Scritto da Andrea Garnero, Roberto Mania
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«Sono trent’anni che i redditi dei lavoratori italiani non crescono. Un’anomalia assoluta tra le economie avanzante con caratteri quasi strutturali e conseguenze negative sul piano economico e sociale. Una questione che riguarda il lavoro povero ma anche la fascia medio alta. Perché è accaduto? E, soprattutto, come se ne esce?».
In La questione salariale (Egea 2025) Andrea Garnero e Roberto Mania esplorano le cause profonde di quella che è una “questione italiana”: dalla fine della scala mobile al blocco della produttività; dalle trasformazioni nel mercato del lavoro al ruolo dei contratti collettivi; dagli effetti della globalizzazione alla rivoluzione tecnologica. Riflettendo anche sulle possibili soluzioni per evitare che la stagnazione dei salari diventi una condanna definitiva. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Egea, un estratto del libro.
Il lavoro salariato non è finito, è sopravvissuto ai computer e ai robot, smentendo chi ne aveva preconizzato la morte. Di più: nei Paesi OCSE non ci sono mai stati tanti lavoratori dipendenti come in questi anni. È un riscatto del lavoro, un po’ anche in Italia. Però c’è un problema: si chiama questione salariale. Riguarda in particolare il nostro Paese dove i redditi dei lavoratori dipendenti a parità di potere d’acquisto sono scesi del 3,4 per cento rispetto al 1991. Come se trent’anni fossero passati invano. Una frenata così non si è vista in nessuna delle altre economie sviluppate. Perché? Cosa è successo?
Abbiamo accettato la proposta dell’Editore di affrontare questo tema attraverso un dialogo. Parlandone, innanzitutto. Da prospettive diverse, per formazione intellettuale, professionale e generazionale. Ciascuno di noi ha mantenuto il proprio punto di vista, i propri strumenti di indagine. Per quanto sia evidente un approccio comune, provando a lasciare da parte pregiudizi e tesi preconfezionate. A quelle domande ci piacerebbe dare una risposta semplice, per esempio che è colpa di avidi capitalisti oppure di sindacati che difendono i nullafacenti e bloccano ogni cambiamento, come negli anni qualcuno ha detto. Purtroppo, è decisamente più complesso di così.
Questo libro è frutto di sei conversazioni a distanza, l’uno collegato da Parigi e l’altro da Roma. Del dialogo mantiene sostanzialmente la spontaneità, l’immediatezza, la forma. Va da sé che su alcuni punti siamo intervenuti anche successivamente per definire meglio qualche passaggio, per ricordare con precisione i numeri, per indicare i possibili confronti. Ad ogni conversazione sono seguiti molti altri scambi, spunti improvvisi e pure ripensamenti. Qualche amico e familiare ha anche letto una prima bozza dandoci suggerimenti preziosi per integrare o chiarire i nostri ragionamenti. Ma resta un dialogo. Che è poi – pensiamo – quello che servirebbe su scala nazionale per trovare soluzioni condivise ai bassi salari che continuano a costituire un’emergenza economica, sociale e anche politica. Un problema strutturale del nostro Paese. Questa è la questione salariale.
Questione complessa. Riguarda l’Italia intera, il modo con il quale si è adagiata di fronte ai cambiamenti della globalizzazione e della rivoluzione informatica. Abbiamo giocato in difesa la partita nel nuovo mondo, con la (notevole, ma non sufficiente) eccezione di alcune medie e grandi aziende, in particolare nell’industria, che ancora ci consentono di essere la seconda manifattura d’Europa. Ma per il resto, negli anni, abbiamo soprattutto concentrato gli sforzi sulla difesa di tutte le produzioni, anche se povere e senza futuro, invece di investire in quelle a più alto valore aggiunto. Per restare in piedi, dopo averlo fatto tanti anni con la lira, abbiamo di nuovo svalutato, ma questa volta il lavoro, diventato – appunto – mal pagato. Ed è un tema che riguarda la parte bassa della distribuzione, i lavoratori poveri, ma anche quella medio-alta su cui, poi, a valle, incombe il grosso della fiscalità che sostiene il nostro Welfare State.
Concentrati sul difendere l’esistente, non abbiamo sfruttato le potenzialità che si aprivano. A causa dell’inefficienza della pubblica amministrazione, della carenza di adeguate infrastrutture fisiche e digitali, dell’eccessiva diffusione delle micro o piccole imprese e della loro scarsa managerializzazione, dei ritardi nei processi di formazione scolastica e di apprendimento continuo, della debolezza della contrattazione di secondo livello. Ma la causa è da cercare anche in una narrativa diffusa che ci ha portato a credere che potessimo vivere di turismo o edilizia, due settori che non eccellono certo in termini di salari e condizioni di lavoro, o del consolatorio slogan “piccolo è bello”.
