L’identità del movimento cooperativo. Intervista a Roberto Negrini
- 20 Gennaio 2025

L’identità del movimento cooperativo. Intervista a Roberto Negrini

Scritto da Giacomo Bottos

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Il 24 e 25 ottobre 2024 si è tenuta a Bologna la Biennale dell’Economia Cooperativa, dal titolo “Futuro Plurale”. L’evento ha riunito voci autorevoli del mondo della cooperazione, delle istituzioni, della politica e dei sindacati per due giorni di dibattito e riflessione con lo scopo di affrontare le grandi sfide globali attraverso il prisma della cooperazione, dell’inclusione, della solidarietà e dell’innovazione sociale.

Per approfondire i temi trattati abbiamo intervistato Roberto Negrini: Direttore della Biennale dell’Economia Cooperativa, Presidente di Legacoop Toscana dal 2015, Vicepresidente di Legacoop nazionale con delega alla cultura cooperativa e Vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza di Unicoop Firenze .

A questo link una pagina del nostro sito che approfondisce i temi trattati nella Biennale dell’Economia Cooperativa, che verrà progressivamente aggiornata con i link ai contributi e alle interviste che dedicheremo all’evento.


Nel suo intervento alla Biennale ha sottolineato come il rischio di omologazione delle cooperative rispetto alle altre imprese sia uno dei fattori di difficoltà per il movimento cooperativo. Come si è determinata questa parziale omologazione e quali sono le caratteristiche distintive della cooperazione che sono andate perdute o si sono ridotte? Perché è importante recuperarle?

Roberto Negrini: Nelle cooperative convivono due anime: quella sociale e quella imprenditoriale. Per sintetizzarlo, alla Biennale abbiamo detto che siamo fatti di numeri e di parole. Le parole rappresentano il motivo per cui ci si mette insieme: perché nasce una cooperativa, qual è il bisogno che spinge a unirsi e, attraverso un processo economico, risolverlo. L’obiettivo è offrire una risposta concreta alla società, a quel bisogno primario che richiedeva una soluzione. Negli anni, però, i fenomeni di mercato hanno portato a concentrarsi sempre più sull’essere impresa e meno sull’essere cooperativa. Si parla sempre più di numeri e sempre meno di persone. Questo è accaduto anche nei settori in cui le cooperative sono tradizionalmente attive, spesso caratterizzati da un basso valore aggiunto, come la manodopera. Basti pensare alla pandemia: siamo stati tra i protagonisti che hanno lavorato ogni giorno nei settori primari, nell’assistenza e nella presenza sul territorio. Tuttavia, il parlare più di numeri che di persone porta inevitabilmente a adottare strumenti e logiche tipiche dell’impresa capitalistica; a dimenticare la nostra vera natura. Quando le cooperative si omologano a questi modelli, quella che dovrebbe essere una caratteristica distintiva e virtuosa si trasforma in un limite. Per questo è fondamentale recuperare i valori originari della cooperazione, che mettono le persone e il bene comune al centro.

 

Nel contesto di questa evoluzione, possiamo parlare di una difficoltà del movimento cooperativo nell’aggiornare la propria cultura manageriale e organizzativa, sia a livello d’impresa sia a livello di movimento? È mancata forse una capacità di ridefinire la specificità del modello cooperativo rispetto al nuovo contesto? E quando, secondo lei, si è sviluppata questa sorta di subalternità alla cultura dominante?

Roberto Negrini: Per molti anni, la cultura cooperativa è stata una cultura derivata, strettamente legata ai grandi partiti di massa, come parte del movimento operaio e della sinistra, che proponevano una visione alternativa della società. Tuttavia, quel modello si è incrinato. Dalla forza delle istanze economiche e dall’edonismo reaganiano degli anni Ottanta, fino all’affermarsi del concetto di mercato uber alles, ogni schieramento politico è stato influenzato da questa ideologia. La tecnocrazia ha progressivamente preso il sopravvento sulla politica, modificando anche il modo in cui le cooperative affrontano il mercato e dialogano con le proprie basi sociali. Un esempio emblematico è rappresentato da quell’insofferenza, a tratti evidente in alcune parti della sinistra, nei confronti del popolo. Penso alla frase di Alfredo Reichlin sul “riformismo senza popolo”. Questa tendenza ha portato le cooperative a rischiare di trasformarsi in “cooperative senza cooperatori”: organizzazioni prive di una base solida che porti avanti quei valori fondanti. Quando manca una base consapevole e partecipativa, diventa più facile scivolare nei meccanismi dell’impresa tradizionale, adottando semplificazioni che possono rivelarsi un vero e proprio “virus”, potenzialmente letale per il modello cooperativo. Credo che i momenti cruciali di questo cambiamento siano coincisi con le grandi trasformazioni culturali globali: dagli Stati Uniti degli anni Ottanta all’Inghilterra di Margaret Thatcher, dove hanno prevalso modelli fortemente monetaristici. Questi hanno soppiantato una cultura che, senza essere completamente statalista, poneva al centro il welfare e un’idea di società capace di offrire risposte diverse.

