Il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale. Intervista a Daniela Freddi
- 14 Giugno 2025

Il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale. Intervista a Daniela Freddi

Scritto da Giacomo Bottos

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Daniela Freddi è Responsabile del Piano per l’Economia Sociale Città Metropolitana di Bologna.


Da dove è scaturita l’idea di realizzare un Piano Metropolitano per l’Economia Sociale? Come è nato questo percorso?

Daniela Freddi: Il contesto in cui tutto è iniziato era profondamente diverso da quello attuale. L’avvio a Bologna risale all’ottobre 2022, con un’iniziativa promossa dal Ministero del Lavoro, allora guidato da Andrea Orlando, in una fase ormai conclusiva del suo mandato. Quel momento si collocava a poca distanza dal dicembre 2021, quando era stato lanciato il Piano d’Azione Europeo per l’Economia Sociale. Era una fase di rinnovamento, segnata da più coincidenze significative: il rilancio europeo con il programma Next Generation EU, centrato fortemente sul pilastro sociale e sulla coesione, e l’inizio di un nuovo ciclo amministrativo a Bologna, con l’elezione del Sindaco e della nuova Giunta, anche metropolitana. Si trattava quindi di un momento fertile, in cui le novità europee e locali si intrecciavano, aprendo spazi per un ripensamento delle politiche territoriali. In questo contesto è nato il tentativo di allineare le strategie locali alla visione europea dell’economia sociale, traducendola e adattandola al territorio. L’iniziativa di ottobre 2022 è stata una tre giorni molto articolata, a cui hanno partecipato non solo il Ministro, ma anche il Commissario europeo Nicolas Schmit, tra i principali promotori del Piano europeo. Da lì è cominciato il nostro percorso.

Oggi può sembrare quasi scontato, ma allora non lo era affatto, perché c’era una vera e propria “grammatica” da costruire. Alcuni attori si riconoscevano già nell’economia sociale, mentre altri – pur inclusi nel perimetro indicato dal Piano europeo – non si identificavano con quella definizione. Questo lavoro di costruzione del linguaggio comune è stato uno dei primi e più importanti passaggi. In questi tre anni sono stati fatti significativi progressi, ma all’epoca era tutto da inventare. Abbiamo quindi dovuto muoverci su due livelli: da un lato, costruire questa grammatica condivisa, portando sul territorio la visione europea, coinvolgendo gli attori locali e favorendo un’adesione consapevole al progetto. Non poteva essere un’imposizione dall’alto, perché era necessario che i soggetti si riconoscessero in questa nuova cornice, più ampia rispetto alla tradizionale idea di Terzo settore, cooperative sociali o cooperazione. Si trattava di definire un nuovo perimetro, che potesse diventare il motore del processo, a partire però da un riconoscimento reciproco e dalla creazione di sinergie efficaci. Il secondo livello riguardava l’individuazione degli ambiti territoriali su cui l’economia sociale potesse agire in modo programmatico. Da lì si è avviato un vero e proprio percorso di co-design delle politiche, profondamente partecipativo, durato due anni. Un tempo necessario per costruire non solo un linguaggio comune, ma anche le alleanze e la condivisione di visione indispensabili per dare concretezza a questo progetto.

 

Come si è sviluppato il processo partecipativo? Quali sono state le tappe principali, chi avete coinvolto e quale metodo avete seguito?

Daniela Freddi: All’inizio abbiamo incontrato tutti i soggetti che, secondo il Piano d’Azione Europeo, rientrano nel perimetro dell’economia sociale: le organizzazioni di rappresentanza della cooperazione, del Terzo settore, del volontariato, alcune fondazioni. Questo insieme costituiva il nucleo primario da cui partire. L’interlocuzione si è avviata su una nuova visione, e credo di poter dire, senza esagerare, che siamo stati noi – come pubblica amministrazione – a stimolare queste realtà, portando una proposta che non era pienamente condivisa da tutti fin dall’inizio. Alcuni attori hanno accolto con entusiasmo il cambiamento, altri hanno avuto bisogno di tempo per comprendere e posizionarsi rispetto a questa prospettiva. E il lavoro è ancora in corso. A questi incontri abbiamo poi affiancato momenti di ascolto diretto con cooperative, associazioni, realtà del volontariato. Non solo rappresentanza, quindi, ma anche esperienza concreta: abbiamo visitato le sedi, ascoltato da vicino le persone, cercato di capire punti di forza e criticità del loro lavoro quotidiano. Volevamo sapere da loro cosa fosse davvero necessario per far evolvere il sistema in una logica di economia sociale. Parallelamente, è stato fondamentale coinvolgere le amministrazioni locali. Si tratta, ricordiamolo, di un Piano metropolitano che interessa ben 55 comuni. Abbiamo quindi lavorato con sindaci, sindache e unioni dei comuni per condividere la visione, spiegare perché e come potesse riguardarli direttamente e, soprattutto, come costruire insieme un programma coerente e utile. Anche con loro abbiamo organizzato momenti di confronto, per presentare l’approccio e ragionare su come adattarlo alle specificità locali.

