Scritto da Daniele Molteni, Riccardo Soriano
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Juan Antonio Pedreño è Presidente Social Economy Europe (SEE), Presidente Confederación Empresarial Española de la Economía Social (CEPES) e Cordnatore generale Euro-Mediterranean Social Economy Network (ESMED).
Da Presidente di Social Economy Europe, qual è, secondo lei, il contributo più significativo che l’economia sociale può offrire all’attuazione del Green Deal europeo e alla transizione giusta, in termini di sostenibilità ambientale, inclusione sociale e creazione di lavoro dignitoso? Come può rispondere alle sfide contemporanee superando le logiche economiche estrattive?
Juan Antonio Pedreño: Credo si possa affermare con convinzione che il modello d’impresa dell’economia sociale sia l’unico realmente in grado di affrontare le tre grandi sfide che oggi attraversano la nostra società. La prima è la promozione di una governance democratica, in quanto, in un contesto globale segnato da tensioni e derive autoritarie, rafforzare i sistemi democratici è un compito cruciale. La seconda sfida è la riduzione delle disuguaglianze, un impegno strutturale che l’economia sociale porta avanti con coerenza. La terza, non meno importante, è la sostenibilità: le imprese dell’economia sociale, per storia, missione e natura, sono profondamente radicate nei territori in cui operano e dimostrano un impegno concreto verso la salvaguardia dell’ambiente e la qualità della vita. Queste imprese non delocalizzano, restano dove sono nate, perché nascono radicate in un territorio e vivono in simbiosi con esso. Questo legame implica una cura e una responsabilità naturale verso l’ambiente circostante, per un ecosistema vivibile e per un benessere condiviso.
Diversamente da altri modelli d’impresa, che possono trasferirsi altrove da un giorno all’altro lasciando dietro di sé deserti produttivi e costi sociali, le imprese dell’economia sociale restano e si prendono cura del futuro dei luoghi in cui operano. Le imprese dell’economia sociale assumono una responsabilità profonda nei confronti della società, dell’ambiente e della qualità della vita delle persone. È un impegno che si traduce in pratiche concrete, che vanno dalla promozione di modelli energetici sostenibili alla salvaguardia delle risorse naturali. La loro adesione ai principi della sostenibilità non è una strategia di marketing, ma un elemento fondante della loro identità. È bene ricordare che il concetto stesso di responsabilità sociale d’impresa ha preso forma proprio grazie all’esperienza dell’economia sociale. Oggi molti altri modelli imprenditoriali rivendicano questa etichetta, magari perché creano qualche posto di lavoro o adottano pratiche simboliche. Tuttavia, quando si parla davvero di responsabilità sociale, l’esempio più autentico e duraturo resta quello delle cooperative e delle imprese dell’economia sociale, in particolare in Paesi come la Spagna, dove questo modello ha radici profonde e risultati tangibili.
In termini di relazioni con l’Unione Europea, come valuta l’evoluzione del riconoscimento istituzionale dell’economia sociale da parte delle istituzioni europee negli ultimi anni? Quali sono oggi le principali sfide da affrontare a Bruxelles per rafforzarne l’impatto e la visibilità, alla luce anche del possibile cambio di indirizzo politico della Commissione?
