L’economia civile nelle trasformazioni globali. Intervista a Stefano Zamagni
- 14 Giugno 2025

L’economia civile nelle trasformazioni globali. Intervista a Stefano Zamagni

Scritto da Giacomo Bottos

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Stefano Zamagni è economista e Presidente Commissione Scientifica AICCON Research Center.


In un’intervista di qualche anno fa, uscita proprio per Pandora Rivista, descriveva la nostra epoca come quella di una seconda grande trasformazione di tipo polanyiano, caratterizzata dalla globalizzazione e dalla rivoluzione digitale. Guardando agli effetti di questi processi oggi, che considerazioni si possono fare sull’economia globale?

Stefano Zamagni: La definizione di seconda grande trasformazione di tipo polanyiano fa riferimento al ciclo storico che ha inizio con la globalizzazione. Nel novembre 1975, nel Castello di Rambouillet, vicino Parigi, si tenne il primo summit del G6, dove i sei Paesi più avanzati, tra cui l’Italia, presero la storica decisione di rendere oggetto di transazioni internazionali non solo gli output, cioè le merci e i prodotti, come sempre accaduto, ma anche gli input, cioè tutti i fattori riguardanti la produzione, il lavoro e soprattutto i capitali finanziari. Questa è stata la grande novità.

Parlare di seconda globalizzazione, come fanno nell’ultimo periodo alcuni economisti, è a mio parere fuorviante. Intanto, perché la parola “globalizzazione” ha una sua genesi particolare e si è largamente diffusa nel dibattito pubblico a partire dagli anni Ottanta, in particolare ad opera dell’economista americano Theodore Levitt che conia il termine nel 1983. E il primo saggio che tratta del tema è quello di Kenichi Ohmae del 1988. Ma non è solo un problema di parole. Parlare di seconda globalizzazione è un errore dannoso, perché mentre le relazioni internazionali sono sempre esistite, anche nelle epoche storiche precedenti, quello che caratterizza la globalizzazione in senso proprio è appunto la mercificazione sia del lavoro sia della finanza. È così che è nato, da un lato, il mercato globale del lavoro, e dall’altro il mercato globale dei capitali, da cui la finanziarizzazione dell’economia. Oggi il lato finanziario delle relazioni economiche sovrasta di nove volte il lato reale: il PIL globale, messo a confronto con l’ammontare globale degli asset finanziari, ha un rapporto di 1 a 9, ovvero la finanza si è autonomizzata dal resto dell’economia e non serve più il suo lato reale. Nel 1980, il PIL globale era più o meno uguale all’ammontare degli asset finanziari. Oggi la finanza è diventata autoreferenziale, fine a se stessa.

 

Come ha influito, su questo contesto, la transizione digitale, e qual è il suo rapporto con il fenomeno della globalizzazione?

Stefano Zamagni: L’altro fenomeno che caratterizza la seconda grande trasformazione di tipo polanyiano è, appunto, la rivoluzione delle tecnologie del digitale. Nel 1952 un giovane matematico e informatico americano, Marvin Minsky, nel corso della sua tesi di dottorato di ricerca, nel contesto di un discorso più ampio, scrive che saremmo arrivati un punto nella nostra storia in cui si sarebbe affermata un’intelligenza artificiale. Successivamente si è cominciato a parlare in maniera sempre più diffusa del fenomeno e oggi questa espressione è sulla bocca di tutti.

Questi due grandi fenomeni insieme, la globalizzazione e la transizione digitale, non hanno pari, mentre altri fenomeni erano già presenti, anche se con intensità diverse. Sono due res nove in senso proprio, che oltre a cambiare i processi produttivi e l’organizzazione del lavoro, stanno cambiando il nostro impianto culturale. E questo è il problema più serio. All’epoca dell’invenzione della macchina a vapore ci fu un mutamento profondo nel modo di produrre i beni, ma questo non cambiò le categorie di pensiero e il modo in cui le persone si rapportavano fra loro. La letteratura su questi temi descrive l’impatto sul volume degli affari, sulle transazioni, sul modo di produrre. Solo pochi hanno avuto la capacità, e direi anche il coraggio, di guardare oltre.

