Il public procurement come ambito di innovazione amministrativa. Intervista a Luciano Gallo
- 14 Giugno 2025

Il public procurement come ambito di innovazione amministrativa. Intervista a Luciano Gallo

Scritto da Giacomo Bottos

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Luciano Gallo è referente area innovazione amministrativa, contratti pubblici e diritto del Terzo settore ANCI Emilia-Romagna.


Quali sono i percorsi che, come ANCI Emilia-Romagna, avete intrapreso e state portando avanti, in particolare sul public procurement, l’amministrazione condivisa e la valutazione di impatto sociale?

Luciano Gallo: ANCI Emilia-Romagna riconosce il valore strategico dei temi legati all’economia sociale e li segue da anni in una visione integrata. Contratti pubblici, innovazione sociale e diritto del Terzo settore, infatti, non sono per noi ambiti separati o settoriali. La loro connessione è parte di un ecosistema complesso, in cui i contratti pubblici sono strumenti funzionali all’innovazione sociale, e il diritto del Terzo settore ne costituisce un’infrastruttura fondamentale. Faccio parte del gruppo tecnico nazionale di ANCI sul codice dei contratti pubblici e da tempo seguo il tema della cooperazione sociale e dei servizi alla persona, oltre che l’attuazione della riforma del Terzo settore. Sono inoltre componente dell’Osservatorio Nazionale sull’Amministrazione Condivisa, un ulteriore spazio in cui questa visione integrata tra amministrazione condivisa e contratti pubblici trova concretezza. Un altro elemento qualificante è che ANCI Emilia-Romagna è stata la prima in Italia a dotarsi di un delegato politico al Terzo settore. Abbiamo promosso, a livello regionale, una prima mappatura dei rapporti tra comuni ed enti del Terzo settore con deleghe specifiche, regolamenti, uffici dedicati. Dopo le ultime elezioni, abbiamo aggiornato questa rilevazione, consapevoli che non si tratta solo di normative o procedure, ma di una scelta politica. Non parliamo di tecnicismi freddi, ma dell’uso strategico dei contratti pubblici per finalità sociali. Siamo soddisfatti che anche ANCI Toscana si sia dotata di un delegato politico al Terzo settore e auspichiamo che crescano sempre di più. Il nostro attuale presidente, Marco Panieri, Sindaco di Imola, ha tra le sue deleghe proprio l’economia sociale, a dimostrazione della rilevanza strategica per gli enti locali della nostra Regione. Questo è un tema strategico anche nel Piano della Città Metropolitana di Bologna, che connette contratti pubblici, innovazione sociale ed economia sociale. ANCI Emilia-Romagna, inoltre, ha contribuito attivamente alla consultazione della Commissione Europea sulle nuove direttive in materia di appalti e concessioni, inviando un documento tecnico che rappresenta una sintesi del nostro approccio. Collaboriamo con molte amministrazioni locali e con enti regionali per accompagnarle, attraverso laboratori formativi e supporto tecnico, a seguire l’esempio di Bologna. L’obiettivo è rendere operativo quanto previsto dalla raccomandazione europea sull’economia sociale, in particolare il paragrafo 15, che considero quasi un manifesto, in quanto afferma che le amministrazioni locali devono costruire orientamenti strategici e strategie d’appalto. È esattamente questo il nostro compito: aiutare i comuni a dotarsi di un orientamento politico chiaro e a tradurlo in procedure concrete.

 

Come si traduce, nella pratica, questo orientamento strategico? Qual è il vostro approccio rispetto all’uso dei beni pubblici e l’affidamento dei servizi?