Due fasi importanti di questo percorso sono state, in seguito, quella seminariale e quella legata al dialogo con il mondo economico più ampio. I seminari sono stati occasioni di approfondimento e confronto su temi centrali del Piano, come l’amministrazione condivisa, la qualità del lavoro nei settori sociale e educativo, la finanza per l’economia sociale. Quest’ultimo punto, in particolare, ha sottolineato quanto sia cruciale il coinvolgimento del mondo del credito, non solo come strumento di sostegno ma come vero partner strategico. Infine, abbiamo dedicato una giornata di lavoro alle sinergie tra economia sociale e settore for profit. È stato un momento significativo, perché spesso una delle prime questioni che emergono parlando di economia sociale riguarda proprio il perimetro. Abbiamo scelto, in linea con il piano europeo, di riconoscere la centralità delle organizzazioni proprie dell’economia sociale – cooperative, imprese sociali, associazioni, fondazioni – ma anche di allargare lo sguardo, perché crediamo che l’economia sociale sia un campo potenzialmente molto più vasto. Questa apertura ha portato con sé la necessità di promuovere lo sviluppo di economie sociali in specifici ambiti del territorio metropolitano. Uno degli elementi di forza del nostro territorio è proprio la presenza di un tessuto ricco e dinamico, ma anche di una cultura di concertazione nelle politiche pubbliche. Il Patto per il Lavoro e lo Sviluppo Sostenibile a livello metropolitano rappresenta un esempio chiaro di questo approccio. Non a caso, anche il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale è stato discusso con tutti gli attori economici del territorio.

 

Che bilancio può essere fatto di questo confronto? Ci sono state difficoltà?

Daniela Freddi: Il confronto non è sempre stato semplice. In particolare, le organizzazioni sindacali territoriali hanno espresso – e in parte continuano a esprimere – forti perplessità. Non tanto rispetto al valore complessivo dell’economia sociale, quanto per il timore che una sua espansione, soprattutto in partnership con la pubblica amministrazione, possa tradursi in un arretramento del servizio pubblico a favore del privato sociale. Un rischio che le sigle sindacali, legittimamente, vogliono scongiurare. Proprio da questo confronto è nato un protocollo che affronta esplicitamente questi nodi. Abbiamo voluto chiarire che investire sull’economia sociale non significa privatizzare o abbassare la qualità del lavoro, ma esattamente il contrario: significa creare spazi in cui l’economia sia al servizio delle persone e del territorio. Le tante possibilità offerte dall’amministrazione condivisa vanno proprio in questa direzione, rendendo possibile una regolazione chiara e condivisa del rapporto tra pubblico e organizzazioni sociali, nell’ottica di migliorare anche le condizioni di lavoro, in particolare nei settori sociali.

 

Arriviamo alla struttura del Piano. Come lo avete disegnato e come si articola?

Daniela Freddi: Nel disegnarlo siamo partiti dalle sfide che attraversano il nostro territorio, adottando uno sguardo ampio e proiettato sui prossimi dieci anni. Abbiamo cercato di leggere le trasformazioni in atto e di individuare quali siano, oggi e nel futuro prossimo, le questioni cruciali per la tenuta economica e, soprattutto, per la coesione sociale. L’idea di puntare sull’economia sociale è una scelta ambiziosa, che implica un cambiamento profondo nel funzionamento di alcuni meccanismi del sistema economico, sia in senso generale sia a livello territoriale. Per questo ci siamo chiesti da dove iniziare e la risposta è stata chiara: dalle sfide che il territorio sta affrontando. Ci tengo a sottolineare che il nostro obiettivo non era quello di costruire un Piano che intervenisse a valle, per correggere disfunzioni con misure tampone. Al contrario, abbiamo cercato di progettare un intervento capace di incidere in profondità, in un’ottica trasformativa e sistemica. Abbiamo quindi individuato quattro sfide principali, emerse anche grazie al confronto partecipato con gli attori locali.