Quanto al senso delle nuove tecnologie, pensiamo alla parola greca pharmakon, che ha due significati: medicina e veleno. Nell’antica Grecia si accese un’aspra discussione sul seguente tema: dobbiamo insegnare ai bambini a leggere e scrivere? Alcuni erano contrari perché sostenevano che imparando a leggere e scrivere i bambini avrebbero perso l’uso della memoria. Altri, invece, pensavano che insegnando a leggere e scrivere la memoria si sarebbe rafforzata. Poiché non venne raggiunto l’accordo, i contendenti decisero di chiedere consiglio a Platone, confidando nella sua autorevolezza. Platone, inventandosi per l’occasione la storia del faraone d’Egitto, dice: vedete, la scrittura e la lettura sono un pharmakon, possono essere usate come medicina oppure come veleno, tutto dipende da chi le usa e dal modo con cui avviene l’insegnamento. Ecco, la situazione odierna è del tutto analoga. Purtroppo, e questa è la mia valutazione personale, oggi prevale l’incapacità di andare oltre l’apparenza, il che ci porta, se non viene corretta in tempi rapidi, a vedere nelle nuove intelligenze artificiali il veleno piuttosto che la medicina.

 

La capacità di guardare oltre dipende anche da quelli che sono i paradigmi dell’economia nel dibattito internazionale. Come anche lei sottolinea, si confrontano in questo caso tre grandi paradigmi, che sono quello dell’economia politica, quello marxiano e quello dell’economia civile. Lei ha più volte sottolineato come quest’ultimo modello possa offrire delle risposte più adeguate alle sfide attuali, poiché quello marxiano non è in discussione e quello dell’economia politica è dominante ma fragile o anche fallimentare. Quali sono le principali caratteristiche del paradigma dell’economia civile e cosa lo rende una valida alternativa in questo momento storico?

Stefano Zamagni: Il paradigma dell’economia marxiana è oggi caduto in disuso, sebbene non sia scomparso. Personalmente continuo a insegnarlo agli studenti per offrire loro una visione completa degli studi economici, affinché possano scegliere in modo avvertito la prospettiva che preferiscono. Osservo che persino in Russia e in Cina, l’economia marxiana non è più insegnata come paradigma economico, ma solo nei corsi di filosofia o di storia politica. Basta controllare i programmi delle università cinesi per scoprire che le materie economiche non differiscono sostanzialmente da quelle occidentali. Questo dimostra quanto l’economia marxiana sia stata relegata ai margini, sebbene contenga ancora intuizioni e spunti interessanti. Il suo accantonamento in Italia, dove fino a trent’anni fa vi erano facoltà universitarie che specificamente si dedicavano ad essa, rappresenta una perdita culturale significativa, perché il pensiero critico si nutre della diversità dei punti di vista e della pluralità dei principi.

Passando all’economia civile, essa precede storicamente l’economia politica, la cui culla è la Scozia di Adam Smith. L’economia civile, invece, nasce nel 1754, quando l’Università di Napoli istituì la prima cattedra universitaria di economia al mondo, affidandola ad Antonio Genovesi, denominandola “Cattedra di Economia Civile”. Questo punto è spesso ignorato: si tende infatti a pensare che la scienza economica sia nata in Inghilterra, invece ha radici italiane. Da Napoli, dove oltre ad Antonio Genovesi vanno ricordati Gaetano Filangieri e Giacinto Dragonetti, il paradigma dell’economia civile si diffonde a Milano con Pietro Verri, e a Modena, dove importante è stata la figura di Ludovico Antonio Muratori, e altrove con altri studiosi.

Le differenze tra economia civile ed economia politica sono profonde. La prima riguarda l’assunto antropologico: mentre l’economia politica si fonda sulla figura dell’homo oeconomicus, introdotta da John Stuart Mill a metà Ottocento, l’economia civile parte dall’idea di homo reciprocans. Mill stesso coniò l’espressione homo oeconomicus, avvertendo però che l’adozione di tale assunto avrebbe comportato rischi significativi. Tuttavia, con la rivoluzione marginalista degli anni Settanta del XIX secolo e la nascita della teoria neoclassica, l’avvertimento venne ignorato e divenne dominante. L’homo oeconomicus è un individuo che agisce solo in vista del proprio interesse e in modo strumentalmente razionale. La figura dell’homo oeconomicus è il precipitato della visione hobbesiana secondo cui ogni uomo è “lupo per gli altri uomini”. Al contrario, Genovesi insegnava che homo homini natura amicus: l’uomo è per natura amico dell’altro uomo – un’idea questa che recupera la nozione di amicizia civile di Aristotele. Per l’economia civile la tensione naturale alla cooperazione e alla reciprocità non è l’eccezione, ma la regola. Per l’economista politico è vero il contrario.