Luciano Gallo: Il punto centrale è, come dicevo, la costruzione di una visione politica consapevole. Quando un ente locale elabora i propri atti generali dovrebbe scegliere che tipo di economia vuole sostenere. Cioè, se vuole un modello estrattivo, competitivo, che massimizza il profitto economico anche nella gestione dei beni pubblici; oppure, vuole puntare su un’alternativa, quella dell’economia sociale, dove appunto la dimensione economica e quella sociale convivono. Un comune può mettere a bando un bene pubblico chiedendo un canone a rialzo, premiando chi offre di più. O può scegliere di valorizzare quel bene per l’impatto sociale che può generare. In questo secondo caso, il comune adotta procedure di public procurement orientate all’economia sociale, rivolte a soggetti che mettono al centro la persona più che il profitto, che hanno una governance democratica e che rispettano i criteri fissati a livello europeo. Questo significa ripensare non solo la fase politica, ma anche quella tecnica. L’orientamento strategico deve essere riflesso nei regolamenti, nel Documento unico di programmazione (DUP), negli atti generali dell’ente. E a valle, nei bandi di gara, che non devono essere solo competitivi sul piano economico, ma capaci di generare valore sociale. Non imponiamo che ogni soggetto diventi “dal cuore d’oro”, ma chiediamo che vi sia pari accesso alle gare per chi opera nell’economia sociale, su basi diverse, con una diversa “moneta” di scambio, ovvero quella dell’impatto del progetto sulla comunità.

Infine, vorrei sottolineare una criticità tutta italiana: la tendenza ad autoassolversi cercando sempre un alibi normativo. In realtà, oggi abbiamo già tutti gli strumenti da un punto di vista legislativo. Un codice dei contratti tra i più avanzati d’Europa, una legge regionale sul Terzo settore, strumenti giuridici più che sufficienti. Le amministrazioni, se vogliono, possono già promuovere gare orientate all’impatto sociale, economico e ambientale. Da un lato serve quindi una chiara intenzionalità politica, dall’altro la volontà tecnica di affrontare la complessità dei procedimenti innovativi. Non è facile, ma è possibile. Per questo, come ANCI Emilia-Romagna, lavoriamo in rete con dirigenti e funzionari pubblici in modo cooperativo e solidaristico, mettendo a disposizione il nostro sapere, soprattutto per supportare i piccoli comuni che da soli non ce la farebbero.

 

Come si fa a ispirare bandi e contratti pubblici dai criteri diversi rispetto alla mera economicità, in un contesto di risorse scarse e decrescenti?

Luciano Gallo: L’economia sociale non è una narrazione astratta basata solo su buone intenzioni, ma presuppone un equilibrio, e la sua cornice deve aiutarci a spendere meglio. Questo significa spostare il focus dal risparmio immediato all’obiettivo di cambiamento; non si misura il successo di un appalto dal ribasso sull’importo base, ma dalla capacità di raggiungere risultati concreti e condivisi (gli outcomes) coerenti con la missione pubblica. Paradossalmente, ciò che inizialmente può sembrare nebuloso o persino costoso, nel medio-lungo periodo permette un uso più efficiente e strategico delle risorse, anche attraverso l’integrazione e il cumulo di quelle risorse. L’economia sociale è, infatti, un ecosistema che coinvolge soggetti diversi: attori filantropici, finanziatori pazienti, enti capaci di operare con logiche orientate all’impatto. La prossima frontiera – e non tra tre anni, ma fin da subito – è quella di sperimentare forme innovative di finanziamento dei servizi, anche attraverso nuovi modelli di partenariato pubblico-privato (PPP). Qui, la logica è quella della comunanza di scopo, per cui si diventa partner e non concorrenti. Questo approccio consente anche di accedere a risorse ulteriori, sia pubbliche che private. Quando viene pubblicato un bando regionale o ministeriale, non ci si limita a fare un’offerta calcolando l’utile ma ci si chiede, invece, come poter produrre insieme il miglior servizio possibile, impiegare le risorse in modo più intelligente, e generare un impatto positivo sulla comunità. In questo contesto si inserisce il legame profondo tra contrattualistica pubblica e amministrazione condivisa. Non sono mondi separati, ma elementi complementari di una visione più ampia, orientata al benessere collettivo e alla trasformazione sociale.

 

Un altro punto previsto dal Piano metropolitano, già in parte accennato, riguarda appunto la promozione di forme innovative di gestione dei servizi labor-intensive, per superare la concorrenza al ribasso sul costo del lavoro e sulla qualità. Un problema noto e strutturale. Da questo punto di vista, che strumenti si possono adottare?

