va basata la nuova Italia.
Per concludere, quali pensa siano le nuove sfide per le città, nel presente o nel prossimo futuro?
Paolo Verri: A livello globale c’è un assoluto divario tra le città dove, da un punto di vista demografico, sono più numerosi i giovani e quelle dove invece prevalgono gli anziani. Se c’è una sfida globale è quella dell’intergenerazionalità. Ho cercato di sottolinearlo con la storia di Tokyo. Pur avendo un numero enorme di abitanti – una città che da sola conta un terzo degli abitanti dell’Italia intera – e una grandissima diversità interna, in quanto ogni suo sobborgo cura la propria identità, Tokyo ha individuato un unico problema come cruciale: quello appunto dell’intergenerazionalità, della relazione tra i giovani e gli anziani. Si tratta da un lato di far sì che i giovani abbiano la percezione del valore che gli anziani rappresentano in quanto portatori della ricchezza della tradizione e dei saperi, dall’altro di spingere affinché gli anziani diano fiducia ai giovani, investendo parte delle risorse accantonate per garantire un futuro alle nuove generazioni. È un esempio meraviglioso, innanzitutto per la capacità, da parte di una città così grande, di scegliere un unico problema come sfida centrale. Molto spesso in Italia cerchiamo di risolvere tutti i problemi. Invece, per “sollevare il mondo”, dobbiamo partire da un singolo punto, a partire dal quale identificare le soluzioni complessive.