La seconda differenza riguarda il principio del NOMA (non-overlapping magisteria), introdotto nel 1829 dell’economista cattedratico di Oxford Richard Whately, la cui tesi era che economia ed etica dovessero essere tenute separate per consentire all’economia di raggiungere lo status di scienza, positivisticamente intesa. Questa “grande separazione” ha segnato il pensiero economico, portando alla convinzione che l’economia potesse fare a meno dell’etica. L’economia civile respinge questa tesi, frutto di scarsa avvedutezza filosofica e in particolare epistemologica. Resta il fatto che è a causa di errori di questo tipo che il discorso e la prassi economica hanno finito con il generare i seri guasti nelle nostre società di cui siamo impotenti spettatori.

La terza differenza riguarda il fine ultimo (il telos) dell’attività economica. L’economia politica mira alla massimizzazione del bene totale, l’economia civile persegue la massimizzazione del bene comune. Bene totale e bene comune non sono sinonimi: il primo è metaforicamente rappresentabile come la somma delle utilità individuali; il secondo come il prodotto dei beni individuali. Tutti conosciamo la differenza tra una sommatoria e una produttoria. In una somma, anche se qualche addendo viene azzerato, il totale resta positivo e potrebbe pure aumentare sotto certe condizioni. Ma in un prodotto, l’annullamento anche solo di un fattore produce l’azzeramento del prodotto. È fin troppo chiara l’interpretazione.

I limiti dell’economia politica sono oggi evidenti, riconosciuti ormai anche da premi Nobel come Joseph Stiglitz, Amartya Sen, George Akerlof, Angus Deaton e altri ancora. Il libro di Deaton, Morti per disperazione e il futuro del capitalismo (il Mulino 2021), evidenzia come negli Stati Uniti la crisi economica e sociale abbia portato a un aumento della mortalità legata alla disperazione, più che alla povertà o alle malattie. Questo fenomeno è il risultato di un modello economico che ha privilegiato la crescita a scapito dello sviluppo umano integrale. Oggi la critica all’economia politica proviene assai più dall’esterno della disciplina che dall’interno. Per molti economisti, abbandonare le categorie di pensiero tradizionali è difficile, soprattutto dopo tanti anni di studio e applicazione. Ma le cose stanno cambiando, pur non essendo arrivati ancora alla soglia critica. L’economia civile offre un’alternativa basata sulla reciprocità, sull’integrazione tra economia ed etica e sulla ricerca del bene comune. Riconoscerne il valore significa non solo comprendere le sue radici storiche, ma anche adottare una prospettiva sostenibile per affrontare le sfide attuali. È bene ricordare il manifesto sottoscritto da 360 professori di economia italiani per un rinascimento della disciplina (Firenze, 6 giugno 2025).

 

Qual è, invece, nello specifico, il significato della categoria di economia sociale?

Stefano Zamagni: L’espressione “economia sociale” è oggi molto diffusa, ma spesso usata in modo ambiguo, senza distinguere tra i diversi significati che essa veicola, il che genera confusione, soprattutto in Europa. Esistono infatti tre modelli distinti di economia sociale ed è quindi fuorviante usare il termine in modo generico: bisogna avere il coraggio di dichiarare a quale modello ci si riferisce, quando si avanzano proposte.

Il primo è quello dell’economia sociale di mercato, nata in Germania negli anni Venti intorno alla Scuola di Friburgo. Nel secondo dopoguerra, tale linea di pensiero ebbe un ruolo chiave nella ricostruzione economica del Paese (si pensi a Ludwig Ehrard, Walter Eucken, ecc.) Il principio cardine è che lo Stato deve vigilare sul funzionamento dei mercati, regolamentandoli per evitare distorsioni, proprio come un fiume che rischia di esondare se lasciato senza argini. Si parla, infatti, di “polizia dei mercati”, come compito specifico dello Stato. Secondo questo modello, i soggetti dell’economia sociale che oggi chiamiamo Terzo settore sono la longa manus dello Stato, per attuare i progetti che l’ente pubblico decide di realizzare. Quando nel 1992 furono firmati i Trattati di Maastricht, la Germania riuscì a farvi inserire il principio dell’economia sociale di mercato, approfittando della scarsa preparazione culturale dei rappresentanti degli altri Paesi. L’idea di fondo è che è lo Stato ad inverare la società civile, come aveva scritto il famoso filosofo tedesco Hegel.