Juan Antonio Pedreño: Nel 2021 è stato presentato il Piano d’azione europeo per l’economia sociale, con un segnale chiaro dell’impegno che, in quel momento, tutte le istituzioni europee e internazionali dimostravano rispetto a questo tema. La pandemia da Covid-19 aveva messo in evidenza il valore di questo modello imprenditoriale, capace di rispondere in modo concreto e solidale alle esigenze della società. Negli ultimi quattro anni abbiamo lavorato allo sviluppo di quel Piano, ma con l’avvio di un nuovo ciclo politico, osserviamo una perdita di attenzione da parte dell’Unione Europea verso il sociale e, in particolare, verso l’economia sociale. Nel mandato precedente, due commissari – Thierry Breton per la DG GROW (Direzione generale del mercato interno, dell’industria, dell’imprenditoria e delle PMI) e Nicolas Schmit per la DG EMPL (Direzione generale per l’occupazione, gli affari sociali e l’inclusione) – garantivano un equilibrio tra la dimensione imprenditoriale e quella sociale del nostro ecosistema. Ora, questa doppia dimensione si è indebolita: la DG GROW ha abbandonato quasi del tutto l’economia sociale, perché le persone che lavoravano su questi temi non sono più operative in questo ambito. Al momento, l’unico punto di riferimento rimasto è la commissaria Roxana Mînzatu per la parte sociale. Il nuovo commissario per la DG GROW, Stéphane Séjourné, con cui ho avuto modo di confrontarmi personalmente, ha affermato che non ci sono motivi di preoccupazione. Ma nei fatti, la sua Direzione generale non fa più alcun riferimento all’economia sociale. Il messaggio che emerge è che l’economia sociale viene percepita come un ecosistema di beneficenza o secondario, e non come un attore economico e industriale a pieno titolo.
L’economia sociale in Europa conta 4,3 milioni di imprese, attive in settori strategici come l’industria e l’agroalimentare. Impiega circa 15 milioni di persone, una cifra superiore a quella del settore automobilistico. In alcuni Paesi, come la Spagna, genera più valore economico del turismo. Non possiamo permettere che un comparto di queste dimensioni venga marginalizzato. Per questo, come Social Economy Europe, abbiamo scritto alla presidente Ursula von der Leyen, incontrato commissari, avviato un’azione di pressing istituzionale per evitare che venga interrotto il percorso avviato. Siamo nel pieno di un punto di svolta per il Piano d’Azione Europeo: siamo a metà strada e non possiamo permettere che venga abbandonato. Quel piano è fondamentale, perché include politiche su aiuti di Stato, fiscalità, cooperazione, e sostegno alle imprese industriali dell’economia sociale. Rappresenta uno degli strumenti chiave per sviluppare uno dei 14 ecosistemi industriali prioritari individuati dalla stessa Commissione per il futuro dell’Europa.
La nostra richiesta è semplice ma urgente: recuperare il livello di attenzione e impegno istituzionale che l’economia sociale aveva conquistato. Lo chiedono anche organismi internazionali come l’OCSE, che monitora gli ecosistemi più favorevoli; l’ILO, che ha incluso l’economia sociale nella sua dichiarazione ufficiale; e le Nazioni Unite, che ne riconoscono il valore a livello globale. Anche le istituzioni europee – il Comitato Economico e Sociale, il Comitato delle Regioni, il Parlamento Europeo attraverso l’intergruppo sull’economia sociale – hanno sempre sostenuto e riconosciuto il ruolo fondamentale delle nostre imprese. Ricordo che il Piano d’Azione fu approvato con oltre 500 voti favorevoli in Parlamento. Per tutti questi motivi, è incomprensibile come la Commissione Europea stia indebolendo il suo impegno. Ora è il momento di unire le forze, di tutte le organizzazioni, per recuperare almeno il livello precedente di riconoscimento, e per garantire adeguate risorse finanziarie al Piano d’Azione nei prossimi cinque anni.
Negli ultimi mesi si è parlato del Piano ReArm Europe. Esiste, secondo lei, il rischio che un rafforzamento della spesa per la difesa – anche usata come leva per l’occupazione – possa sottrarre risorse a politiche di economia sociale, oppure è ancora prematuro trarre conclusioni?
