Scritto da Lorenzo Benassi Roversi
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Luciano Floridi è professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, e di sociologia della cultura e della comunicazione all’Alma Mater Università di Bologna, dove dirige il Centre for Digital Ethics. Nelle sue opere propone un’interpretazione filosofica della profondissima trasformazione che attraversa le nostra società e la nostra cultura in relazione al processo di digitalizzazione. Oltre ad esser autore di numerosi saggi, da anni si dedica ad un’intensa attività divulgativa, destinata a testate giornalistiche e mezzi di informazione generalisti. Porta la sua firma In poche battute. Brevi riflessioni su cultura e digitale, opera appena uscita, che raccoglie e dà forma unitaria alle pubblicazioni frammentarie uscite tra il 2011 e il 2021, proponendo al lettore un excursus che ripercorre un decennio. In poche battute si apre con una riflessione sul ruolo del filosofo, che non può che essere un osservatore: «la filosofia è sguardo verso il futuro», si afferma. Il ruolo del filosofo è certo quello di interprete nel tempo delle questioni fondamentali – quelle che rimangono oltre il tempo – ma anche quello di interprete del tempo che si annuncia. In questa intervista Luciano Floridi propone alcune riflessioni su queste tematiche, a partire dal recente volume.
Luciano Floridi, la sua riflessione si sofferma sul digitale, sulle tecnologie che generano e gestiscono i flussi informativi. Nessun altro oggetto di indagine filosofica ha mostrato nel tempo un’accelerazione altrettanto marcata. Come guarda al mondo di dieci anni fa, quello a cui si riferiscono i primi articoli? La filosofia fatica a studiare fenomeni caratterizzati da un dinamismo così accentuato?
Luciano Floridi: Nel mondo del digitale l’accelerazione è stata bruciante, tanto che a volte sembra difficile comprendere quanto è avvenuto in questi anni. La raccolta di pubblicazioni brevi ha forse anche lo scopo di seguire la velocità di questi sviluppi. Quando qualcosa accelera molto, per seguirla è necessario distanziarsi. Immaginiamo un aeroplano che sfreccia nel cielo. Riusciamo a vederlo bene, a fissarne il movimento – se vogliamo, anche a tracciarne la rotta – solo da terra, guardandolo da lontano, meglio ancora se dall’interno di una torre di controllo, con strumentazioni adeguate. La riflessione che ho sviluppato in questi anni ha questo scopo. La filosofia è lo strumento giusto perché può permettersi di prendere le distanze da ciò che analizza. I fenomeni caratterizzati da un forte grado di trasformazione vanno studiati così. Potremmo dire che tanto maggiore è la velocità di trasformazione di un fenomeno tanto maggiore dev’essere la distanza di osservazione di chi voglia provare a capirne la direzione. La distanza permette di comprendere la traiettoria e di cogliere gli aspetti di maggior valore: si perde di vista l’accessorio, ma è più facile scorgere l’essenziale. La distanza è l’unico strumento d’analisi che permette di gestire la velocità, per capire e disegnare meglio il futuro.
È in questa prospettiva che si è dedicato a raccogliere le pubblicazioni degli ultimi anni? Per guardarne l’evoluzione dalla distanza?
Luciano Floridi: Esattamente, e per cercare di leggerne la progressione. In questi anni ho firmato tante pubblicazioni di carattere divulgativo o accademico. Mettere in fila i pezzi destinati al grande pubblico significa anche cercare di proporre un esercizio di sintesi sulle evoluzioni di questi anni.
Perché trattare temi così complessi “in poche battute”? Il rischio della semplificazione non l’ha intimidita?