Il secondo modello è quello americano, legato al nome del premio Nobel Gary Becker, allievo di Milton Friedman, co-fondatore della Scuola di Chicago. Nel 2000, Becker pubblicò, con Kevin M. Murphy, un libro importante dal titolo Social Economics. Nella concezione americana dell’economia sociale, lo Stato deve occuparsi solo delle funzioni essenziali, secondo la logica neoliberista dello “Stato minimo”. Il Terzo settore, a sua volta, deve collegarsi con il mercato, dal quale trae le risorse necessarie. Si pensi alla filantropia d’impresa, un fenomeno assente nella tradizione europea fino a tempi recenti; al fundraising, alle metriche della valutazione d’impatto, ecc. L’idea alla base è che l’efficienza dell’agire deve essere il criterio centrale per giudicare della performance. Ricordo che l’espressione Terzo settore viene coniata negli Stati Uniti nel 1973, al seguito dei lavori di Amitai Etzioni e Theodore Levitt. Prima di allora tale espressione non esisteva.

 

Quali sono le caratteristiche distintive del modello italiano?

Stefano Zamagni: Una delle caratteristiche distintive del modello italiano è il principio di sussidiarietà circolare, secondo cui lo Stato (inteso come l’insieme degli enti pubblici), il mercato (la business community) e la società civile organizzata (i corpi intermedi, come li chiama l’Articolo 2 della nostra Costituzione) devono essere posti sullo stesso piano, senza che uno prevalga sugli altri imponendo la propria linea, quando si tratta di prendere decisioni in tutta una serie di materie.

Questa visione si è poi diffusa anche in altri Paesi, come Francia e Spagna, seppur con adattamenti, e ha dato vita ai principi di co-programmazione e co-progettazione. La co-programmazione è il primo passo: lo Stato, le imprese e i corpi intermedi devono definire congiuntamente gli obiettivi da perseguire, stabilire le priorità e individuare le fonti delle risorse finanziarie. Solo dopo si passa alla co-progettazione, ovvero alla traduzione operativa di quanto deciso. Questa concezione ha trovato un riconoscimento definitivo nella sentenza 131/2020 della nostra Corte Costituzionale, che ha sancito l’obbligatorietà di attuare la co-programmazione nei settori indicati nella stessa. Eppure, questa sentenza, di portata rivoluzionaria, è troppo spesso ignorata dal policy-maker.

La sussidiarietà circolare si distingue dalla sussidiarietà orizzontale, la quale prevede che lo Stato definisca gli obiettivi e poi coinvolga vari soggetti della società civile nella loro realizzazione. È certamente un progresso rispetto alla sussidiarietà verticale, ma ancora insufficiente. Il punto centrale è che la determinazione degli obiettivi non può essere prerogativa esclusiva dell’ente pubblico. Un modello in cui lo Stato decide unilateralmente e poi delega l’attuazione ricorda la concezione hobbesiana e hegeliana, dove lo Stato è il soggetto che “invera” la società civile. Invece, secondo la tradizione neorinascimentale italiana, è la società civile a dare vita allo Stato, perché viene prima di esso. L’ente pubblico non può arrogarsi il diritto di stabilire da solo gli obiettivi della collettività. Il che è quanto accade con la concezione statalista. Non basta addurre giustificazioni dicendo che volontariato, cooperative sociali e imprese sociali ecc. saranno poi coinvolti, perché si tratta comunque di una partecipazione subordinata a decisioni prese altrove. Il neostatalismo sta generando crescente malcontento, e la protesta è destinata ad aumentare se non si cambia rotta. Spesso si dice che mancano le risorse, ma questo accade perché si pretende che esse debbano provenire solo dal settore pubblico. Ma chi l’ha detto? Solo chi è interessato a conservare lo status quo, per timore di perdere potere, può pensarlo.

 

Questo è un fenomeno italiano o più ampio?

Stefano Zamagni: Ovviamente questo limite si manifesta anche a livello europeo. È fondamentale che i nostri rappresentanti nelle istituzioni europee abbiano il coraggio di spiegare che l’economia sociale non può essere declinata solo secondo il modello tedesco o, come auspicavano gli inglesi, quello americano. L’Italia contribuisce ai fondi europei, eppure il suo Terzo settore non riesce a ottenere in misura adeguata i finanziamenti dal Fondo Sociale Europeo come invece accade per Francia, Germania, Olanda e Belgio. Questo perché le regole fissate in sede europea non sono congruenti con il nostro modello di economia sociale. Un esempio concreto: recentemente Bruxelles ha sbloccato la questione del trattamento fiscale degli enti del terzo settore (ETS), otto anni dopo l’approvazione del Codice del Terzo Settore in Italia (nel 2017). Questo ritardo ha causato enormi perdite di opportunità per il nostro Terzo settore.

