L’impero del dollaro: un estratto dal libro di Kenneth Rogoff
- 17 Giugno 2025

L’impero del dollaro: un estratto dal libro di Kenneth Rogoff

Scritto da Kenneth Rogoff

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In L’impero del dollaro. Lo sguardo di un insider su sette turbolenti decenni di finanza globale e il futuro che ci attende (edito da Bocconi University Press con prefazione di Andrea Sironi), l’economista Kenneth Rogoff ripercorre l’ascesa della valuta americana al vertice globale.

Attingendo anche dalle sue esperienze dirette vissute a contatto con decisori politici e leader mondiali, Rogoff racconta l’eccezionale corsa del “biglietto verde” nel dopoguerra: come ha superato lo yen, il rublo e l’euro, e le sfide che oggi si trova ad affrontare – dalle criptovalute allo yuan cinese, dalla fine di un’epoca di tassi d’interesse e inflazione costantemente bassi fino all’instabilità politica e alla possibile disgregazione del blocco geoeconomico del dollaro. Non è affatto scontato, infatti, che l’era della “Pax Dollar” sia destinata a durare per sempre.

Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Bocconi University Press / Egea, un estratto tratto dall’introduzione del libro.


La creazione di una valuta dominante

Prima di tuffarci nell’odissea del dollaro e in parte anche nel mio viaggio personale nel tentativo di comprenderlo, è utile preparare il terreno condividendo alcuni fatti chiave. Forse la cosa più importante da sapere è che lo scettro della valuta dominante, nel mondo, non passa di mano molto spesso. La norma è che questo accada ogni uno o due secoli, e la transizione è tipicamente segnata dalla coesistenza della vecchia valuta dominante e del sopraggiunto nuovo campione. In questo senso, l’era del dominio del dollaro, durata poco più di un secolo, può essere stimata in una fase avanzata della sua mezza età. Il conflitto gioca tipicamente un ruolo importante nel cambio della guardia, anche se l’innovazione può essere un fattore determinante, cosa che accadde, per esempio, nel caso degli olandesi. Nel XVII secolo i Paesi Bassi detenevano il ruolo di valuta dominante, grazie soprattutto all’innovazione del far circolare banconote bancarie sostenute da monete d’argento, chiamate “florin”, accanto al fiorino olandese.

Anche se la stampa finanziaria pubblica regolarmente articoli su leader stranieri o innovatori della Silicon Valley che si vantano di voler sostituire il dollaro, in realtà il “verdone”, a oggi, governa il sistema finanziario globale come nessuna valuta ha mai fatto in precedenza – non i “pezzi da otto” spagnoli del XVI secolo, né successivamente il fiorino olandese, né la sterlina britannica al suo picco, dalla fine delle guerre napoleoniche fino alla Prima guerra mondiale – quando il sole sull’Impero Britannico non tramontava mai. Il dollaro è l’indiscussa lingua franca degli attuali mercati commerciali e finanziari, altamente globalizzati. In effetti, la portata dell’essere la valuta mondiale dominante si è notevolmente ampliata per via della globalizzazione e dell’evoluzione del sistema finanziario; la peseta spagnola era poco significativa nell’India e nella Cina del XVI secolo, mentre il dollaro svolge un ruolo centrale in tutta l’Asia, almeno per ora.

Dal punto di vista di tutto il resto del mondo, il tratto meno attraente dell’attuale regime è che, sebbene i Paesi abbiano fiducia nel fatto che gli Stati Uniti non facciano default (non chiedetelo alla Russia o alla Cina), essi hanno ancora ampia libertà di usare l’inflazione per diminuire il valore reale del loro debito. Un’esplosione inaspettata dell’inflazione equivale, dopo tutto, a un default parziale, perché il governo si ritrova a ripagare il proprio debito in dollari che hanno un potere d’acquisto molto inferiore a quello originariamente previsto al momento dell’emissione del debito. Questo è precisamente quel che è accaduto negli anni Settanta, quando le banche centrali europee hanno visto collassare il valore delle loro riserve di dollari. E, naturalmente, il potere d’acquisto del dollaro è di nuovo e improvvisamente crollato dopo la pandemia.