Luciano Gallo: Le norme attuali consentirebbero già di impostare gare innovative capaci di sterilizzare l’impatto sul costo del lavoro. Ma serve un orientamento strategico. Un tecnico, se supportato da un indirizzo politico chiaro, potrebbe costruire una gara in cui, fatto 100 il punteggio totale, 80 punti vengano assegnati alla qualità del progetto e i restanti 20 non siano riservati al ribasso economico, ma siano invece legati alla valutazione dell’impatto sociale. In questo modo, si potrebbero attivare politiche di inserimento lavorativo e, al contempo, evitare la corsa al ribasso sui costi dei fattori produttivi. Ma è giusto ammettere che questa scelta non è neutra per un’amministrazione pubblica: rinunciare a uno sconto su una commessa significa non alleggerire il bilancio. Viceversa, non chiedere uno sconto significa pagare di più il servizio. È una verità che dobbiamo affrontare apertamente. Dobbiamo quindi lavorare per costruire gradualmente una cultura del “meglio” anziché del “meno”. In questo processo sarà importante il ruolo degli attori filantropici, dell’integrazione delle risorse, e anche di una logica mista tra servizi che rappresentano solo un costo per la pubblica amministrazione e servizi che possono generare anche un ritorno economico per il gestore o il provider. Un esempio semplice è quello dei servizi di welfare. Alcune attività possono produrre ricavi o sostenibilità economica, e questi introiti possono essere utilizzati per coprire i costi di altri servizi meno redditizi ma socialmente necessari. Anche questo fa parte di una strategia intelligente di valorizzazione delle risorse pubbliche e sociali.

 

In che modo la partecipazione, la co-progettazione e la co-programmazione dei soggetti coinvolti gioca un ruolo importante nella costruzione di un nuovo approccio ai contratti pubblici?

Luciano Gallo: La co-programmazione è uno strumento ancora troppo poco utilizzato, ma che meriterebbe un impiego ben più diffuso. Co-programmare non significa semplicemente prendere decisioni insieme, ma neppure limitarsi a un ascolto formale o a una partecipazione di facciata. Significa, invece, che pubblica amministrazione e Terzo settore si siedono allo stesso tavolo per comprendere congiuntamente quale sia il bisogno da affrontare, quali possano essere le risposte più adeguate e quali risorse attivare. Un esempio concreto è il progetto seguito con il Comune di Verona: un’importante iniziativa di riqualificazione di un’area di 225.000 metri quadrati, che prevede la realizzazione di 20 unità di housing sociale, ampie zone verdi e la valorizzazione di beni culturali. In questo caso, il Comune, pur essendo perfettamente in grado di agire da solo, ha scelto la via della co-programmazione coinvolgendo le competenze e le visioni del Terzo settore. Qui è stata allargata la partecipazione anche a soggetti diversi: fondazioni bancarie, istituzioni, associazioni non appartenenti formalmente al Terzo settore. E questo è stato un valore aggiunto.

Perché la co-programmazione e la co-progettazione sono importanti?

 