Juan Antonio Pedreño: Credo che il tema abbia già due impatti ben visibili. Il concetto di “difesa”, introdotto di recente nei dibattiti strategici europei, sta rapidamente contaminando l’agenda dell’Unione. Fino a poco tempo fa, la difesa non rientrava nei principali piani di sviluppo, e si considerava un ambito da mantenere, non da potenziare. Oggi, invece, assistiamo a un cambiamento di rotta. Come economia sociale, non possiamo e non vogliamo avvicinarci a modelli d’impresa legati all’industria della difesa; non fa parte della nostra missione, non ci appartiene per natura né per valori. Questo incremento comporterà inevitabilmente tagli in altri capitoli della spesa pubblica. Se la politica non attribuirà un’adeguata importanza all’economia sociale, il rischio è che vengano penalizzate proprio quelle voci di bilancio che la sostengono. È un rischio reale, da evitare sia a livello nazionale che europeo. Stiamo insistendo affinché l’economia sociale venga riconosciuta come una priorità politica, anche all’interno della strategia per l’autonomia strategica dell’Europa, in quanto modello radicato nei territori, resiliente, capace di mantenere l’occupazione anche nei momenti di crisi. Se non viene trattato come una priorità, come sta purtroppo accadendo in alcune Direzioni generali della Commissione, allora si rischia un progressivo disimpegno anche sul piano finanziario.
Per riaffermare la centralità dell’economia sociale nell’agenda europea abbiamo bisogno del sostegno convinto dei governi nazionali, soprattutto di quelli che già mostrano sensibilità verso questo modello. Purtroppo, il nuovo orientamento ha già un effetto diretto sui bilanci pubblici. In Spagna, ad esempio, il budget per la difesa è destinato ad aumentare di due, tre o persino quattro punti percentuali. In Europa oggi si parla molto di riarmo, di dazi, di competizione industriale, e tutto questo ha ricadute dirette sulle scelte di bilancio. Nel 2027 si rinnoverà il quadro finanziario pluriennale dell’Unione Europea e abbiamo tempo fino ad allora per lavorare intensamente e far sì che l’economia sociale venga riconosciuta come una priorità strutturale. In fin dei conti, il bilancio europeo è un gioco a somma zero: se qualcosa diventa più importante, qualcos’altro rischia di esserlo meno. Per questo è fondamentale essere presenti, fare pressione, far capire che siamo una parte essenziale dello sviluppo europeo, nei territori e nelle comunità.
Sotto la sua guida, la CEPES (Confederación Empresarial Española de la Economía Social) ha rafforzato la rappresentanza dell’economia sociale in Spagna, che oggi è riconosciuta come uno dei Paesi leader in Europa in questo ambito. Quali strumenti politici, normativi e finanziari ritiene abbiano avuto maggiore efficacia nel sostenere lo sviluppo delle imprese sociali e cooperative nel Paese? E come potrebbero essere presi a esempio in altri contesti nazionali?
Juan Antonio Pedreño: È vero, oggi la Spagna rappresenta un punto di riferimento europeo per lo sviluppo dell’economia sociale, e questo è il risultato di un impegno politico e istituzionale molto forte. La nostra esperienza, credo, può offrire spunti utili per altri Paesi. Innanzitutto, siamo l’unico Stato dell’Unione Europea ad aver adottato una strategia nazionale per l’economia sociale, con oltre cento misure concrete e un budget dedicato. Questa strategia è uno strumento operativo, costruito e coordinato dal Ministero del Lavoro e dell’Economia Sociale, che riflette un impegno strutturale del governo verso questo ecosistema. In secondo luogo, durante il periodo post-pandemico, siamo stati gli unici a destinare fondi del Piano di Ripresa e Resilienza in modo specifico alla competitività delle imprese dell’economia sociale. Parliamo di 2,5 miliardi di euro, una cifra senza precedenti in Europa, che ha avuto un impatto diretto sul rafforzamento dell’ecosistema. Il terzo elemento chiave è la creazione di un Consiglio per la Promozione dell’Economia Sociale, un organismo istituzionale unico nel suo genere, dove siedono rappresentanti di tutti i ministeri, di tutte le regioni spagnole e delle principali organizzazioni dell’economia sociale, incluso CEPES. Questo forum garantisce un approccio trasversale e coordinato, secondo cui l’economia sociale non è più una competenza relegata a un solo dicastero, ma diventa una responsabilità condivisa da tutto il governo. Questa struttura ci permette di lavorare direttamente anche con altri ministeri, come il Ministero della Transizione Ecologica, che ha coinvolto le imprese dell’economia sociale per contrastare lo spopolamento delle aree rurali; il Ministero dell’Uguaglianza che promuove la parità di genere attraverso i valori e le pratiche dell’economia sociale; il Ministero dei Servizi Sociali che gestisce parte dei fondi dedicati; e recentemente un altro ministero ha creato un fondo di impatto da 400 milioni di euro per sostenere i progetti innovativi delle imprese sociali. Un quarto risultato significativo riguarda il ruolo di CEPES come organismo intermedio per la gestione diretta dei Fondi Sociali Europei Plus. Siamo stati la prima organizzazione in Europa, non governativa, a ricevere questo incarico. In due bandi abbiamo gestito circa cento milioni di euro, lanciando call per progetti rivolti alle nostre imprese, con l’obiettivo di migliorarne la competitività. Questo ci ha resi interlocutori riconosciuti non solo a livello nazionale, ma anche europeo.