Per i detentori di bond, l’inflazione è il flagello della moneta moderna emessa dai governi. E il rischio di un’inflazione elevata rimane il tallone d’Achille del sistema. Certo, la banca centrale degli Stati Uniti – la Federal Reserve – può promettere di non consentire mai un’impennata dell’inflazione. Ma se gli obiettivi di inflazione della Federal Reserve sono considerati sacrosanti, qual è la valvola di sicurezza per un debito insostenibile o per costi imprevisti, in futuro (per esempio, esigenze di difesa d’emergenza, transizione ecologica o un’amministrazione presidenziale fuori controllo)? L’austerity? La repressione finanziaria (detenzione forzata del debito a bassi tassi di interesse)? Il default vero e proprio?

Intendiamoci, l’inflazione esisteva anche prima della stampa della moneta, ma era molto più difficile che si verificasse. Quando le monete erano fatte di metalli preziosi, un governo che volesse diminuire il valore della propria moneta – ossia inflazionarla – avrebbe dovuto ritirare le proprie monete e poi ristamparne di nuove con un contenuto d’argento inferiore. A volte le vecchie monete venivano semplicemente mozzate o smussate, e poi rimesse in circolazione. Tale svalutazione può essere facilmente osservata nelle esposizioni dei moderni musei numismatici, come quelli di Tokyo, Gerusalemme e Dresda: se si mettono in fila le monete di una nazione nel corso dei decenni e dei secoli, è piuttosto usuale che la contrazione si veda.

Enrico VIII d’Inghilterra è noto per aver decapitato due delle sue sei mogli: “divorziata, decapitata e morta; divorziata, decapitata, sopravvissuta” è l’antica filastrocca che gli scolari inglesi imparano e che è stata recentemente presentata nel geniale musical di Broadway SIX[1]. Tuttavia, nell’ambito dell’economia monetaria, Enrico VIII è altrettanto famoso per aver decapitato il conio del Regno Unito: il contenuto d’argento della sterlina fu ridotto del 50% nel 1551[2]. Naturalmente, Enrico VIII era un pivello in confronto a Robert Mugabe dello Zimbabwe o a Nicolás Maduro del Venezuela, che in questo secolo hanno raggiunto l’iperinflazione con l’aiuto della moderna macchina da stampa.

È stato in parte grazie al fatto di non aver esagerato con la contrazione, che la Spagna è riuscita a mantenere una valuta globale dominante, nel 1500. La Spagna fu immensamente aiutata dall’afflusso di metalli preziosi provenienti dalle miniere del Nuovo Mondo, che facevano ricorso a manodopera indigena disposta a lavorare in condizioni estreme. Facendo uso delle montagne d’argento saccheggiate dalle miniere di Potosí nelle Ande orientali e dalle miniere di Zacatecas in Messico, la Spagna fu in grado di formare eserciti, costruire navi e impiegare armi su una scala di gran lunga superiore a quella dei suoi rivali europei meno agiati; così divenne la principale potenza economica e militare del XVI secolo. E quando il bottino delle colonie non bastò a soddisfare le ambizioni della corona spagnola, la Spagna ricorse a prestiti promiscui, tanto da andare in default sul debito con i creditori stranieri per ben sei volte tra il 1557 e il 1647[3]. Il “Trinity Default” del 1557, in particolare, corrisponde a una delle più significative crisi finanziarie globali della storia, con default quasi simultanei in Spagna, Francia e Paesi Bassi[4].

Lo sparviero del mare è un film classico che cattura l’etica dell’epoca da una prospettiva britannico-americana sfacciatamente parziale. Ambientato nel 1580, il film ha come protagonista Errol Flynn nei panni di uno spavaldo corsaro inglese costretto a superare innumerevoli ostacoli per informare la regina Elisabetta di un attacco a sorpresa ai danni dell’Inghilterra, per il quale il re di Spagna Filippo II aveva predisposto un’enorme flotta. Il film sottolinea il fatto che i prigionieri britannici erano ridotti in schiavitù, nelle navi spagnole, mentre Flynn, dopo aver abbordato e preso il comando di una nave spagnola, lascia all’equipaggio superstite la libera gestione del proprio vascello pirata, fatta eccezione per la riserva di armi. L’affondamento dell’Invincibile Armada spagnola, dovuto in parte al maltempo, fu un punto di svolta nella storia della moneta dominante. Nel XIX secolo la sterlina, e con essa il sistema bancario del Regno Unito, aveva raggiunto una portata globale che il re Filippo II difficilmente avrebbe potuto sognare.