Luciano Floridi: Il rischio c’è. Il libro si intitola In poche battute proprio perché lo spazio a disposizione sui giornali è poco: 4-8mila battute (a parte una manciata di pezzi un po’ più lunghi). Si tratta di fare un’operazione di bilanciamento per raggiungere un trade-off virtuoso tra spazio a disposizione e necessità espressive. La sfida, per il filosofo che si cimenta, è trovare l’equilibrio tra qualità del contenuto e capienza del contenitore. E questo senza usare termini eccessivamente tecnici, che permettono di riassumere concetti complessi, ma rendono ostica la comprensione ai lettori non specializzati. L’obiettivo è l’accessibilità: il lettore deve avere accesso facilmente, in modo intuitivo, ai concetti chiave per la comprensione dei fenomeni. È un esercizio faticoso ma molto utile, chi fa questo mestiere dovrebbe imporselo. Di più, personalmente sarei per proporlo anche a scuola e all’università dove spesso vengono premiati gli elaborati per la lunghezza prima ancora che per la sinteticità e la bontà del contenuto. Nel mondo anglofono si scherza dicendo: “non avevo tempo per scrivere un articolo, così ho scritto un libro”. Saper fare sintesi significa padroneggiare i contenuti e il linguaggio necessari ad esprimerli in modo chiaro e convincente. Oggi il filosofo capace dev’essere anche un po’ giornalista. Chi ha padronanza del tema riesce a presentarlo in poche battute e in modo tale da renderlo comprensibile. Non sto dicendo che io ci sia riuscito, ma lo sforzo deve essere fatto.
Viene da pensare alla scuola pitagorica, che prevedeva momenti dedicati agli acusmatici, uditori comuni interessati ai temi sviluppati dai filosofi. La sfida della divulgazione oggi è sottovalutata dai suoi colleghi?
Luciano Floridi: Esiste una filosofia esoterica, dedicata a pochi “iniziati”, specializzati diremmo oggi, ed esiste una filosofia essoterica, che invece guarda ad un pubblico più ampio. Molti grandi filosofi hanno avuto ben chiara l’importanza di questa sfida: ampliare la fruizione dei temi filosofici senza però scadere nella banalizzazione. In epoca moderna, si pensi alle riscritture operate da Cartesio, da Hume, da Kant, o all’opera di divulgazione di Russell. Spesso scopriamo che il pubblico più ampio e meno specializzato ha ragioni di interesse molto concrete, in molti casi inaspettate. La filosofia produce effetti che il filosofo stesso non immaginava.
La prima pubblicazione della raccolta risale al 2011 ed è una riflessione sul ruolo del filosofo, inserita nel catalogo della mostra “Vanitas. Lotto, Caravaggio e Guercino nella collezione Doria Pamphilj”. Che inerenze ci sono tra le tecnologie del digitale e l’umanesimo delle arti? Sembrano mondi molto distanti.
Luciano Floridi: È stato un momento di divertimento, se vogliamo anche di uscita da quella che potremmo definire “la mia comfort zone filosofica”. In realtà forse il ritorno ad un’esperienza di anni fa, quando passai un anno al Warburg Institute, come Francis Yale Fellow. In quel contesto mi dedicai alle forme rappresentative, studiavo iconologia e iconografia; mi occupavo di storia dello scetticismo, scrissi anche saggi di tipo accademico sulla rappresentazione dello scettico nell’iconografia rinascimentale. Quando mi fu chiesto di aggiungere un saggio filosofico al catalogo della mostra su Lotto, Caravaggio e Guercino, accettai. Oggi il mondo del digitale e delle sue tecnologie sembra guardare molto al futuro e poco al passato, in realtà anche la grande pittura si è realizzata per mezzo di tecniche, utili a creare esperienze visive. La questione tecnica e tecnologica è essenziale. Se guardiamo all’impatto del digitale sul mondo dell’arte, possiamo paragonarlo all’impatto della pittura a olio: qualcosa di centrale, che cambia il modo di concepire e realizzare la rappresentazione. L’applicazione tecnologica all’arte è in esplosione, sia dal punto di vista delle tecniche realizzative, sia dal punto di vista della proprietà delle opere e della loro circolazione, pensiamo agli NFT (Non-Fungible Token, nda) o all’uso dell’AI (Artificial Intelligence, nda) nella produzione grafica. E a proposito di digitale e rappresentazione, posso anticipare che nelle prossime settimane uscirà un fumetto illustrato dall’AI con un mio testo. L’iniziativa è di un collega americano che insegna grafica e illustrazione.
Filosofo-giornalista e filosofo-fumettista. Non è troppo ardito l’abbinamento?