La prima riguarda il tema dell’abitare: non solo la casa, ma il modo in cui si abita un territorio, connesso strettamente al welfare di prossimità. La seconda è legata alla qualità e al senso del lavoro e la terza al welfare di prossimità e all’educazione, pilastri essenziali per garantire sviluppo e inclusione. La quarta sfida tocca il turismo, ma inteso in una chiave di sostenibilità, come leva per valorizzare e rigenerare il territorio. Accanto a questi ambiti abbiamo definito anche tre missioni di carattere trasversale. Un’altra scelta importante, infatti, riguarda il perimetro di riferimento del Piano: abbiamo individuato un perimetro primario composto dalle organizzazioni dell’economia sociale – cooperative (non solo sociali), imprese sociali, associazioni, fondazioni e mutue. Ma abbiamo ritenuto fondamentale che questo nucleo dialogasse e interagisse sia con la pubblica amministrazione, sia con il settore for profit. Questo approccio si è tradotto nella costruzione di azioni politiche coerenti: da un lato, interventi mirati a rispondere alle quattro sfide territoriali; dall’altro, politiche trasversali pensate per rafforzare direttamente le organizzazioni dell’economia sociale. Parliamo di strumenti concreti, necessari per sostenere un ecosistema che, pur essendo già dinamico, ha bisogno di risorse, riconoscimento e accompagnamento per poter crescere e affrontare con efficacia le trasformazioni in corso.

 

Rispetto ai contenuti del Piano, tra i vari ambiti affrontati, quali sono i nodi particolarmente significativi?

Daniela Freddi: Tra le quattro sfide individuate, quella dell’abitare è senz’altro una delle più sentite, non solo a livello locale ma anche regionale, nazionale ed europeo. È un tema centrale, complesso, spesso critico, che interroga profondamente le nostre politiche. Naturalmente esistono già ambiti dell’amministrazione che se ne occupano in modo specifico, come dimostra il Piano per l’Abitare. Il Piano per l’Economia Sociale se ne occupa entrando in modo trasversale nelle politiche esistenti, offrendo un nuovo sguardo. In questo caso, significa adottare gli “occhiali” dell’economia sociale – una visione che mette al centro la qualità della vita, che promuove modelli di impresa a impatto sociale e che, soprattutto, non si muove in un’ottica estrattiva. Guardare una questione come quella dell’abitare con questi occhiali certamente non basta, ma è già un primo passo fondamentale. È facile, di fronte alle emergenze abitative, intervenire con soluzioni tampone. Ma il rischio è che, così facendo, si finisca per rafforzare ulteriormente i soggetti già forti, aggravando le disuguaglianze. Al contrario, l’approccio dell’economia sociale impone di chiedersi se una scelta pubblica contribuisca a ridurre o a incrementare le disuguaglianze. E questo dovrebbe essere un interrogativo costante in ogni decisione di politica locale. Una volta cambiato lo sguardo, servono poi anche azioni concrete. E il Piano le prevede con strumenti e interventi capaci di orientare la pubblica amministrazione verso nuove scelte, sostenute anche da una finanza diversa, più attenta all’impatto sociale. Prevede inoltre una collaborazione rinnovata tra economia sociale e for profit, come dicevo, per costruire risposte che tengano conto non solo dell’efficacia immediata, ma anche della coesione e della giustizia sociale.

 

Come funzionerà la governance del Piano?

Daniela Freddi: Abbiamo scelto una governance coerente con la sua visione e i suoi obiettivi trasformativi. Si tratta di una struttura a cerchi concentrici, pensata per sostenere un percorso a lungo termine e per favorire un cambiamento sistemico. Questo tipo di innovazione richiede un coinvolgimento ampio e profondo, non solo in termini di numero di soggetti, ma anche di apertura culturale. Tutti gli attori coinvolti devono accettare di mettersi in gioco, perché non è possibile affrontare una sfida di questo tipo rimanendo fermi sulle modalità organizzative del passato. Questo non significa rinunciare alla propria identità, ma essere disponibili a evolversi, a confrontarsi, a immaginare insieme soluzioni che ancora non esistono.