Pure il passaggio dalla sterlina al dollaro, nel XX secolo, fu originato da un conflitto – anche se gli Stati Uniti e il Regno Unito in quell’occasione combattevano fianco a fianco. A seguito di due devastanti guerre mondiali il Regno Unito aveva perduto gran parte delle sue ricchezze, e una parte della sua base industriale; non riuscì nemmeno a mantenere le sue colonie. Gli Stati Uniti, pur soffrendo, persero molto meno. Dopo un periodo interbellico in cui la sterlina e il dollaro furono co-dominanti, lo scettro passò definitivamente agli Stati Uniti.

La supremazia economica globale degli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale fu pazzesca: nel 1950, l’economia statunitense rappresentava un incredibile 36% del PIL mondiale[5]. Il sistema di tassi di cambio fissi del dopoguerra, elaborato nel 1944 a Bretton Woods, nel New Hampshire, non solo collocò al centro il dollaro statunitense, ma gli conferì anche straordinari privilegi[6]. Tutti gli altri Paesi partecipanti erano tenuti a fissare i loro tassi di cambio rispetto al dollaro, ed era responsabilità di ciascun Paese tenere a disposizione una quantità sufficiente di dollari per raggiungere questo obiettivo, con la possibilità di piccole fluttuazioni. Gli Stati Uniti, invece, erano liberi di perseguire qualsiasi politica relativa a tassi di interesse e inflazione, sulla scorta del fatto che, in teoria, il governo americano doveva esser pronto a scambiare dollari con oro, per qualsiasi governo che desiderasse farlo.

Grazie agli effetti di rete, l’utilizzo delle valute internazionali è un monopolio naturale. Non dovrebbe quindi sorprendere che, una volta che una valuta si afferma nelle transazioni internazionali, l’uso della maggior parte delle altre valute passi in secondo piano. Oggi esistono oltre 150 valute, nel mondo[7]; il commercio e la finanza mondiale sarebbero una Torre di Babele se tutte venissero utilizzate. Il 90% di tutte le transazioni in valuta estera implica l’uso del dollaro, da una parte oppure dall’altra[8]. Questo perché il mercato, per la maggior parte delle transazioni valutarie, è così volatile che è più conveniente utilizzare il dollaro come “valuta veicolo”; a titolo di esempio, conviene convertire i dollari canadesi in dollari australiani, piuttosto che scambiare direttamente le due valute. I costi di transazione dei due scambi (dal dollaro canadese al dollaro statunitense, e poi dal dollaro statunitense al dollaro australiano) sono inferiori a quelli dello scambio diretto. Un fatto sorprendente è che il dollaro, e non l’euro, è la valuta veicolo dominante anche per gli scambi che coinvolgono Paesi confinanti con l’eurozona (per esempio, il cambio da lire turche a lev bulgari)[9].

La posizione del dollaro, in cima alla gerarchia delle valute, si manifesta in molte metriche quantitative. Per esempio, sebbene gli Stati Uniti rappresentino circa un quarto della produzione globale (misurata ai tassi di cambio di mercato del 2024), quasi il 60% delle riserve valutarie è detenuto in dollari americani[10].

Il dollaro svolge inoltre un ruolo centrale nella determinazione del prezzo dei beni e delle attività finanziarie internazionali. La quota del commercio globale di petrolio (prezzato in dollari) rimane intorno all’80%, nonostante i recenti sforzi della Cina per promuovere il renminbi; la maggior parte degli altri scambi di materie prime è analogamente dominata dal prezzo in dollari[11]. Oltre il 40% del commercio globale di beni è prezzato in dollari, e pure è un eufemismo, perché facciamo contare il commercio tra i Paesi membri dell’eurozona come commercio internazionale. La quota del dollaro sarebbe altrimenti molto più elevata; per esempio, oltre l’85% del commercio indiano è in dollari[12]. E i mercati obbligazionari globali sono ancora più dollaro-centrici.