 

La crisi del 2007-2008 ha segnato un cambiamento di fase sotto molti aspetti, avviando processi complessi e facendo emergere nuovi bisogni. Tuttavia, sembra che quei bisogni siano stati in parte soddisfatti da modelli di economia capitalistica, come la sharing economy e l’economia delle piattaforme, che hanno sfruttato strumentalmente parole chiave tipicamente legate alla cooperazione. Ritiene che quel momento rappresenti un’occasione mancata per il movimento cooperativo, o è pensabile che la cooperazione possa ancora recuperare un ruolo centrale?

Roberto Negrini: La crisi del 2007-2008 è stato un ulteriore scalino che ha spinto l’economia ancora di più verso modelli capitalistici. Di fronte alle crisi, ci si aspetta spesso un rafforzamento della socialità e una maggiore solidarietà, ma non è ciò che è accaduto dopo il 2008, e ancora meno nel 2020, con la pandemia. Ne siamo usciti, invece, con un capitalismo ulteriormente rafforzato. Questa situazione è legata alla mancanza di un’autorganizzazione della società capace di promuovere processi cooperativi; si possono avere progetti e visioni ambiziose a livello di gruppi dirigenti, ma senza un’organizzazione dal basso i processi non decollano. La sharing economy, per esempio, non è un’economia nata dal basso, ma è stata guidata dall’alto, dalle multinazionali che hanno colto l’opportunità di fare profitti. Come cooperazione, non siamo riusciti a intercettare quei bisogni emergenti perché ci siamo trovati privi di quelle “antenne sociali” che, un tempo, erano in grado di captare le esigenze della società, canalizzarle e trasformarle in processi cooperativi. Questi meccanismi, un tempo tipici del nostro modello, oggi non esistono più, e questo ci ha impedito di inserirci nelle attività produttive legate alla sharing economy. La vera domanda, quindi, è: come ripartire da questa situazione? Ed è una questione che riguarda non solo il movimento cooperativo, ma il mondo intero. 

 

Perché, ad oggi, mancano quei processi di auto-organizzazione presenti in altre fasi storiche?

Roberto Negrini: La distanza tra soci, società cooperative, movimenti, forze politiche e autorganizzazione a un certo punto è diventata così ampia da impedire la riattivazione di quei processi capaci di accorciarla. Parlando di processi, basti pensare alle cooperative di consumo come la Coop: non sono nate già come grandi cooperative, ma come risposte a esigenze di autorganizzazione partite dal basso, da ogni frazione, da ogni campanile. Questi processi, nati da necessità locali, hanno poi dato vita a un modello che seguiva il mercato cercando di “curarlo”. Oggi manca quell’organizzazione sociale e popolare che un tempo era la base per avviare percorsi cooperativi di questo tipo. E quando si tenta di avviarli dall’alto, spesso non funzionano.

 

La strategia, in questo contesto, quale potrebbe essere? Quali sono i bisogni principali a cui occorre dare risposta?

Roberto Negrini: Pensare a una strategia è un lavoro complesso e di lungo periodo. Si tratta di riattivare le antenne rivolte verso i vari settori della società per cogliere i bisogni emergenti e di ristabilire i rapporti. Nel farlo, bisogna anche accettare che, almeno inizialmente, l’autorganizzazione sarà più sociale che imprenditoriale. Una volta individuati questi bisogni, occorre lavorare per innestare soluzioni sostenibili, capaci di offrire risposte durature alle persone coinvolte, e magari anche a un pubblico più ampio. Tra i bisogni principali oggi c’è sicuramente quello legato all’invecchiamento della popolazione e alla sua riduzione. Questo fenomeno comporta un calo delle persone attive e un aumento delle richieste di servizi sanitari e di assistenza personale. La sfida è inventare modelli capaci di rispondere stando nella società e trovando forme organizzative adatte. Un altro tema urgente, che ricorda in parte gli anni Settanta, è il problema della casa. Per molte generazioni di italiani la questione abitativa non è stata un problema, ma oggi, per molti altri – italiani e nuovi italiani – rappresenta un ostacolo enorme. Questa situazione blocca lo sviluppo: le persone non riescono a spostarsi per lavoro a causa degli affitti insostenibili, e spesso sono costrette a rinunciare a occupazioni perché il salario non basta per vivere. Su questo tema, credo che la risposta non sia solo il social housing, che pure è un passo nella giusta direzione. Da cooperatore, penso che sia necessario rilanciare una vera cooperazione di abitanti, in grado di affrontare concretamente la questione abitativa. Infine, c’è il grande capitolo del lavoro, in particolare quello legato alle mansioni più umili. Serve una nuova forma di lotta e rivendicazione per ridare dignità al lavoro. La cooperazione, che è fatta al 90% di lavoro, si trova a fronteggiare un problema strutturale: in Italia, il lavoro non viene riconosciuto adeguatamente. Questo non può essere risolto dal singolo lavoratore, né solamente dai sindacati. Serve un movimento più ampio, anche culturale, che riconosca il valore del lavoro e si batta affinché una parte importante della ricchezza prodotta torni a chi la crea. Il lavoro genera valore; se tutti benefici vanno alla rendita o al capitale, perdiamo di vista il motore che crea beni e servizi. Ripartire dal lavoro significa ripartire dalle fondamenta della cooperazione.