Luciano Gallo: Perché consentono alla pubblica amministrazione di allargare lo sguardo e riconoscere l’esistenza di un ecosistema di economia sociale pronto a farsi carico, in modo condiviso, della costruzione di risposte complesse. In questo senso, co-programmazione e co-progettazione sono collegate nel ribaltare il paradigma. Di solito, la pubblica amministrazione individua il bisogno, stanzia le risorse, stabilisce le regole, progetta l’intervento, affida il servizio a un fornitore e ne controlla l’operato, augurandosi che tutto funzioni. Attraverso la co-programmazione e la co-progettazione, invece, la pubblica amministrazione non scompare né perde potere, ma trasforma il suo volto da autoritario e autoreferenziale a collaborativo. Decide di fare insieme per costruire una base progettuale comune, superando la logica della contrapposizione. Le parti diventano partner corresponsabili, condividono risorse – senza obbligo di cofinanziamento, ma mettendo a disposizione ciò che ognuno ha – e collaborano lungo tutto il percorso per il raggiungimento dei risultati. Tuttavia, questo processo richiede una responsabilità maggiore perché non ci sono alibi; se il servizio fallisce, non è più possibile attribuire la colpa a una sola parte. Pubblica amministrazione e soggetti del Terzo settore, in quanto partner, devono interrogarsi insieme sugli errori e sulle mancanze. In questo senso, la co-progettazione, così come l’amministrazione condivisa, rappresenta una sfida culturale e operativa profonda. Invece che affermare la separazione di competenze, interessi, diritti o obblighi, si condivide tutto, a partire dalla responsabilità dell’esito. Il vero banco di prova sarà la capacità, tra qualche anno, di commentare apertamente successi e fallimenti. In Italia non so se siamo tutti consapevoli di questo, perché è più semplice nascondersi dietro l’esito modesto di una gara d’appalto, dove spesso manca un bilancio pubblico dell’effettivo impatto. Invece, l’economia sociale e i processi collaborativi impongono trasparenza, chiedono di rendere conto di ciò che è stato creato – o non creato – insieme. Credo che questa sia una sfida maieutica, capace di rigenerare il nostro modo di agire, di pensare e di vivere il ruolo pubblico. Ed è proprio questa trasformazione a renderla una strada non solo utile, ma salvifica.

 

Quali sono gli esempi più significativi di esperienze di co-programmazione e co-progettazione? E quali criticità possono emergere lungo questo percorso?

Luciano Gallo: Preferisco parlare della gioiosa fatica che può condurre al successo, piuttosto che soffermarmi su un lungo elenco di casi, che ormai affollano convegni e letteratura. Questo vale anche per i contratti pubblici: come per un appalto o una concessione, tutto dipende da come si utilizzano gli strumenti. Un coltello, usato male, può ferire; usato bene, serve a tagliare del cibo per nutrirsi. Allo stesso modo, ciò che conta davvero è l’esperienza vissuta, il processo, più che il nome del progetto. Un primo esempio arriva dall’Unione dei Comuni Reno, Lavino e Samoggia, vicino a Bologna, che riguarda un’iniziativa innovativa sull’abitare. Qui si è scelto, fin dall’inizio, di attivare un percorso strutturato di co-programmazione, seguito da una fase di co-progettazione. Accompagnando i Comuni, abbiamo osservato direttamente la difficoltà di cambiare postura, cultura e modalità di azione, ma anche la ricchezza che ne deriva. Con il tempo – e la pazienza che questi processi richiedono – il bisogno si è trasformato da questione amministrativa a problema condiviso tra tutti i partner. Da questo coinvolgimento è nata una partecipazione spontanea a bandi pubblici e privati, segno che i soggetti coinvolti si percepiscono davvero come partner. Inoltre, si è iniziato a immaginare il futuro già nella co-progettazione, inserendo nel percorso un momento finale in cui i partner presenteranno proposte per il “dopo”, ispirandosi alla cornice europea sull’economia sociale, con l’obiettivo di trasformare il progetto in un’impresa sociale.

Un’esperienza analoga è quella della città di Parma, con un processo di co-programmazione e successiva co-progettazione finalizzato alla riqualificazione di un bene pubblico per usi giovanili, in una zona complessa nei pressi della stazione. Anche qui si è registrata un’ampia partecipazione, un arricchimento di idee e competenze, e oggi il progetto è in una fase avanzata. A Verona, invece, si è conclusa recentemente una co-programmazione che ha coinvolto 70 partecipanti e ora si sta definendo la fase successiva. Il 30 maggio, inoltre, si è chiusa la co-programmazione per il sistema di accoglienza della città di Torino: in questo caso, il Comune ha scelto di non seguire una procedura tradizionale ma di aprire un confronto con tutto il Terzo settore cittadino, per ripensare il servizio secondo i principi dell’amministrazione condivisa. Esiste anche un’esperienza più datata, che ritengo paradigmatica. A Lecco, anni fa, è nata la prima impresa sociale mista pubblico-privato: tutti i Comuni dell’ambito sociale, insieme al Terzo settore, hanno risposto a un avviso pubblico previsto dal Codice dei contratti, costituendo una società mista nella forma dell’impresa sociale. Un soggetto che, oltre a essere un’impresa, è anche un Ente del Terzo Settore (ETS). Si tratta di un modello istituzionalizzato di partenariato pubblico-privato, che non si traduce in una società per azioni o una Srl tradizionale, ma in una realtà dell’economia sociale, capace di raccogliere fondi, attrarre finanziamenti pazienti e attivare a sua volta co-progettazioni. In ingresso può sembrare un classico PPP, non semplice da attuare, ma in uscita diventa un’impresa sociale, in linea con le indicazioni strategiche del paragrafo 15 della raccomandazione sull’economia sociale.