Non sorprende che molte banche centrali del mondo, soprattutto nelle economie in via di sviluppo e nei mercati emergenti, si preoccupino di stabilizzare i loro tassi di cambio del dollaro, dato che una frazione così grande del commercio, e spesso una proporzione altrettanto grande del loro debito internazionale, è quantificata in dollari[13]. In generale, si può pensare al regime del tasso di cambio come a una “misura portmanteau” di tutti i diversi modi in cui il dollaro conta per un Paese, dato che la banca centrale deve tenerne conto nel determinare il suo regime di cambio. Se la banca centrale ritiene che l’economia sia molto sensibile alle fluttuazioni del tasso di cambio del dollaro, farà attenzione a che una fattispecie del genere non si verifichi troppo velocemente.

Un fattore importante a favore del dollaro è che l’economia statunitense è la più grande del mondo. Sebbene il suo vantaggio dimensionale sia diminuito nel tempo, questo è avvenuto molto più lentamente di quanto previsto dalla maggior parte degli esperti. Dal 1950, la quota degli Stati Uniti sul PIL mondiale, misurata sui tassi di cambio di mercato, è scesa al 25%. Il declino è avvenuto in due diversi momenti: il primo, quando le economie di Europa e Giappone si sono rimesse in piedi dopo la Seconda guerra mondiale; il secondo, quando la Cina ha raggiunto il suo picco di crescita, nei primi anni Duemila.

Esiste anche un secondo modo per misurare le dimensioni dell’economia statunitense. Tale metodo utilizza tassi di cambio a parità di potere d’acquisto (PPP) costruiti artificialmente, che cercano di utilizzare un insieme comune di prezzi per meglio confrontare i tenori di vita. Il declino degli Stati Uniti risulta più evidente se si utilizza il metodo dei life standards PPP a parità di potere d’acquisto: in base a questo metodo, la quota statunitense del PIL mondiale sarebbe scesa a meno del 17%. Tuttavia, ai fini della comprensione del commercio internazionale e del potere finanziario, la misura di mercato risulta più significativa; un Paese non può acquistare petrolio o missili Patriot in dollari PPP.

Nel 2000, l’economia dell’Unione Europea aveva all’incirca le stesse dimensioni di quella statunitense, e sembrava destinata a raggiungere uno status paritario. Ora anch’essa è stata lasciata nella polvere dall’economia statunitense, soprattutto a causa del settore tecnologico. L’economia cinese è impressionante, ma se si confrontano le economie utilizzando i tassi di cambio di mercato per convertire il reddito in dollari, l’economia cinese è ancora pari a un terzo in meno, sebbene la Cina abbia un numero di abitanti quattro volte superiore[14].

Le dimensioni contano, ma non sono tutto. È importante notare che l’economia statunitense è anche la più aperta di tutte le grandi economie, ma questo status è sotto attacco. Nel 2018, il presidente Donald Trump ha istituito tariffe significative che il suo successore Joe Biden ha mantenuto e amplificato attraverso una politica industriale muscolare, con forti requisiti di made-in-USA allo scopo di sfruttare nuovi sussidi per la transizione ecologica. Durante la campagna elettorale del 2024, Donald Trump ha proposto di istituire tariffe medie superiori a quelle di India e Brasile, le due grandi economie più protezioniste del mondo. Ed è molto probabile che questo gli abbia fatto guadagnare voti.

Anche le dimensioni dei mercati finanziari statunitensi, che rimangono sproporzionatamente grandi rispetto al reddito degli Stati Uniti, sono estremamente importanti per la posizione del dollaro, e di fatto giocano un ruolo sempre più importante nel dominio che esso esercita. Per ora, i mercati finanziari statunitensi rimangono molto aperti agli investitori stranieri; le proposte periodiche di tassare le transazioni finanziarie non hanno avuto seguito. Soprattutto, gli Stati Uniti hanno uno stato di diritto consolidato che è più favorevole ai creditori rispetto alle leggi della maggior parte dei Paesi, anche quelli europei.