Infine, direi che uno dei punti di forza più importanti è la diffusione capillare dell’economia sociale su tutto il territorio spagnolo. Tutte le regioni hanno oggi un proprio piano o strategia di sviluppo dell’economia sociale. Nella mia regione, Murcia, siamo arrivati al sesto patto regionale in vent’anni, con un investimento di 55 milioni di euro per creare 6.000 nuovi posti di lavoro. Questo approccio territoriale, replicato in molte comunità autonome, ha permesso un vero radicamento del modello. Tutto questo è stato possibile anche grazie al riconoscimento istituzionale della nostra organizzazione, che ci consente di portare proposte concrete ai tavoli politici e di vederle accolte grazie alla collaborazione tra istituzioni, regioni e rappresentanze dell’economia sociale per costruire un ecosistema favorevole. Questo modello può essere una fonte di ispirazione per molti altri Paesi.
Parlando di comparazione con contesti di altri Paesi, in Europa crescono le esperienze territoriali basate sulla co-programmazione e co-progettazione tra enti pubblici ed economia sociale, come nel caso del Piano Metropolitano per l’Economia Sociale di Bologna, che lavora su welfare di prossimità, sostenibilità, lavoro e abitare. Quanto ritiene strategica questa modalità di governance partecipata per affrontare le sfide sociali attuali e rafforzare l’innovazione sociale nei territori?
Juan Antonio Pedreño: La considero fondamentale. Questo tipo di approccio, basato sulla collaborazione tra istituzioni e attori dell’economia sociale, come dicevo, è decisivo per affrontare le sfide che ci attendono. È una modalità di lavoro che permette di generare risposte concrete e innovative ai bisogni sociali emergenti. In Spagna, esperienze come quella di Bologna sono presenti praticamente in tutte le regioni, grazie all’esistenza di strutture rappresentative dell’economia sociale in ogni territorio. Ma in tutta Europa iniziano ad emergere esperienze interessanti. In Francia, ad esempio, si lavora anche attraverso le Camere di Commercio locali; in Italia c’è il caso esemplare di Bologna, ma anche altri territori stanno lavorando in questa direzione; in Irlanda, nel Regno Unito e in Svezia ci sono segnali positivi, ma siamo ancora in una fase iniziale; mentre in alcuni Paesi dell’Est Europa, come la Bulgaria, stanno emergendo leggi specifiche sull’economia sociale, e in Slovenia si stanno avviando sperimentazioni legate alla digitalizzazione. Tuttavia, va sottolineato che la situazione è molto disomogenea: in 13 Paesi europei l’economia sociale rappresenta tra il 7% e il 12% dell’economia, ma in altri 14 Paesi si ferma tra lo 0,5% e il 2%.