Luciano Floridi: È un onore. Un fumetto, illustrato grazie all’intelligenza artificiale, che attraverso la tecnologia unisce il pensiero filosofico e la volontà divulgativa. La realizzazione poi è stata molto divertente. La filosofia non dovrebbe aver paura di sperimentare nuove forme di comunicazione.
Nel corso del libro, ritroviamo i neologismi da lei coniati, oggi ormai entrati a far parte del lessico divulgativo. Come guarda al cammino che hanno fatto in questi anni le parole a cui ha dato vita?
Luciano Floridi: Non è stato un percorso fatto in maniera critica, consapevole. Parole come iperstoria, onlife, verde e blu, infosfera sono emerse studiando i fenomeni e sono state recepite perché capaci di riassumere in modo intuitivo realtà che fino a quel momento rimanevano prive di identificazione. La raccolta in qualche modo le mette in fila “in poche battute”, appunto, semplificandone i contorni. Ci sono delle costanti interpretative, che si ripetono e si sviluppano nel corso degli anni. La prima è “genetica”, per così dire: tutte queste espressioni nascono dal tentativo di mettere insieme mondi che apparivano separati, facendo sì che il dualismo, le logiche della divisione non prevalessero. Onlife combina vita fisica e vita virtuale, che non sono due cose diverse, ma parte di una unica. Il coniugio tra verde e blu guarda a unire prospettiva ambientalista e tecnologie digitali: l’ambiente degli organismi biologici non è alternativo o antitetico rispetto all’ambiente fatto di informazioni, di realtà digitali. Le due dimensioni si integrano. Quando la cultura del digitale è emersa, è stata subito percepita come qualcosa di alieno a quanto c’era stato fino ad allora: un mondo separato. Il primo punto in comune di tutto il percorso è stato il tentativo di avvicinare i due mondi, di mostrarne l’unità. Portatrici di questa lettura, le parole hanno viaggiato molto. La seconda costante è il tentativo di una lettura che valorizzasse la dimensione sistemica della trasformazione digitale e lo facesse in senso ecologico, cioè tenendo in considerazione una dimensione di equilibrio complessivo, non ristretto alle forme e ai mezzi della comunicazione, ma capace di ricomprendere l’ambiente in cui viviamo. Questa è la cifra della trasformazione che i neologismi tentano di cogliere.
Molte di queste parole sembrano essersi avverate con il tempo e aver raggiunto oggi un’efficacia ancora maggiore. Inizialmente, alcune di esse sembravano rappresentare quasi l’embrione di una realtà che poi abbiamo visto svilupparsi con il tempo, man mano che la trasformazione digitale faceva il suo corso. Ad esempio, oggi siamo ancor più avvolti nell’infosfera di quanto non lo fossimo quando la parola iniziò a circolare. Oggi però sembrano aprirsi prospettive che mettono in crisi alcune definizioni. Pensiamo all’onlife, lo spazio ibrido che nel libro lei descrive come «mix (o “estuario”) di esperienze online e offline» che caratterizza la vita di ognuno. Oggi Facebook investe miliardi di dollari sul metaverso, progetto che guarda alla creazione di una realtà che appare separata, distinta dalla realtà quotidiana. Per la prima volta, il digitale sembra dare luogo a una frattura con la vita “vera”, creando una dimensione alternativa, non integrabile. È così?
Luciano Floridi: È un rischio che si affaccia alla nostra epoca. Di certo, appare così nella retorica, che è tornata agli anni Novanta, quando si contrapponevano attività online e attività offline. Nella pratica non credo si verificheranno cesure così nette. Nel suo pieno sviluppo, il metaverso sarà costituito come un arcipelago di siti attraverso i quali si potranno fare delle esperienze uniche, non possibili nella realtà analogica. Ho una collega a Oxford che già oggi utilizza il metaverso per frequentare concerti insieme alla figlia, che vive in California. Non vedo una discontinuità con le altre forme del web, non si tratterà di una tecnologia di rottura. Saremo nel metaverso con il nostro avatar, ma continueremo ad usare la posta elettronica e a prendere il caffè al bar. Le dimensioni si integreranno tra loro. Il paradigma continuerà ad essere quello dell’onlife. Non credo torneremo alla dicotomia online vs offline.