Non sono questioni astratte queste, ma problemi pratici con ricadute significative. Tuttavia, c’è un segnale positivo nella consapevolezza che sta crescendo, soprattutto tra i giovani. La letteratura su questi temi si sta diffondendo anche negli ambienti anglosassoni favorendo un dibattito ampio e costruttivo. L’Europa non può continuare a imporre un’unica concezione di economia sociale, perché l’Unione Europea che vogliamo è quella che crede alla “diversità concorde”, che riconosce e valorizza la pluralità delle esperienze. Il punto centrale è far conoscere la ricchezza di pensiero, oltre che di realizzazioni, della versione italiana di economia sociale, una versione che affonda le radici nei secoli dell’Umanesimo e del Rinascimento.

 

Rimanendo sul ruolo dell’Unione Europea, il Piano d’azione per l’economia sociale europeo che tipo di approccio ha e come è cambiata la sua impostazione anche rispetto a quelle che sono state le due Commissioni von der Leyen nel loro diverso orientamento politico?

Stefano Zamagni: Il punto è che, a livello di enunciazioni di principio e di discorsi ufficiali, tutti si dichiarano sostenitori dell’economia sociale, del volontariato e delle associazioni giovanili. Tuttavia, il vero nodo è come dare ali a questi principi. Il Terzo settore italiano è il più sviluppato in Europa, sia in termini quantitativi (in rapporto alla popolazione) sia per il tasso di innovatività. I soggetti di questo settore mai devono rinunciare ad affermare propria identità per un mero sostegno economico. Ricordo che nella tradizione italiana questi enti erano denominati OMI, cioè organizzazioni a movente ideale. Il problema di fondo è che molti non comprendono cosa sia realmente il Terzo settore e cosa spinga milioni di italiani, giovani e meno giovani, a operare per un ideale. Non è certo l’interesse economico, e neppure l’adempimento di un dovere civico. La seconda modernità, nella sua furia costruttivista, ha fatto di tutto per neutralizzare la terziarietà: tutto doveva rientrare o nello Stato o nel Mercato e ciò a seconda delle simpatie ideologiche dei vari attori. Il cambiamento oggi necessario è quello di superare questo schema, ormai datato e incapace di far presa sulla realtà. Gli ETS non possono più essere considerati semplicemente come soggetti per la produzione di quei beni e servizi che né lo Stato né il Mercato hanno interesse oppure la capacità di produrre. Al contrario, essi vanno visti come soggetti in grado di realizzare una specifica forma di governance basata sulla co-programmazione e sulla co-progettazione degli interventi. Questo implica che il Terzo settore non può esimersi dal porre in cima ai propri obiettivi la rigenerazione della comunità. È in vista di ciò che le norme e le regole per gli ETS devono essere tali da consentire a tali enti di realizzare pratiche di organizzazione della comunità (community organizing). È questo un modo di impegno politico complementare – e non alternativo, si badi – a quello tradizionale basato sui partiti, un modo che consente alle persone, la cui voce mai verrebbe altrimenti udita, di contribuire ad allargare lo spazio dell’inclusione sia sociale sia economica.

 

Un’ultima domanda più specifica da un punto di vista locale: come si inserisce in questo discorso il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna?

Stefano Zamagni: Quella del Piano metropolitano è una grande occasione. Bologna è sempre stata capace di proporre questo tipo di iniziative e spero che il Piano rappresenti un’esemplificazione concreta del principio di sussidiarietà circolare di cui ho detto. Questo sarebbe un bell’esempio che Bologna darebbe non solo all’Italia, ma all’Europa intera. Il Piano metropolitano è risultato dall’interazione dei tre vertici di cui ho fatto parola (Stato, mercato e società civile organizzata), che comprendono anche i sindacati nel Terzo settore, e quello sarebbe veramente un segnale radicale. Il concetto di Terzo settore ha origine in Italia nel 1200, con le confraternite delle Misericordie nate in terra di Toscana e Umbria e poi diffusesi altrove, in particolare in quella che oggi è l’Emilia-Romagna. Anche gli ospedali sono stati pensati e realizzati da queste confraternite, che sono l’equivalente delle nostre associazioni di volontariato odierne. In Italia vi sono milioni di difetti, ma dobbiamo essere consapevoli delle grandi virtù che altri non hanno. È nostro compito quello di farle conoscere, se veramente abbiamo a cuore il bene comune. Senza mai dimenticare che mens agitat molem, lo spirito vivifica la materia, come diceva Virgilio.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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