Per questo motivo, come organizzazione rappresentativa, ci stiamo impegnando a trasferire le buone pratiche dai Paesi più avanzati a quelli dove l’ecosistema è ancora in fase nascente. Recentemente, a San Sebastián abbiamo organizzato un forum sull’innovazione imprenditoriale con una quarantina di imprese significative, per mostrare esempi concreti di come l’economia sociale può offrire risposte innovative. Il nostro compito è quello di rafforzare questi processi. Stiamo preparando anche una conferenza durante la prossima Presidenza danese dell’Unione Europea, a Copenaghen, per valorizzare queste esperienze. Ne abbiamo già realizzate in Svezia e in Polonia, dove sono emerse pratiche promettenti. Le sfide che ci troviamo ad affrontare sono molteplici: la questione abitativa, la transizione energetica, la digitalizzazione, l’inclusione sociale, il contrasto allo spopolamento rurale. L’economia sociale può dare risposte reali. In Spagna, per esempio, il governo ha annunciato un nuovo investimento per sostenere le cooperative di abitazione in diritto d’uso dedicate ai giovani. È una misura concreta, replicabile nelle varie regioni, che mostra come l’economia sociale possa contribuire in modo decisivo alla coesione sociale. Dobbiamo fare in modo che queste esperienze diventino sempre più condivise a livello europeo, lavorando su modelli di governance partecipata, capaci di mettere al centro i territori, l’innovazione sociale e la collaborazione pubblico-comunità.
Abbiamo parlato di differenti contesti territoriali e citato il caso di Murcia. Partendo dalla sua esperienza in associazioni di imprese sociali e cooperative come UCOMUR e UCoERM, quali elementi si può dire abbiano reso la regione di Murcia un laboratorio virtuoso per lo sviluppo delle cooperative e dell’economia sociale? Esistono buone pratiche locali, in questo caso, che ritiene esportabili in altri contesti europei?
Juan Antonio Pedreño: Uno dei principali ostacoli che abbiamo incontrato nello sviluppo dell’economia sociale a Murcia è stato la mancanza di visibilità. Spesso le persone non conoscono il modello cooperativo e, quando lo scoprono, sono già entrate nel mercato del lavoro. Per questo motivo, uno dei punti di forza della nostra strategia è stato iniziare a lavorare fin dalle scuole. Oggi abbiamo quasi 50.000 studenti inseriti nel circuito delle cooperative scolastiche, dai 2 ai 21 anni. Attraverso progetti educativi, attività e fiere scolastiche, trasmettiamo i valori cooperativi già dall’infanzia. Ogni anno organizziamo una fiera a cui partecipano oltre 3.000 bambini. Così, quando questi ragazzi crescono e pensano di avviare un’impresa, ricordano il modello cooperativo. Questo modello ha avuto un impatto diretto e da molti anni Murcia è la prima regione della Spagna per numero di cooperative costituite in rapporto alla popolazione. Solo nei primi quattro mesi di quest’anno ne abbiamo già create 60. Un altro elemento chiave è stato il lavoro sulla comunicazione. Per quindici anni abbiamo avuto un programma televisivo dedicato all’economia sociale, con testimonianze di cooperative, amministratori locali, rappresentanti politici. Da oltre vent’anni pubblichiamo ogni settimana otto pagine nei due principali quotidiani regionali, con storie ed esempi concreti, con l’obiettivo di mostrare come qualunque attività possa essere svolta in forma cooperativa.
Inoltre, abbiamo creato anche una rete capillare di consulenti, formati appositamente per orientare chi vuole avviare un’impresa: quando due, tre o quattro persone si presentano con un’idea, c’è sempre chi le informa sulla possibilità di svilupparla come cooperativa. A tutto questo si aggiunge, come ho già sottolineato, una forte volontà politica. Murcia è stata la prima regione spagnola a adottare un piano strategico per l’economia sociale, che oggi mobilita 24 milioni di euro ogni quattro anni, con fondi destinati alla creazione di occupazione, assistenza tecnica, sostegno all’ingresso dei soci, aiuti agli investimenti. Per fare un esempio concreto: se una nuova cooperativa investe 70.000 euro, può ricevere fino al 40% a fondo perduto. Infine, c’è il ruolo della nostra organizzazione nell’offrire supporto amministrativo, accompagnamento e accesso al credito, senza costi per i beneficiari. Questo sistema integrato ha reso Murcia un punto di riferimento nazionale, nel 2024 siamo stati riconosciuti come Capitale spagnola dell’economia sociale, e abbiamo già organizzato numerosi eventi per valorizzare questa realtà. Si tratta, in fondo, della combinazione di diversi fattori che fanno di Murcia un laboratorio virtuoso, con pratiche che, a mio avviso, possono essere adattate e replicate in molti altri contesti europei.