Dal punto di vista tecnico, e non politico (che non mi compete), credo che sia utile immaginare imprese sociali anche nella forma di cooperative di comunità o Srl, per la gestione di beni e servizi nelle aree interne e nei piccoli comuni. In questi contesti, infatti, si è spesso davanti a un bivio: da una parte, la creazione di una società in house; dall’altra, una gara tradizionale con logica estrattiva. L’impresa sociale rappresenta una terza via, coerente con i principi dell’economia sociale, in quanto non “assorbe” il bene o il servizio, ma consente al pubblico e al privato sociale di restare dentro il processo, valorizzando risorse e competenze in una logica di impatto sociale. E questo, a mio avviso, è un passaggio cruciale per la sostenibilità e l’evoluzione delle politiche pubbliche.

 

Un altro punto previsto nel piano metropolitano per l’economia sociale – sempre nell’ambito della Missione 5 – riguarda l’inserimento della valutazione dell’impatto come criterio negli avvisi pubblici e negli appalti. A questo proposito, quali riflessioni avete fatto? Ci sono esperienze significative?

Luciano Gallo: Al momento non esistono ancora esperienze tali da restituire valutazioni e misurazioni complete. Tuttavia, posso testimoniare l’inserimento del ciclo di vita dell’impatto in alcune procedure avviate nella nostra regione. Un esempio rilevante è il bando sulla rigenerazione urbana promosso dalla Regione Emilia-Romagna nel 2021. In quell’occasione ho fatto parte del nucleo di valutazione, anche in qualità di rappresentante di ANCI Emilia-Romagna. Siamo una regione con una particolare sensibilità verso il tema del Terzo settore perché abbiamo un delegato specifico e un orientamento culturale che ci spinge a sollecitare l’adozione di pratiche innovative. In quell’esperienza, abbiamo chiesto alla Regione – che ha accolto la proposta – di inserire tra i criteri premiali per i Comuni partecipanti elementi come la co-programmazione, la co-progettazione e la previsione della valutazione di impatto sociale. E questo è stato ripreso anche nel bando del 2024. Abbiamo ritenuto importante farlo perché, quando si finanziano progetti di rigenerazione urbana, si ha spesso un orizzonte temporale di cinque, dieci o vent’anni. Un tempo sufficiente per costruire, misurare e monitorare l’intero ciclo di vita dell’impatto. Nel 2021 furono stanziati 40 milioni di euro e quasi 80 progetti vennero finanziati. Grazie a una precisa intenzionalità politica abbiamo visto nascere progetti in partenariato tra enti locali ed ETS, in cui la valutazione dell’impatto è stata inclusa sin dall’inizio. Lo stesso approccio lo stiamo promuovendo nelle co-progettazioni avviate a Parma, a Casalecchio, e che stiamo per realizzare a Verona e, ci auguriamo, anche a Torino, nell’ambito del sistema di accoglienza. Al momento possiamo parlare solo di una fase di semina, ma come si dice: se non si semina, non si raccoglie. E anche se non tutto ciò che si semina darà frutti, sarà il tempo a dirci che cosa avremo davvero raccolto, confidando che non ci siano troppe gelate o piogge improvvise.

 

Come ANCI avete partecipato in qualche modo al percorso del Piano di Bologna? Questo tipo di processo può offrire un contributo concreto sui temi di cui abbiamo parlato? Può rappresentare un modello replicabile anche altrove?

