“L’atleta indisciplinato. Fortuna ed esercizio” di Armando Canzonieri
- 04 Febbraio 2022

“L’atleta indisciplinato. Fortuna ed esercizio” di Armando Canzonieri

Recensione a: Armando Canzonieri, L’atleta indisciplinato. Fortuna ed esercizio, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2020, pp. 136, 14 euro, (scheda libro)

Scritto da Rita Dodaro

6 minuti di lettura

Chi è l’atleta? Parlare di atleta indisciplinato sembra quasi ossimorico. Come e per quale motivo colui che si allena, che migliora grazie all’esercizio potrebbe risultare indisciplinato? In che misura l’esercizio è connesso alla contingenza? Rinunciare alla disciplina è negativo o consente un’esperienza completa della propria natura? Domande da cui partire per una riflessione antropologica più ampia e approfondita sul ruolo dell’esercizio, della spontaneità, dell’esplorazione di sé nella vita umana.

Con originalità e coinvolgimento L’atleta indisciplinato. Fortuna ed esercizio si apre con la descrizione di un evento a Roma: un giocoliere che prova e riprova il suo numero, che tenta di imparare qualcosa di nuovo. È il paradigma dell’essere umano che prova a migliorare sé stesso, che parla con sé stesso, l’esempio dal quale Armando Canzonieri inizia il suo profondo viaggio di analisi antropologica.

Esercizio: uno dei termini più utilizzati nella crescita e nella formazione, nonché uno dei concetti più complessi dell’antropologia filosofica. Con un linguaggio divulgativo, Canzonieri coglie aspetti interessanti e originali all’interno di un dibattito filosofico sull’uomo e riflette sulle dinamiche dell’esercizio e della fortuna con chiarezza e semplicità d’espressione, senza banalizzare le argomentazioni, definendo le caratteristiche della natura umana attraverso la rilettura di filosofi antichi e contemporanei.

Il volume, come lo stesso Canzonieri chiarisce, non vuole presentarsi come un saggio su Epitteto o sullo stoicismo, senza però negare che le Diatribe, il Manuale e altre opere “minori” offrono una chiave di lettura essenziale per le tematiche proposte alla luce della figura dell’uomo e del saggio, ai fini di una «messa a fuoco della vita che esercita se stessa» (p. 16). Sebbene sia esemplificativo dissezionare tematicamente il testo, è possibile cogliere due direzioni della ricerca: la prima, condensata nel primo capitolo e in parte del secondo, si concentra sull’esercizio e l’apprendimento.

L’essere umano è l’unico essere vivente bisognoso di scuole e manuali per diventare umano, è costretto all’apprendimento e deve necessariamente sperimentare la propria natura non solo per «lasciarla essere», (p. 16) ma anche per esperirla completamente. Diversamente dagli altri esseri viventi, l’animale umano ha bisogno di un apprendimento in un percorso buio privo di modelli da seguire, immerso nella contingenza e nella fortuna. Da Epitteto a Plessner, attraverso la riflessioni di Tugendhat, Foucault, Sloterdijk, in un dialogo atemporale sono comparate dalle antiche alle più recenti teorie di antropologia filosofica sulla natura umana nel rapporto con se stessa e con gli altri esseri viventi. Come il pastore leopardiano, l’uomo plessneriano guarda con ammirazione e gelosia le vite dei coabitanti del pianeta «poiché in esse vede realizzata una naturalezza che può solo immaginare ma che non può vivere, poiché nello stesso momento in cui la mette a fuoco sente di esserne completamente distante e lo stesso gesto di articolarla in un fine da raggiungere non fa altro che marcare ulteriormente una separazione tra lo sforzo necessario a raggiungere la spontaneità e la completa assenza di sforzo che essa stessa suggerisce» (p. 17). È proprio questo il punto nevralgico in cui si snoda l’intero capitolo, tra esercizio e spontaneità si articola la domanda sulla vita e sulla condotta umana. Gli animali non umani aderiscono alla propria natura senza interrogarsi, senza alcun bisogno di chiedersi cosa fare della propria vita, contrariamente agli uomini esposti a domande e fragilità. L’analisi procede su come l’essere umano debba «mettere in atto la propria natura» (p. 18) e, soprattutto, cosa questo interrogativo implichi per l’uomo anche sotto l’aspetto della condotta e della valutazione del proprio sé.

Espressioni come antropopoiesi proposta da Remotti ed etopoiesi da Foucault si introducono all’interno di una discussione sulla tutela della capacità umana di trasformazione in quanto tale. Sullo sfondo di tale confronto rimane la riflessione antropologica dello stoicismo concernente il superamento delle proprie abitudini nella ricerca della propria umanità, ripercorrendo i discorsi di Epitteto, si definisce il concetto di esercizio: non si tratta del semplice miglioramento delle proprie facoltà, ma si esercita il rapporto con la vita.

L’essere umano è spinto dall’immaginazione, programma, si esercita perché preoccupato per il futuro. Nella proposta di un’«antropologia atletica» (p. 39), in cui prevale il modello atletico a discapito di quello medico, Canzonieri riprende il testo di Tugendhat Egocentricità e mistica. Studio antropologico e mostra un nodo fondamentale della ricerca: il legame con il linguaggio: «la struttura del linguaggio proposizionale è il campo all’interno del quale la vita umana incontra tanto la possibilità di scomporsi e di trasformarsi in una serie di esercizi quanto l’interrogativo in merito a ciò che può e che deve fare di sé stessa» (p. 29), nel legame con l’immaginazione e con il futuro l’essere umano articola sé stesso attraverso l’esercizio. Nell’idea foucaultiana della meditazione l’esercizio di sé legato alla dimensione immaginativa dell’uomo e nel rapporto dell’uomo con sé stesso acquisisce un nuovo significato, così come per Epitteto, esiste in relazione al futuro e ai propositi che l’uomo pone.

