Recensione a: Massimiliano Cannata (a cura di), La città per l’uomo ai tempi del Covid-19, Testi di Giovanni Maria Flick, Luca Bergamo, Margherita Petranzan, Franco Purini e Salvatore Settis, La Nave di Teseo, Milano 2020, eBook, 9,99 euro (scheda libro)
Scritto da Gabriele Giudici
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Le città: da fine a mezzo dell’economia globale
Le città rispecchiano la società in quanto espressione delle relazioni sociali che abitano nei luoghi e tramite essi si manifestano. Risulta facile intuire, quindi, la forza dirompente che l’epidemia di Covid-19 ha avuto nel plasmare i luoghi del nostro abitare poiché l’urbano si è modificato in un tempo ridottissimo, di pari passo all’evoluzione delle normative imposte per diminuire il contagio. Ecco quindi che le città si sono manifestate in una dimensione nuova, in cui l’essenza stessa dell’urbano, ovvero l’aggregazione, è venuta a mancare. Per analizzare il punto delle riflessioni e i possibili sviluppi o, più probabilmente, quelli augurali, La Città per l’uomo ai tempi del Covid-19, edito da La Nave di Teseo a cura di Massimiliano Cannata è, per usare le parole dello stesso curatore: «Un agile pamphlet per una riflessione corale sul futuro delle nostre città e della nostra società dopo il trauma dell’epidemia da Covid-19».
All’interno di questo volume, che prende le mosse da una riflessione dell’ex-ministro Giovanni Maria Flick, emerge la volontà manifesta di una serie di autori di analizzare gli indirizzi programmatici da poter attuare all’interno dell’evoluzione del contesto urbano. Perché è certamente vero che l’epidemia ha portato a problematiche cogenti, ma allo stesso tempo bisogna altresì riconoscere che alcuni cambi di passo resteranno a lungo, e forse per sempre, all’interno del tessuto urbano come evidenziano non solo gli autori di questo testo, fra cui Franco Purini, ma anche altri eminenti architetti, sociologi e urbanisti. Le città si modificano e si adattano ad un mutato ordine delle cose, recependo la praticità degli insegnamenti più vantaggiosi: economicamente, tecnicamente e socialmente. Fu la tubercolosi a spingere all’utilizzo di ampie finestre in molti edifici di numerose città europee, così come le necessità difensive spinsero alla creazione di fortificazioni nel Medioevo o come il secolo delle rivoluzioni parigine portò alla necessità di controllare gli stretti vicoli della Parigi di Napoleone III, obbligando Haussmann a ipotizzare, disegnare e creare i grandi boulevard della capitale francese contemporanea. Ad ogni azione corrisponde una reazione, la società e le città che da essa traggono sinergicamente spirito di vita e mutamento, si adattano[1] sfuggendo a vuoti storici in una vorticosa competizione che, traslata sul piano del presente, porta ad un dibattito globale in cui il global ranking delle metropoli neoliberali è l’unico metro di paragone per un pieno riconoscimento oggettivo dello sviluppo urbano.
Ecco che quindi l’epidemia non si è fermata a mostrare i limiti dello sviluppo e le sue contraddizioni interne, come affermato da Luca Bergamo, vicesindaco di Roma; ma ha manifestato l’apparato irresistibile delle città globali. Il rapporto con i luoghi dell’aggregazione, della cultura e dei servizi cessa di esistere, rivoltandosi in scheletri urbani che non possono essere più utilizzati in quanto organicamente contrari alla nuova disposizione sociale. La casa diventa il luogo preponderante ed essenziale dello scambio personale e lavorativo, mediato da un computer e dalla digitalizzazione pervasiva. Ecco quindi che la tecnica si rafforza, diventa totalizzante, aumenta la propria efficienza, garantisce lo sviluppo economico ma stavolta in una dinamica ancor più distruttiva della realtà umana e dello sviluppo cittadino. Questa prospettiva apre nuovi interrogativi e bisogni soprattutto sulle tutele: in che modo potrebbero riorganizzarsi le forme di rappresentanza dei lavoratori all’interno di un contesto di lavoro agile? Se prima la tecnica dettava lo sviluppo economico tramite gli hub globali delle città, ora detta lo sviluppo dell’economia globale in una serie di infiniti luoghi privati, per i quali il rapporto lo spazio pubblico è sempre meno importante, facendo cadere le prospettive della contaminatio posta alla base, (dalla stessa Sassen[2] e prima da Lefebvre[3]), dello sviluppo delle downtown direzionali.
Le città nella società italiana attuale, nonostante sempre Bergamo le identifichi come diverse e soprattutto inadatte, sono lontanissime dalle logiche di produzione/consumo dello sprawl urbano in cui furono in larga parte edificate, ma diventano sempre più subordinate alle logiche di sviluppo dell’economia globale. Il consumo dei luoghi è stato reso palese dall’abbandono dei centri urbani, dimenticati, lasciati a se stessi e spogliati della propria unicità e peculiarità, anche abitativa. Le periferie, invece, nel lockdown si sono mostrate luoghi vivi ma privi di servizi, i veri motori pulsanti del contesto sociale, in cui si manifestavano le contraddizioni di classe.
Siamo però di fronte ad uno scenario inedito, nel quale le necessità del sistema produttivo e della struttura cittadina si sono organizzate in modo da non prevedere la possibilità di una fluttuazione così ampia dell’errore e dell’allocazione. Il blocco imposto ha sconquassato abitudini e consumi e, seppur una parte di questi cambiamenti può avere una potenza momentanea, non è scontato che ci siano delle accelerazioni relative a processi già in atto da tempo.