In qualità del suo ruolo di coordinatore della rete euro-mediterranea ESMED, quali opportunità vede nella cooperazione tra i Paesi del Mediterraneo, quindi anche fuori dal contesto istituzionale europeo, per rafforzare modelli economici basati sulla solidarietà, sull’inclusione e sulla sostenibilità integrale? Quali sono le principali difficoltà da superare in un contesto di crisi della globalizzazione e di ritorno dei nazionalismi?
Juan Antonio Pedreño: La rete ESMED (Euro-Mediterranean Social Economy) riunisce organizzazioni di diversi Paesi del Mediterraneo come Spagna, Francia, Italia e Portogallo, ma anche realtà come Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Turchia e Giordania. Proprio un grande evento in Marocco in estate riunirà oltre mille partecipanti da tutto il mondo, con l’obiettivo di riflettere sulle potenzialità della cooperazione nella promozione dell’economia sociale. A noi, come regione di Murcia, è stato chiesto di condividere l’esperienza delle politiche pubbliche che abbiamo sviluppato, e i risultati ottenuti. Tuttavia, bisogna essere realistici: non tutti i Paesi del Mediterraneo si trovano nelle stesse condizioni per avviare percorsi strutturati di sviluppo dell’economia sociale. Esistono differenze significative in termini normativi, politici ed economici; esperienze come quelle italiane o spagnole non sono sempre direttamente trasferibili, ad esempio, in contesti come Tunisia, Algeria o Giordania. Detto ciò, uno degli aspetti più importanti su cui lavoriamo è proprio lo scambio di esperienze e buone pratiche, cercando di capire se e come le politiche più efficaci possano essere adattate e applicate altrove. Ovviamente, serve sempre una mediazione culturale e istituzionale.
Paradossalmente, la crisi della globalizzazione, il ritorno dei dazi e le difficoltà legate alle catene globali del valore possono rappresentare un’opportunità per l’economia sociale, perché si torna a valorizzare il locale, il territorio. L’Unione Europea stessa sta puntando su una maggiore autonomia strategica. E in questo scenario, l’economia sociale ha molto da dire: in Spagna, ad esempio, oltre l’80% delle imprese di economia sociale opera su scala locale, regionale o nazionale. Solo alcuni settori, come l’agroalimentare o il tecnologico, sono proiettati verso l’export globale. In fiere e incontri in Marocco, abbiamo potuto osservare quanto il modello dell’economia sociale sia già radicato nel territorio, dove le persone producono, vendono e gestiscono le loro attività all’interno della comunità locale. Il nostro compito è mostrare come si possa mantenere questo radicamento territoriale, ma al tempo stesso innovare, crescere e migliorare la competitività.
Uno dei punti cruciali è ancora una volta il riconoscimento politico: se un Paese, come nel caso del Marocco, decide di impegnarsi seriamente nello sviluppo dell’economia sociale, può fare grandi passi avanti. In altri Paesi, invece, questo riconoscimento è ancora debole. Ecco perché insistiamo sull’importanza di promuovere una cultura istituzionale che valorizzi le imprese sociali. C’è un grande desiderio di apprendere da parte di molti attori del Mediterraneo, che sono ansiosi di conoscere cosa succede altrove, di sperimentare, di trovare soluzioni per rafforzare le proprie economie sociali. E in questo senso, la cooperazione euromediterranea ha ancora un potenziale straordinario da esprimere.