Nel cuore della governance c’è un primo cerchio, il più ristretto ma anche il più strategico. Qui siedono attorno allo stesso tavolo la componente pubblica – la Città Metropolitana, il Comune di Bologna, le Unioni dei Comuni e la Regione Emilia-Romagna – e, accanto a essa, le rappresentanze dell’economia sociale. È con queste ultime che si costruisce il lavoro quotidiano di progettazione, programmazione e convergenza. L’obiettivo è individuare ciò che già esiste, chi fa cosa e come mettere in rete le risposte da costruire attraverso le missioni del Piano. In un cerchio più ampio trovano posto tutti gli altri attori del sistema territoriale ed economico: il mondo dell’impresa for profit, le organizzazioni sindacali, le università, ANCI e altri soggetti pubblici e privati. Con loro il dialogo resta essenziale, perché la trasformazione che immaginiamo riguarda l’intero ecosistema. Solo così possiamo affrontare insieme sfide complesse e avviare un reale cambiamento condiviso.

 

E per quanto riguarda l’evoluzione futura del Piano, quali prospettive e sfide si profilano all’orizzonte?

Daniela Freddi: Parto da un dato critico. Come accennato all’inizio, l’elaborazione di questo Piano è stata fortemente ispirata dall’indirizzo europeo, che tre anni fa promuoveva con decisione l’economia sociale e il pilastro dei diritti sociali. Oggi, però, ci troviamo in un contesto radicalmente diverso. Con il cambio della Commissione Europea, questa visione si è notevolmente indebolita, e con essa anche l’attenzione alla coesione sociale. È un cambiamento netto che pone delle difficoltà, soprattutto per territori come il nostro, che proprio da quell’orientamento europeo traevano ispirazione e sostegno. In altri Paesi, come la Spagna, l’impatto sarà più contenuto. La Spagna, infatti, ha già sviluppato politiche nazionali e territoriali molto solide in ambito di economia sociale, ed è stata uno degli attori chiave nella sua promozione a livello europeo. Ma in Italia, dove questa visione stava prendendo forma più di recente, il disallineamento rappresenta un ostacolo significativo.

Detto ciò, va riconosciuto anche un dato positivo: in questi anni, abbiamo seminato, diffuso una visione, coinvolto attori e costruito consapevolezza. E oggi sono soprattutto le amministrazioni locali, le città, ad aver colto il valore trasformativo di questo approccio. Si sono rese conto che l’economia sociale può offrire risposte reali alle grandi difficoltà urbane, che spesso derivano non solo dall’organizzazione del welfare, ma dalle conseguenze profonde del sistema economico attuale. Le città italiane più dinamiche, in particolare al Nord, stanno portando avanti questa visione. Torino, ad esempio, era già partita prima di noi e continua a lavorare su questo fronte; lo stesso vale per Milano. Non è un caso che proprio i territori che trainano lo sviluppo economico nazionale siano anche quelli più attenti all’economia sociale: stanno cercando un’alternativa concreta, e la stanno costruendo dal basso, anche in assenza di un forte traino europeo. E nonostante l’indebolimento complessivo, alcuni temi rimangono centrali anche per l’Unione Europea. Uno su tutti la casa. L’abitare resta una priorità nelle politiche di coesione, ed è proprio da lì che possiamo ripartire. Anche il governo italiano, su spinta dell’Europa, sta lavorando a un Piano nazionale sull’economia sociale, e attendiamo di capire in che direzione andrà. Si parla spesso del nodo risorse, e certamente il tema è rilevante. Tuttavia, non credo che la mancanza di risorse sia il principale ostacolo. Se il Piano mantiene una struttura leggera, non burocratica, e si concentra sull’attivazione di sinergie tra attori già presenti e attivi, allora le risorse si possono trovare, anche con il contributo della finanza di cui parlavo. Il vero nodo è dunque culturale e politico: credere davvero in questa visione. Una scelta di cambiamento profondo, che richiede impegno, può aprire nuove strade. Se la riteniamo utile e necessaria, dobbiamo portarla avanti e crederci fino in fondo.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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