La nostra stagnazione salariale, infatti, si è mossa parallelamente al blocco della dinamica del PIL e della produttività, un unicum davvero assoluto tra i Paesi OCSE, l’organizzazione dei Paesi più sviluppati. Se si alza lo sguardo dalle buste paga ai processi macroeconomici ci si accorge, infatti, che tutto si tiene e, a tratti, si autoalimenta. Da una parte, i salari non crescono perché siamo poco competitivi e la produttività stagna. Ma senza pressione dal lato dei salari, anche gli incentivi a investire in nuove tecnologie, formazione, nuovi prodotti e processi sono pochi. Si prova a vivacchiare. E poi c’è il peso del carico fiscale che pende fortemente dalla parte del lavoro dipendente e delle grandi aziende, molto meno dalla parte del lavoro autonomo e delle piccole e microimprese individuali. Nonostante sia ormai chiaro che sotto una certa dimensione non si riesce ad essere competitivi, ancora un sacco di norme disincentiva le aggregazioni o la crescita dimensionale delle aziende italiane.
In un “Paese troppo lungo” – come Giorgio Ruffolo definì l’Italia – descrivere un fenomeno usando le medie rischia di far passare in secondo piano pezzi importanti della storia. La questione salariale non è la stessa per donne e uomini, per chi ha un lavoro a tempo parziale e chi a tempo pieno o per chi è entrato da poco nel mercato del lavoro e chi invece è prossimo alla pensione. E poi c’è l’inflazione che si è riaffacciata prepotente e temibile come sempre per chi sta in basso alla scala sociale, che appare anch’essa nuovamente bloccata, dopo alcuni decenni in cui anche l’operaio poteva sperare nel figlio dottore. Difficile argomentare che oggi è attraverso il lavoro che si scalano i gradini della scala sociale. Anche questo contribuisce a svalutare l’idea di lavoro stesso.
Storicamente, in Italia, è alle parti sociali (sindacati e associazioni di imprese) che è stato affidato il compito di fissare le retribuzioni dei lavoratori attraverso la contrattazione. L’autorità politica dal dopoguerra in poi ha scelto – con buone ragioni dopo l’esperienza del corporativismo fascista – di restarne fuori. Dopo quasi ottanta anni, però, è lecito chiedere un tagliando alla delega che è stata data a sindacati e organizzazioni datoriali. Entrambi soffrono della crisi che ha colpito i corpi intermedi (anche se a dire il vero se la cavano ancora meglio di altri) e scontano un’eccessiva tentazione di fare da supplenti alla politica. In certi settori subiscono e non governano le conseguenze della trasformazione dei processi produttivi e del passaggio dalla stagione del “Lavoro” a quella dei “lavori”. Il risultato è che oggi nuovi attori, come la magistratura, provano a riempire i vuoti nella politica salariale che la contrattazione “storica” non riesce a riempire.
Così è (ri)emersa la discussione sul salario minimo che già aveva fatto capolino in decenni passati. Per ora si è deciso di non farne niente anche perché la disputa è finita in opposte tifoserie. Deve ancora maturare un dibattito puntuale su forze e debolezze di questo strumento e di come possa convivere con il sistema di contrattazione che in tanti settori ancora rappresenta una garanzia che nessuna legge potrebbe rimpiazzare. L’Italia non è la prima a porsi questi problemi e il dibattito nostrano ha notevoli somiglianze con quello che ha preceduto l’introduzione di un minimo legale nel Regno Unito e in Germania. L’esito probabilmente sarà lo stesso. Tuttavia, non dobbiamo illuderci che siano leggi o decreti a creare lavoro o aumentare i salari. Non c’è una via legislativa allo sviluppo che, invece, dipende dalla capacità di innovare e poi di adattarsi, come accadde nel dopoguerra del miracolo economico.
Ragionare intorno alla questione salariale, allora, vuol dire riflettere sul nostro Paese, sui suoi troppi dualismi, sulle norme e le pratiche che si sono affastellate nel tempo così come sulle sue forze e potenzialità. Il dinamismo del mercato del lavoro negli anni dopo il Covid-19 dimostra che non siamo condannati alla stagnazione. “Eppur si muove”: ci può essere anche nel nostro Paese una via alta allo sviluppo. E, dunque, questo dialogo è anche un breve viaggio in Italia, per capire come ritornare a crescere e aumentare i salari. Ritrovando un interesse comune.
Nota per il lettore: le opinioni espresse in questo libro da Andrea Garnero sono personali e non coinvolgono l’organizzazione di appartenenza.