Scritto da Paolo Andrei
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Paolo Andrei, autore di questo articolo, è il Rettore dell’Università di Parma.
C’è una parola che può essere considerata una vera e propria chiave di volta del nostro tempo: questa parola è “sostenibilità”. Non si può guardare all’oggi né, tantomeno, al domani prossimo e più lontano senza tenerla in considerazione avendone ben presente l’imprescindibilità e considerando congiuntamente le tre dimensioni complementari che la caratterizzano nei profili economici, sociali e ambientali.
Di fatto è proprio così, e lo è per ogni settore in cui si articola la nostra vita. Solo garantendo la sostenibilità dello sviluppo, con azioni necessarie che vanno dai livelli decisionali e di governance più alti fino ai comportamenti quotidiani di ciascuno di noi, dal macro al micro, si può guardare al futuro con serenità e fiducia, senza temere il break down.
Sostenibilità è parola imprescindibile anche per lo sviluppo della filiera agroalimentare: l’evoluzione in chiave sostenibile di un comparto fondamentale non solo per l’economia ma per la vita stessa del pianeta, la sua transizione ecologica in tutti i passaggi, dalla produzione agricola all’industria di trasformazione, dalla distribuzione al consumo, sono step cruciali e non differibili.
La ripartenza post-Covid deve essere un’occasione per assestare o riassestare le strategie in quest’ottica, anche in relazione a sostanza e obiettivi del piano comunitario Next Generation EU: il Covid-19 ha infatti inferto colpi piuttosto duri ad alcuni comparti della filiera agroalimentare, innanzitutto nella produzione agricola primaria.
In questo passaggio, per una sostenibilità che è traguardo da raggiungere e orizzonte di riferimento da avere sempre ben presente, non si può non parlare di tecnologia e di ciò che essa può offrire in questa direzione, di innovazione e di trasparenza: la tracciabilità e la trasparenza delle filiere, ad esempio, sono decisive per raggiungere nuovi livelli di sostenibilità, sviluppo, sicurezza alimentare e responsabilità ambientale e sociale.
In tutto ciò, formazione e ricerca possono svolgere un ruolo di primo piano: ecco, dunque, il rilievo delle Università e dei centri del sapere. E in particolare dell’Università di Parma, che su questi temi ha una tradizione e un know how riconosciuti e che mira a consolidare il proprio status di punto di riferimento in materia di alimenti e nutrizione, forte anche della collocazione al centro della Food Valley, nella piena consapevolezza dell’importanza cruciale del food come motore di sviluppo e fulcro di una strategia di sistema territoriale di area vasta, in stretta sinergia con il mondo dell’impresa.
Il Food Project dell’Università di Parma è nato proprio in questo orizzonte: un progetto lanciato per coordinare e rafforzare le competenze di eccellenza presenti in Ateneo nel campo della ricerca nel settore Food e Food Industry, promuovere la loro interazione con altri centri di ricerca, imprese e realtà educative sul territorio locale e nazionale, rendere sempre più l’Università di Parma un centro riconosciuto nel campo dell’alta formazione e ricerca del settore “Scienze degli alimenti, delle tecnologie alimentari e della nutrizione” in Italia e nel mondo. E tutto questo, ovviamente, facendo leva sulla consolidata collaborazione in essere con le altre Università della Regione Emilia-Romagna, in un “gioco di squadra” teso a valorizzare le alte competenze presenti a livello regionale in una logica di cooperazione virtuosa.
L’idea è nata alcuni anni fa, ha preso il via dalla consapevolezza della riconosciuta competenza scientifica e didattica dell’Università di Parma come sede di ricerche avanzate nel campo degli alimenti e delle politiche alimentari, ed è stata a sua volta corroborata dal fatto che l’Ateneo viva in un territorio tradizionalmente vocato alle produzioni alimentari, nel quale hanno sede diversi marchi di rilievo e prestigio internazionali e nel quale l’agroalimentare e tutto ciò che lo caratterizza “contaminano” positivamente luoghi e persone e, di fatto, intessono una cultura diffusa e consolidata.