La seconda direzione della ricerca insiste da una parte sul rapporto tra l’uomo e le proprie rappresentazioni e sul confronto con l’animale non umano, dall’altra sulla natura umana in relazione alla figura del saggio: «quella che noi stiamo proponendo in altre parole è una sovrapposizione radicale tra saggezza e natura umana […] saggio è, di volta in volta, ciascun individuo che posiziona il proprio sguardo all’interno di questa distanza […] saggio è colui che sa essere amico della fortuna che eccede il suo volere e lo attraversa» (p. 57). In un equilibrio tra ragione e rappresentazione Epitteto evidenzia la doppia natura dell’uomo, riconducendo la sua filosofia ad un’antropologia atletica basata sull’esercizio, il modello atletico rispetto a quello medico, non rinuncia alla sua condizione indisciplinata, in esso si manifestano le caratteristiche fondamentali della natura nel legame con la fortuna e la contingenza. Il compito della ragione consiste nell’organizzare le rappresentazioni, un compito dinamico e mutevole nel tempo, in cui i manuali acquisiscono il ruolo di guida.

La ricerca di una «radice antropologica comune» (p. 58) articola la riflessione sull’uomo anche attraverso le risposte che la scuola cinica fornisce. Nella filosofia cinica spicca la nozione di animalità. Non si guarda l’animale con triste nostalgia, ma come modello per imparare a «colmare la distanza che ci separa dalla nostra natura» (p. 88). La differenza con l’animale non è data semplicemente dalla propria cultura, ma anche e, soprattutto, dalla possibilità di poterla cambiare e migliorare. La razionalità può interrogare sé stessa e mutare: «umana è quella cultura che spinge i partecipanti che la sorreggono a superarla, ad approfondirla, ad ampliarla» (p. 94), l’animale umano organizza le rappresentazioni imparando passo dopo passo, in costante instabilità e fragilità, a comprendere il proprio utile. Nel rapporto con l’utile, con la sua mancanza, si mostra il legame con il proprio sé come «una relazione con il punto vuoto all’interno della biografia, vuoto che è sommerso, occultato dal fascio delle rappresentazioni e delle abitudini» (p. 96). L’uso delle rappresentazioni è in continuo cambiamento, queste, inoltre, non coincidono con la volontà ma sono «presenti in me prima che io possa di fatto volere, prima che io possa porre per me stesso dei fini» (p. 99), diversamente dall’animale non umano, l’uomo può, però, avere un rapporto con esse e prenderne una distanza. La comprensione e l’utilizzo delle rappresentazioni sono analizzate da Epitteto in un contesto di scelta tra bene e male: «la posta in gioco nell’uso delle rappresentazioni, dunque, è il valore che i contesti, le cose, gli altri, hanno per un essere vivente. […] Esse sono connesse sia al piano conoscitivo e dunque al problema della verità, che al piano pratico e al problema dell’agire e del vivere bene o male» (p. 123). Vivere per l’uomo significa far «buon uso» (p. 126) delle proprie rappresentazioni, solo così sarà possibile determinare quali rappresentazioni scegliere si chiama «scelta morale, lo spazio della lotta per salvaguardare la propria natura […] L’antropologia filosofica, dunque, avrebbe il compito di verificare in che termini la domanda intorno al bene e intorno al buon uso di sé sia qualcosa che inerisce alla natura umana in quanto natura che comprende» (p. 126).

Fedele agli intenti dichiarati all’interno della prefazione, Canzonieri restituisce un quadro approfondito sull’umano, sulla sua natura e sulla sua porosità. Da premesse fondate su radici «non teoretiche», giunge all’analisi sistemica di esponenti dell’antropologia filosofica in grado di offrire un’elaborata visione sulla fragilità della natura umana e sull’importanza di spostare il proprio sguardo dinnanzi all’imprevisto, superare le proprie abitudini nella contingenza, aprire l’umanità a ciò che ancora non è stato capito e compreso. Su questa scia, particolarmente interessante appare l’intreccio di argomenti così complessi con situazioni quotidiane, Canzonieri riesce ad affrontare il tema della disabilità all’interno di un’antropologia filosofica che spinge al superamento di un confine in cui delimitare la definizione di umanità, l’esercizio principale consente di lavorare su questo limite, comprendere l’altro al di qua del confine: «la disabilità è proprio il luogo in cui la possibilità e la necessità di sfuggire ai modelli di umanità ereditati da una certa tradizione culturale e di inventare sempre di nuovo modelli capaci di accogliere, riconoscere e formare umanità diverse, si annuncia» (p. 59).

In conclusione, il volume si presenta come un saggio denso, ricco di concetti variegati strettamente connessi tra loro e offre una vasta polifonia in cui si incontrano, confrontano e sovrappongono le voci dell’antico e del contemporaneo, riproponendo autenticamente questioni fondamentali su l’essere vivente che, oltre ogni tempo, continua ad essere «enigmatico a sé stesso» (Scheler, 1921).

Scritto da
Rita Dodaro

Iscritta al secondo anno del Dottorato di studi umanistici: testi, saperi, pratiche: dall’antichità classica alla contemporaneità presso l’Università della Calabria, al momento sta svolgendo un periodo di ricerca presso la Freie Universität di Berlino.

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