Come è cambiata la percezione dei rischi connessi al digitale? Nell’ultimo decennio sono cresciute le preoccupazioni per gli impatti della tecnologia sul nostro mondo?
Luciano Floridi: Le preoccupazioni sono cambiate. Anni fa circolavano preoccupazioni di carattere fantascientifico, per così dire, che oggi sono venute meno. Un esempio: durante una recente partita di scacchi, robot contro umano, per errore il robot ha preso un dito all’avversario, un bambino, e glielo ha rotto. Fino a qualche anno fa la cosa avrebbe fatto scalpore, con titoli allarmistici sulla rivolta delle macchine. Oggi è passata in sordina, perché ci rendiamo conto che è un evento paragonabile a lasciare il dito nella portiera della macchina. Per il futuro avremo a che fare con timori e preoccupazioni di taglio molto più concreto: più il digitale diventa pervasivo, più si rende necessario trovare soluzioni educative, culturali, etiche e legali alle questioni che esso pone. Questo genere di problemi interessano più dimensioni – militare, informativa, commerciale, sanitaria, lavorativa, educativa, per esempio –, divenirne consapevoli comporta un certo grado di preoccupazione, ma dà anche la misura della maturazione che è in atto. Finalmente, ci stiamo preoccupando delle cose giuste. Avremmo dovuto iniziare prima. L’Unione Europea sta cercando di creare un’architettura normativa a riguardo ed è un bene. Certo non siamo in anticipo, ma non è troppo tardi.
Lei ha svolto diverse attività al fianco delle istituzioni europee. Nel corso del libro, troviamo spesso il richiamo alla necessità di regolamentare i fenomeni del digitale e soprattutto in riferimento all’intelligenza artificiale. «Non lasciamo decidere gli equilibri al mercato. Non è lo strumento giusto», scriveva nel 2020 su L’Espresso. Perché?
Luciano Floridi: Il mercato, come libera contrattazione tra domanda e offerta, è uno strumento straordinario per la creazione della ricchezza. Lo fa meglio di qualunque altro meccanismo. Due cose però non fa: non protegge coloro che sono coinvolti in questi scambi, ossia l’umanità e l’ambiente, e non si occupa di redistribuire la ricchezza generata. Insomma, non si preoccupa delle conseguenze (esternalità) e dell’equità (redistribuzione). Questi limiti esistono per ragioni legate alla natura del mercato stesso, che nasce per generare ricchezza perseguendo l’allocazione efficiente delle risorse, e non per altri fini, per i quali invece esiste la legislazione. È essa a porre limiti a salvaguardia dell’umanità e dell’ambiente e ad attuare misure redistributive. Questi principi si applicano anche al mondo del digitale.
Parlando delle società leader nel digitale di solito si fa riferimento agli immensi fatturati, ai profitti. Scorrendo gli articoli raccolti appare chiaramente che la vera posta in gioco riguarda la concentrazione del potere. Su questo fronte, preoccupazioni?
Luciano Floridi: La commercializzazione del web ha trasformato quello che all’inizio era uno spazio libero in uno spazio proprietario al servizio delle grandi imprese. Il web non ha perso la funzione di empowerment, perché la sua diffusione ha distribuito opportunità e mezzi prima impensabili, ma è anche vero che ha concentrato tantissimo (troppo) potere in pochissime mani, creando un oligopolio. Si poteva evitare, non l’abbiamo fatto perché non abbiamo compreso il fenomeno per tempo e siamo arrivati tardi. Oggi la legislazione sta cercando di rimediare. Ciò che manca – e credo sia la dimensione che può fare la differenza maggiore – è la cognizione diffusa degli strumenti e il loro utilizzo consapevole da parte di larghi strati di utenza, oggi non informati e inconsapevoli. La piena coscienza nell’uso degli strumenti informativi limita le distorsioni, dunque riduce i rischi nella concentrazione del potere. Ad oggi la questione sembra chiamare in causa solo le grandi aziende da una parte e la politica dall’altra. Serve un’opera pedagogica capillare sul digitale che faccia emergere come soggetto protagonista la società civile, i cittadini-utenti.