Il Food Project coinvolge docenti di ambiti diversi: tecnologi alimentari, agronomi, veterinari, biologi, microbiologi, chimici, nutrizionisti, medici, ingegneri, economisti, giuristi, umanisti. Una vera e propria task force di studiosi capace di affrontare le complesse problematiche legate agli alimenti con una visione organica, onnicomprensiva e in grado di fornire soluzioni di ricerca, didattiche e di policy su ogni aspetto del mondo alimentare, da diversi punti di vista.
La produzione di alimenti nel nostro pianeta incontra una domanda crescente di quantità e qualità, collegata anche all’aumento complessivo della popolazione e ai cambiamenti continui degli stili di vita. Alla luce delle proiezioni demografiche e climatico-ambientali per i prossimi anni, la sfida del futuro (di un futuro, appunto, sostenibile) è quella di riuscire a indicare modelli di sviluppo idonei per un sistema che, a livello mondiale, cresce velocemente, originando una serie continua di nuovi bisogni e di nuove domande. Un sistema diversificato e caratteristico per regioni geografiche e popolazioni differenti: popolazioni povere, caratterizzate dalla necessità di accesso al cibo, e popolazioni benestanti, che pur non soffrendo la scarsità di risorse necessitano di definire modelli nutrizionali più salubri. Si tratta dunque di considerare una rete di argomenti interconnessi, che nel loro insieme, in sostanza, favoriscano l’evoluzione sostenibile del sistema produttivo nel suo complesso. E questi modelli di sviluppo devono essere delineati alla luce dei nuovi scenari globali, al centro dei quali rimane il tema del diritto a un’alimentazione sana, sicura e sufficiente per tutti gli abitanti del pianeta.
La capacità di vincere queste sfide e soddisfare le aspettative alimentari delle popolazioni future (a partire proprio dal tema del diritto al cibo, che si pone già oggi e si porrà in modo sempre più incisivo) dipende fortemente dal possibile contributo offerto dalla scienza e dalla tecnologia, oltre che dall’educazione a un approccio alimentare ecosostenibile. L’impiego intelligente delle conoscenze e della tecnologia deve permettere di trovare le soluzioni più opportune per tutte e per tutti, in un orizzonte globale, non circoscritto.
Il Food Project è lo strumento dell’Università di Parma per rilanciare la ricerca di soluzioni e la formulazione di proposte e, quindi, per affrontare la sfida, in stretta sinergia con le istituzioni e con il mondo imprenditoriale: una sinergia in cui l’Ateneo crede e “investe”, convinto che nel gioco di squadra e nell’interazione virtuosa con il tessuto territoriale risieda il vero plus di metodo di questa come di molte altre partite.
Ne abbiamo avuto ulteriore testimonianza la scorsa primavera, quando abbiamo posato la prima pietra dell’Edificio 1 dell’Area Food, che sarà “al servizio” del Food Project: una nuova “casa” che prevede un investimento di 11 milioni e 500mila euro, con finanziamenti pubblici del Ministero dell’Università e della Ricerca e quasi 4 milioni in arrivo dal mondo imprenditoriale e associativo del territorio. In quell’area si collocheranno anche il Food Business Incubator, co-finanziato dalla Regione Emilia-Romagna con 1 milione di euro, che ospiterà, in qualità di acceleratore di impresa, numerose startup a tematica food che certo godranno della prossimità con i laboratori di ricerca, e anche la sede operativa della Scuola di Studi Superiori in Alimenti e Nutrizione, a sua volta parte integrante del Food Project.