 

In quest’ottica di costruzione di una prospettiva futura, che tipo di difficoltà esistono nella trasmissione della cultura cooperativa a una generazione che non ha conosciuto i processi del passato? Quali strumenti possono essere usati per costruire una nuova generazione di cooperatori?

Roberto Negrini: Trasmettere efficacemente la cultura cooperativa alle nuove generazioni è un lavoro non sempre facile perché, come dicevo prima, è assente una cultura popolare che non riguardava solo il cooperativismo ma faceva parte di un movimento più ampio, volto all’emancipazione e al miglioramento della società. Quel grande fiume culturale, che ha continuato a scorrere dal dopoguerra fino agli anni Ottanta-Novanta, si è progressivamente prosciugato. Quel che resta oggi sono soltanto residui, senza un flusso di nuova acqua. La vera sfida è riprendere e ricostruire quel fiume, canalizzando nuove energie e forze in un alveo capace di rigenerare non solo una cultura cooperativa, ma anche una cultura della solidarietà e della lotta alle disuguaglianze. In questo contesto, la cooperazione può tornare a trovare il suo spazio. Senza questa base culturale condivisa, però, è difficile immaginare che il movimento cooperativo possa prosperare da solo. È necessario partire da piccoli esempi sui territori, che possano fungere da avanguardie e ispirare qualcosa di nuovo. Bisogna creare modelli capaci di far innamorare le persone, che facciano battere il cuore; perché le cooperative, prima di tutto, devono generare sentimento. Se si parla solo di denaro, allora è meglio fare altro. Quello di riportare l’amore e la passione al centro del discorso è un piano di lavoro di lunghissimo respiro: la distruzione culturale avvenuta in questi anni non si ripara in breve tempo.

 

Dal punto di vista economico, la cooperazione è spesso concentrata in settori a medio-basso valore aggiunto, caratterizzati in passato da condizioni lavorative e salariali non sempre ideali. Questo potrebbe aver reso il modello cooperativo meno attrattivo, soprattutto per le giovani generazioni. È possibile immaginare una maggiore presenza della cooperazione in settori più innovativi e ad alto contenuto di conoscenza? Qual è la strategia per affrontare questo problema?

Roberto Negrini: Va detto che anche nei settori ad alto contenuto di conoscenza spesso troviamo un basso valore aggiunto. Pensiamo, ad esempio, al sociale: è un ambito dove operano uomini e donne altamente qualificati, spesso laureati, che svolgono attività fondamentali per la società, ma il loro lavoro non è riconosciuto adeguatamente dal punto di vista economico. In quei settori in cui invece “si guadagna molto”, il modello cooperativo è generalmente meno adatto, perché chi avvia un’impresa in tali ambiti lo fa per massimizzare il guadagno personale, magari con l’obiettivo di vendere a un prezzo elevato. La cooperazione, invece, trova la sua forza quando è alimentata da un grande ideale o da una motivazione profonda. Come accennato in precedenza, oggi il problema è proprio la mancanza di un grande ideale collettivo. In passato, i cooperatori provenienti da una tradizione comunista vedevano il loro impegno come parte di una missione: costruire una società migliore. Anche per i dirigenti questo era un progetto di vita, che coinvolgeva scelte personali come accettare stipendi più bassi per la causa comune. Oggi è difficile spiegare a un giovane perché dovrebbe rinunciare a una carriera in una società di consulenza a Londra per entrare in una cooperativa. Serve dunque ricostruire quella visione capace di ispirare una nuova generazione di cooperatori e di rendere la cooperazione attraente.

 

Questa strategia di lungo periodo, per ricostruire un movimento e un contesto, come si articola e come si coniuga con una strategia più istituzionale, ad esempio quella emersa dalla Biennale sulla costruzione di una politica industriale che includa la cooperazione come proposta per un diverso modello di sviluppo?