Alcuni di questi processi possono essere visti nei settori che più di altri sono stati modificati come metodo di fruizione. Si tratta propriamente di un cambio delle modalità di consumo e dei rapporti di produzione. Il primo è la vendita al dettaglio della maggior parte degli articoli non alimentari. Le cifre complessive parlano di circa 4,7 miliardi di euro di aumento per il 2020 per gli acquisti tramite e-commerce in Italia. Inutile rimarcare l’enorme impatto urbano di questo cambiamento, soprattutto nei territori periferici e rurali in cui centri storici, e non solo quelli di realtà di piccole dimensioni, resteranno sempre meno popolati da strutture commerciali, con il rischio di un peggioramento qualitativo della vivibilità dei luoghi aggregativi, oltre che della presenza di notevoli vuoti urbani dovuti all’abbandono di centri commerciali e rivenditori, incapaci di essere reinventati in differenti gestioni o usi.
Un altro spazio che ha subito un totale ripensamento a seguito della pandemia da Covid-19 è certamente è quello rappresentato dagli uffici, il cui ruolo trova declinazioni inaspettate, non prive di contraddizioni. La situazione di smartworking prolungato (già previsto per tutto il 2020 e buona parte del 2021, e anche oltre da alcune aziende), ha comportato un cambio epocale dei rapporti di lavoro, dei flussi di trasporto e della vivibilità delle città, fino a sfociare nell’immobiliare residenziale, integrandosi con esso. Analogamente, anche tutti i servizi residenziali per studenti hanno subito le stesse conseguenze, con una dilagante diminuzione della presenza nei centri urbani a causa dell’incertezza portata dal virus e dall’utilizzo esponenziale della didattica a distanza.
Siamo così arrivati alla considerazione per la quale la crisi ha sia accelerato processi in atto, sia mostrato le nuove logiche dominanti della produzione finanziaria che regolano i rapporti urbani. Si ritiene dunque che la crisi abbia mostrato in maniera molto chiara alcuni dei limiti economici del nostro modello di sviluppo. Certamente sono state rimarcate le ghettizzazioni salariali e sociali conosciute da tempo nell’ambito della crescita delle disuguaglianze, ma la crisi in atto non ha certo modificato il potenziale dei risvolti economici sul lungo periodo. È ipotizzabile che la forza economica del capitale globale non solo si possa parcellizzare sempre più sul territorio, ma che possa puntare maggiormente anche in ottica formativa e aggregativa. Le città assumono quindi sempre di più l’onere non tanto di essere attrattrici di capitale ma di essere catalizzatrici dell’innovazione.
A questo si aggiunge il fatto che, come ricordato nell’ultimo capitolo da Salvatore Settis, le città vivono già un totale ridimensionamento, se non una alienazione dalla loro dimensione storica. L’autore non parla delle teorie novecentesche della “città infinita”, quanto piuttosto di una infinità di identità particolari che compartecipano alla disgregazione dell’aggregazione cittadina. Lo sprawl e il lento divorare del cemento non pone più la contrapposizione fra città e campagna, ma le integra in un disegno a maglie di interconnessioni vorticose in cui metro di paragone diventa solo la densità di capitale umano e di capacità di consumo[4]. Emerge dal testo una poetica e auspicabile volontà di ritorno ad una dimensione più naturale dell’uomo nella sua accezione non storica quanto sociale. Parole e volontà che però sembrano smentite nei fatti dal momento che l’evolversi dell’economia e della tecnica risulta non solo non essersi fermato durante questi mesi di epidemia ma pare essersi intensificato più che mai.
Non si tratta solo di risvolti finanziari ma anche sociali. Le città, limitate nella loro naturale vocazione di aggregazione e creazione di momenti di valore culturale e di scambio, si sono riadattate con una velocità agghiacciante nella loro logica funzionale. D’un tratto la manifestazione delle reti di contatto umano, definite e palesatesi come non necessariamente utili nella meccanica della città, sono cadute senza lasciare rimandi così profondi. Si tratta della manifestazione plastica del fatto che le città, soprattutto quelle definite “globali’’ dalla sociologia urbana contemporanea, non sono altro che la manifestazione concreta del capitale finanziario. Le città, a partire dagli anni Settanta, non sono più il teatro dello scontro fra il profitto e la redistribuzione, ma sono sottoposte a valori di definizione delle rendite della finanzia globale, che esautorano i sistemi di governo del territorio (soprattutto politici) e trasformano i valori di rendita immobiliare come parte integrante di un processo di accumulazione di profitti.
In questo senso le città non sono più il fine che, per mezzo dell’economia, alimentano la propria rigenerazione continua, ma sono diventate il mezzo di cui si serve l’economia globale per rigenerare continuamente se stessa, talvolta con metodi estrattivi e predatori. Questa inversione di mezzo e fine è propria dell’approccio imperante e necessario della tecnica[5], che pone all’uomo urbano il bisogno di interrogarsi sui processi che regolano lo schema dell’agire. La realizzazione di un miglioramento urbano immaginata da Flick e analizzata nei sui residui da Petranzan potrà evolversi, come traspare dalle righe da loro scritte, solo se la popolazione, all’interno di un processo democratico, sarà in grado di ridefinire le regole dell’agire non solo urbano ma economico e sociale.
[1] A. Petrillo, Villaggi, città, megalopoli, Carocci, Roma 2006.
[2] S. Sassen, Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna 2010.
[3] H. Lefebvre, Il diritto alla citta, Marsilio, Padova 1970.
[4] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino1967.
[5] E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998.