Luciano Gallo: Più che di modello, preferisco parlare di metodologia. Parlare di modello può toccare corde sensibili dal punto di vista politico, perché implica una forma di identificazione da parte di altri enti, che possono scegliere se riconoscersi o meno in quell’esperienza. La metodologia, invece, riguarda il “come” si fa, ed è su questo piano che noi, come ANCI Emilia-Romagna, ci siamo messi a disposizione, pronti a contribuire con le risorse e le competenze che abbiamo. Quella del Piano metropolitano è una metodologia efficace e, soprattutto, necessaria. Al di là dell’impianto strutturale – le cinque missioni, l’approccio ascendente e discendente – ciò che conta davvero è l’impostazione strategica che guarda al futuro. E su questo dobbiamo costruire orientamenti strategici a livello politico, ponendo l’economia sociale come cornice di riferimento, assieme a vere e proprie strategie d’appalto. L’Unione Europea, quando parla di strategie d’appalto, fa riferimento a un approccio integrato alla gestione dei contratti pubblici. Ecco perché, prendendo a riferimento il Piano, oggi possiamo affermare – da un punto di vista tecnico – che è possibile replicarne il metodo altrove.

Questo significa ripensare radicalmente il funzionamento delle amministrazioni pubbliche: integrare uffici, collegare le politiche, aprirsi all’esterno, dialogare con l’ecosistema dell’economia sociale e dell’innovazione. È un’occasione anche per “ringiovanire” l’amministrazione, cioè per innovare nelle prassi, nella cultura organizzativa e nei processi decisionali. Le due parole chiave della raccomandazione europea su cui torniamo spesso sono orientamenti strategici e strategie d’appalto. Significa mettere in agenda – come linea strategica – la possibilità, per tutti i nostri Comuni e per le Unioni di Comuni, di sviluppare piani locali per l’economia e l’innovazione sociale. Sono due concetti distinti, ma profondamente interconnessi. Anche la Regione Emilia-Romagna si muove in questa direzione, avviando l’hub regionale per l’innovazione sociale e promuovendo iniziative a supporto dei territori. Economia sociale e innovazione sociale, per quanto mi riguarda, vanno di pari passo. Serve costruire una cultura dell’ecosistema, collaborativa, aperta, capace di far dialogare tra loro amministrazioni, cittadini, Terzo settore, imprese e finanza. E qui entra in gioco un altro elemento fondamentale che è la finanza sociale. Dobbiamo introdurre nelle amministrazioni locali competenze e strumenti legati alla finanza d’impatto, alla finanza paziente. Ma per farlo, dobbiamo ripensare il modo stesso in cui gli enti funzionano se vogliamo davvero mettere al centro l’amministrazione condivisa, l’economia sociale e l’innovazione sociale, con nuove modalità organizzative.

Faccio un ultimo esempio concreto: se voglio indire una gara tradizionale per la ristorazione scolastica, basta coinvolgere l’ufficio gare e contratti, magari supportato dall’ufficio scuola, e lavorare sul miglior capitolato possibile. Ma se voglio attivare una politica coerente con i principi dell’economia e dell’innovazione sociale, che parli di food policy, stili di vita sani, educazione alimentare, allora non sto più solo facendo una gara per la mensa scolastica. In quel caso, devo coinvolgere anche altri colleghi, come ad esempio chi si occupa del patrimonio per recuperare terreni incolti, l’ufficio scuola, chi segue le attività produttive, e naturalmente gare e contratti. In alcuni Comuni dell’Emilia-Romagna ci stiamo chiedendo se non sia arrivato il momento di istituire veri e propri uffici per le politiche contrattuali, capaci di lavorare in modo trasversale fin dalla fase di definizione dell’orientamento strategico, e non solo a valle del processo. Ecco perché, dal mio punto di vista, l’economia sociale e l’innovazione sociale sono decisive anche per trasformare il nostro assetto istituzionale. In un certo senso, dobbiamo diventare “organismi giuridicamente modificati”. È questa, forse, la sfida più bella.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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