Il sistema universitario statunitense per lungo tempo è stato accogliente, nei confronti degli studenti stranieri, fornendo un ulteriore motivo ai loro genitori per accumulare beni in dollari. Più in generale, gli Stati Uniti rimangono la destinazione più grande e importante per gli immigrati, anche se negli ultimi anni le politiche in merito sono diventate meno prevedibili, e a volte finanche incomprensibili. Nel 2019, gli Stati Uniti contavano più di cinquanta milioni di immigrati, più del triplo del secondo classificato, la Germania[15].

In sintesi, il dominio del dollaro è il prodotto di molti fattori che si rafforzano a vicenda. Le dimensioni e la profondità dei mercati statunitensi superano ancora di gran lunga quelle di qualsiasi altra valuta. Inoltre, giacché il dollaro partiva da una posizione innegabilmente privilegiata dopo le devastazioni della Prima e della Seconda guerra mondiale, si sono instaurati effetti di rete che rendono l’uso del dollaro molto conveniente per i mercati privati – sebbene altri governi disapprovino i vantaggi che esso garantisce agli Stati Uniti. In particolare, nonostante le recenti svolte protezionistiche, gli Stati Uniti rimangono molto aperti al commercio, e ancor più alla finanza. Lo stato di diritto regna ancora, e gli investitori stranieri godono generalmente di una protezione molto maggiore rispetto alla maggior parte del mondo. Naturalmente, come vedremo nel corso di questo libro, sarebbe folle supporre che l’attuale status del dollaro sia immutabile. Sia il mercato interno che le forze esterne attualmente in gioco potrebbero ridurre e destabilizzare la posizione di vantaggio del dollaro prima del previsto.

Emettere valuta globale è ottimo. Essere il Paese che ha appena perso lo status derivante da una valuta globale, un po’ meno. Dopo la Seconda guerra mondiale, dato il conflitto tra crescenti richieste di natura sociale, la necessità di ricostruire fabbriche e infrastrutture, e il desiderio del Regno Unito di continuare a esercitare il proprio potere coloniale – e omettendo il fatto che il debito del dopoguerra superava il 240% del PIL – non c’è da stupirsi che il Regno Unito sia incorso in ripetuti problemi finanziari. Il Regno Unito fu costretto a rivolgersi, con il cappello in mano, al Fondo Monetario Internazionale, per ottenere finanziamenti di salvataggio in ben tre occasioni – nel 1956, nel 1967 e nel 1976 – e beneficiò di diversi programmi minori, oltre a questi[16]. I giorni di gloria della sterlina in qualità di valuta globale divennero un lontano ricordo.

Il dollaro americano è ancora abbastanza lontano da un simile destino; il dollaro dominante potrebbe essere prossimo alla metà del suo corso, ma gode ancora di buona salute. Tuttavia, prima di passare in rassegna le sfide future (che saranno discusse nell’ultima parte di questo libro), è necessario capire come il mondo sia giunto a questo punto di dominio del dollaro, e i motivi per cui gli sfidanti del passato abbiano fallito; il motivo per cui lo sfidante attuale, ossia la Cina, abbia vita difficile; e il modo in cui il resto del mondo fronteggi il dominio del dollaro. Al tempo stesso, occorre non far confusione pensando all’evoluzione del sistema in passato come all’inevitabile e unico risultato possibile. Ci sono stati momenti in cui le cose sarebbero potute andare molto diversamente, nel senso che avrebbero potuto condurre a un mondo molto meno dollaro-centrico; e questo può aiutarci a capire perché anche questa resti una distinta possibilità, in futuro.


[1] Kristi Oloffson, Top Ten Things You Didn’t Know About Henry VIII, «Time», 24 giugno 2009.

[2] Kenneth Rogoff, The Curse of Cash, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2016 (trad. it. La fine dei soldi, il saggiatore, Milano 2017).