Dalla diffusione della conoscenza passa la redistribuzione del potere. Il nostro però è tra i Paesi nei quali il digital divide è più marcato. Esiste davvero la possibilità di una redistribuzione del potere in senso inclusivo?
Luciano Floridi: Esiste. Il processo si compone di conoscenze e competenze da acquisire, ma prima ancora – soprattutto per il nostro Paese – di una sensibilità da sviluppare, una forma mentis che ancora non c’è. Prima della conoscenza, viene la dimensione dell’interesse. Non tanto quello economico, ma dell’essere “interessati a capire”. Si tratta di sollevare interesse sulle potenzialità della tecnologia, da cui avremmo tantissimo da guadagnare, in primis una società più inclusiva, più equa e più sostenibile. Pensiamo ai vantaggi che potremmo conseguire grazie al digitale con una riorganizzazione del lavoro che preveda un ampio ricorso allo smart working: si potrebbe contribuire al bilanciamento tra vita privata e lavoro, alla riduzione dei divari tra Nord e Sud, all’inclusione delle aree marginali. È solo un esempio. Si tratta di sviluppare le dimensioni di vantaggio rivolte alla comunità, ciò di per sé non elimina il potere nelle mani dei privati proprietari delle piattaforme, ma ne muta gli esiti, ampliando la platea dei beneficiari.
A proposito di potere, che dire della scelta di pubblicare “In poche battute” con Amazon? Qualcuno potrebbe dire che se anche i filosofi mettono le proprie idee in mano alle grandi piattaforme, queste saranno sempre più protagoniste nella circolazione delle idee.
Luciano Floridi: Come dicevo, tutto passa dalla consapevolezza con cui si fanno le cose. La soluzione non è ripudiare i servizi delle piattaforme, ma il buon utilizzo e controllo legislativo di esse. La consapevolezza è parte necessaria del processo per controllare la mediazione attraverso la quale le idee giungono al pubblico. Amazon può essere uno strumento molto utile ai fini di cui abbiamo accennato. Lo slittamento del controllo dei flussi informativi avverrà quando gli utenti saranno capaci di un utilizzo virtuoso, critico delle piattaforme. Ritorniamo all’elemento della conoscenza, che determina il grado di consapevolezza con cui si utilizzano gli strumenti e quindi la distribuzione del potere.
Nel 2020 un suo intervento affiancava “sovranità moderna-analogica nazionale” – quella vecchio stampo, emersa con l’emergere degli Stati nazionali – e “sovranità contemporanea-digitale sovranazionale”, che caratterizza la nostra epoca. Oggi gli Stati tornano al centro: anche sul fronte del digitale i rischi maggiori sono percepiti a partire da forme aggressive agite da Stati con ambizioni imperiali. Che dire a riguardo? Dovremo preoccuparci del fondersi tra le due forme di sovranità?
Luciano Floridi: Sono due forme di sovranità che possono incastrarsi in maniera distruttiva o in maniera costruttiva. La tentazione sovranista oppone la sovranità nazionale al digitale, senza comprenderne – o rifiutandone – la dimensione intrinsecamente sovranazionale. Utilizza una lettura ottocentesca applicandola a un mondo a cui essa ormai non si attaglia più. C’è poi la spinta imperialista: gli Stati che guardano al digitale come strumento al servizio di politiche di potenza. In entrambi i casi il rapporto tra sovranità analogico-nazionale e sovranità digitale-sovranazionale è problematico. La soluzione è l’incastro virtuoso tra le due dimensioni, che non può essere quello di chiudersi al digitale per paura di subire attacchi. Certo, il processo di digitalizzazione ci rende più esposti, ma fornisce anche strumenti di difesa. La soluzione non è nemmeno quella di delegare la gestione e la protezione di dati e sistemi informativi alle grandi aziende del digitale. Equivarrebbe alla rinuncia da parte delle istituzioni ad esercitare il proprio ruolo nell’ambito del digitale. È necessario un protagonismo istituzionale che guarda sì alla sovranità nazionale, ma la concepisce all’interno di un ordine istituzionale sovranazionale – quello europeo, per quanto ci riguarda – che tiene insieme interessi comuni che non possono essere limitati entro i confini, né difesi con le sole forze dei singoli Stati.