Roberto Negrini: Attualmente, nel nostro Paese, la cooperazione è già un soggetto rilevante, sia socialmente che economicamente. Non ripartiamo da zero: ci sono milioni di soci che si possono attivare o riattivare, e ci sono processi produttivi in forma cooperativa che continuano a funzionare. La strategia deve essere dunque quella di agire su due piani diversi, muovendosi contemporaneamente per bilanciare una visione di lungo periodo verso nuove prospettive con il rafforzamento dell’esistente e della consapevolezza delle risorse già disponibili. Quando citavo le rivendicazioni nel mondo del lavoro, mi riferivo a decine di migliaia di lavoratori nelle cooperative che possono, se mobilitati, diventare un motore per influenzare anche la politica e le istituzioni. Questa è una parte del percorso, ma anche in questo settore non basta seguire un’unica strada. Valorizzare la solidità delle cooperative esistenti significa attivare nuovi processi di welfare, consapevolezza e spinta sociale. Un esempio è quello di Unicoop Firenze che ha organizzato una raccolta per Gaza. Certo, può sembrare una goccia nel mare, ma coinvolgere decine di migliaia di persone che, facendo la spesa, contribuiscono a una causa, significa creare un processo di consapevolezza. Non siamo una realtà ridotta e dobbiamo essere consapevoli che possiamo contare su un numero di persone importante. Se vogliamo diventare di più, però, dobbiamo agire anche all’esterno.

 

Nel contesto toscano o emiliano-romagnolo sono da molto tempo presenti importanti reti di relazioni con le amministrazioni locali e con la società organizzata. Qual è la situazione in quei territori dove non è presente questa storia e quali sono le differenze? Esistono casi di successo di costruzione di un tessuto di realtà cooperative?

Roberto Negrini: In Sicilia un esempio importante è quello dell’esperienza dei trasportatori di Geotrans, portata all’attenzione anche dal Presidente Mattarella. Pur senza un contesto culturalmente simile a quello dell’Emilia-Romagna o della Toscana, alcune proposte con impatti positivi sulla qualità del lavoro hanno funzionato anche in altri territori. È vero però che spesso la cooperazione fatica a radicarsi in quelle regioni dove manca una tradizione consolidata. Ad esempio, la cooperazione di consumo al Sud non ha avuto grande successo e in Campania si è persino ritirata. In quelle aree esistono comunque realtà attive in campo sociale, anche se non sono paragonabili a quanto è presente a Bologna o a Modena, dove la cooperazione è parte integrante della cultura locale.

 

Da quali buoni esempi o esperienze promettenti bisognerebbe prendere spunto? Quali sono le realtà che varrebbe la pena imitare e diffondere?

Roberto Negrini: Gli esempi positivi sono numerosi, e tra loro possiamo segnalare: le startup cooperative, le varie tipologie di cooperative di comunità o le iniziative di ripresa di processi industriali, spesso inascoltate dalla politica ma che possono accendere un’idea di ripartenza. Le cooperative di comunità rappresentano un soggetto importante perché vanno spesso a contrastare lo spopolamento di molte aree d’Italia. Un esempio su tutti è quello della cooperativa Teatro Povero di Monticchiello nella Provincia di Siena, sorta cinquant’anni fa, che ha dimostrato come mantenere attiva una popolazione su un territorio attraverso la socialità, l’economia e la coesione sociale. Poi ci sono esperienze che vanno verso tentativi di reindustrializzazione, come la battaglia che stanno portando avanti gli operai della ex GKN di Campi Bisenzio, che vivono la difficoltà di trasformare un processo di lotta in una esperienza cooperativa. Ho parlato del mio territorio, la Toscana, ma in tutta Italia ci sono tante esperienze utile a comprendere le possibilità di rivitalizzare dei contesti fornendo quella nuova spinta al sentire cooperativo di cui parlavamo in precedenza.

 

Soluzioni come il workers buyout e i processi di reindustrializzazione, quando funzionano, possono essere anche un modo per acquisire una presenza anche in nuovi settori del mondo produttivo?

Roberto Negrini: Certamente possono rappresentare una possibilità concreta in quella direzione, o anche solo uno stimolo a provarci. Spesso, quando un’azienda è in crisi, i consulenti suggeriscono di chiudere e vendere. Credere nella possibilità di ripresa significa mobilitare operai che lavorano più ore, raccolgono fondi e si impegnano per far funzionare il progetto. Questo spirito è ciò che ha originato molte cooperative in passato che, contro ogni previsione, sono riuscite a costruire con successo processi nuovi. Un altro ambito da esplorare è l’agricoltura, soprattutto al Sud, dove è necessario creare le condizioni per uno sviluppo legale e sostenibile.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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