[3] Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, This Time Is Different: Eight Centuries of Financial Folly, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 2009 (trad. it. Questa volta èdiverso. Otto secoli di follia finanziaria, il Saggiatore, Milano 2010).

[4] Kenneth Rogoff, Barbara Rossi e Paul Schmelzing, Long-Run Trends in Long-Maturity Real Rates, 1311-2022, «American Economic Review», 114, n. 8, agosto 2024, pp. 2271-2307.

[5] Con il reddito ponderato a tasso di cambio di mercato.

[6] Benché la transizione completa allo standard del dollaro sia avvenuta solo dopo la Seconda guerra mondiale, alla fine degli anni Trenta l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Francia tentarono di ristabilire parzialmente il ruolo dell’oro attraverso l’Accordo Tripartito del 1936. Lo storico della finanza (e già mio studente per la tesi di dottorato) Max Harris argomenta che sotto molti aspetti il patto metteva già il dollaro in posizione

sovraordinata rispetto ad altre valute e fu precursore del sistema del dopoguerra. Max Harris, Monetary War and Peace: London, Washington, Paris, and the Tripartite Agreement of 1936, Cambridge University Press, Cambridge 2021.

[7] Hector Perez-Saiz, Longmei Zhang e Roshan Iyer, Currency Usage for Cross Border Payments, «Working Paper No. 2023/72, International Monetary Fund», marzo 2023.

[8] Si veda Patrick McGuire, Goetz von Peter e Sonya Zhu, International Finance Through the Lens of BIS Statistics: The Global Reach of Currencies, «BIS Quarterly Review», giugno 2024, 9.

[9] Ivi, Tabella 6C.

[10] Ethan Ilzetzki, Carmen M. Reinhart e Kenneth Rogoff, Rethinking Exchange Rate Regimes, in Gita Gopinath, Elhanan Helpman, Kenneth Rogoff (a cura di), Handbook of International Economics, vol. 6, Amsterdam, Elsevier, 2022, pp. 91-145. Si veda anche Carol Bertaut, Bastian von Beschwitz e Stephanie Curcuru, The International Role of the U.S. Dollar, «FEDs Notes», 6 ottobre 2021.

[11] Anna Hirtenstein, The Dominant Dollar Faces a Backlash in the Oil Market, «Wall Street Journal», 28 dicembre 2023.

[12] Emine Boz et al., Patterns of Invoicing Currency in Global Trade: New Evidence, «Journal of International Economics», 136, maggio 2022, pp. 677-719.

[13] Da un punto di vista operativo, volendo smorzare le fluttuazioni tra la propria valuta e il dollaro, una banca centrale normalmente avvicina il proprio tasso d’interesse a quello della U.S. Federal Reserve (per alleggerire la pressione sulla valuta dovuta ai veloci spostamenti di capitali dentro e fuori dal Paese), oppure usa le proprie riserve valutarie in dollari per intervenire direttamente sul mercato internazionale dei cambi.

[14] Il PIL della Cina nel 2023 è stato di 17.800 miliardi di dollari, quello degli Stati Uniti di 27.300 miliardi di dollari. International Monetary Fund, World Economic Outlook, ottobre 2024.

[15] United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, International Migrant Stock, New York, United Nations, 2019.

[16] Rong Qian, Carmen M. Reinhart e Kenneth Rogoff, On Graduation from Default, Inflation and Banking Crises: Elusive or Illusion?, in Daron Acemoğlu, Michael Woodford (a cura di), «NBER Macroeconomics Annual 2010», University of Chicago Press, Chicago 2011, pp. 1-36.


Copyright © 2025 Kenneth Rogoff

Scritto da
Kenneth Rogoff

Professore di Economia alla Harvard University, dove ricopre la cattedra Maurits C. Boas. È stato Capo economista del Fondo Monetario Internazionale ed è considerato uno dei massimi esperti di economia globale. È autore di: “L’impero del dollaro. Lo sguardo di un insider su sette turbolenti decenni di finanza globale e il futuro che ci attende” (Bocconi University Press 2025), “La fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante” (il Saggiatore 2017) e “Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria” (con Carmen M. Reinhart, il Saggiatore 2010).

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