E proprio la Scuola di Studi Superiori in Alimenti e Nutrizione dell’Università di Parma va vista nell’ottica cui accennavo, con l’ambizione di diventare un punto di riferimento internazionale nel contesto della formazione post-laurea e professionalizzante. L’Ateneo, attraverso i suoi Corsi di Laurea e Master e con il Dottorato di Ricerca in Scienze degli Alimenti, già forniva didattica di eccellenza, ma soprattutto per il post-laurea in ambito food c’era bisogno, così come per il Food Project tutto, di coordinamento e messa a sistema. La Scuola ha infatti consolidato l’esistente, con una gestione dinamica e flessibile, ma ha anche aperto nuovi corsi e ha garantito un afflato internazionale. In soli due anni ha attivato un Master internazionale (in Food City Design) e tre Summer School internazionali (una delle quali in collaborazione con EFSA e una con l’Università di Cambridge) che ospitano studenti da tutti i cinque continenti. I corsi di formazione specialistica sono poi stati numerosissimi e tutti hanno avuto un riscontro notevole. La Scuola ha anche già ottenuto alcuni finanziamenti: uno dei quali, particolarmente prestigioso, da parte della Regione Emilia-Romagna, che ha garantito la realizzazione del Master in Food City Design e della Summer School in Food Sustainability con un partenariato internazionale.
Su questi temi, come in molti altri ambiti, l’Università di Parma mette a disposizione le proprie competenze, sempre per la costruzione di quel futuro sostenibile cui facevo riferimento, nella grande sfida collettiva e territoriale del Patto per il Lavoro e per il Clima varato dalla Regione Emilia-Romagna: un progetto di rilancio e sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica, per creare lavoro di qualità, accompagnare la comunità regionale nella transizione ecologica, contrastare le diseguaglianze e ridurre le distanze fra le persone, nel quale il sistema dell’alta formazione può e deve dare un contributo di spessore. L’Università di Parma è tra i firmatari del Patto, insieme a enti locali, sindacati, imprese (industria, artigianato, commercio, cooperazione), agli Atenei della Regione, all’Ufficio scolastico regionale, alle associazioni ambientaliste (Legambiente, Rete Comuni Rifiuti Zero), a Terzo settore e volontariato, organizzazioni delle professioni, Camere di commercio e banche (ABI).
Abbiamo aderito con convinzione a questa alleanza condividendone, anzitutto, lo spirito di fondo e il fatto che, in un momento così difficile per tutti, si abbia il dovere di “rilanciare” la progettazione e la costruzione del nostro futuro con un disegno di ampio respiro e di medio-lungo termine. Sono convinto che questa sia la strada giusta, proprio perché il filo conduttore del patto che abbiamo condiviso è incentrato sulla necessità di porre al centro della nostra attenzione la stretta correlazione esistente tra sviluppo, qualità del lavoro, dignità delle persone e salvaguardia dell’ambiente.
È un percorso comune, che guarda al 2030 in linea con l’orizzonte e gli obiettivi fissati dall’Agenda delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, e che nasce dalla convinzione che dalla pandemia e dalla crisi che essa ha generato occorra uscire rilanciando e costruendo strategie e linee di sviluppo nuove, con uno scarto deciso rispetto al passato. L’intera comunità regionale si è impegnata su obiettivi strategici definiti sulla base di una progettazione condivisa, in un momento complesso, difficile, che come nel secondo dopoguerra può essere anche una grande occasione per ricostruire e ripartire.
Trovo particolarmente importante il fatto che l’invito della Regione a “fare sistema” sia stato raccolto da molte realtà, perché è così che non solo si affrontano in modo vincente le emergenze ma, soprattutto, si progettano le azioni future. E trovo molto significativa la scelta di affiancare lavoro e clima come “fuochi” del Patto e di considerarli interconnessi, strettamente interconnessi, in una logica in cui tutto si tiene e in cui la sostenibilità è sfida trasversale, non solo di questo o quel settore, alla quale tutti e tutte, nessuno escluso, devono dare il proprio contributo.
In campo ci sono tante tematiche, a partire naturalmente dal modo migliore per impiegare le risorse che arrivano al nostro Paese da quella grande iniziativa comunitaria che è il Next Generation EU: anche questa una grande sfida e una grande occasione.
Il Patto per il Lavoro e per il Clima prevede quattro obiettivi strategici da raggiungere: Emilia-Romagna regione della conoscenza e dei saperi; regione della transizione ecologica; regione dei diritti e dei doveri; del lavoro, delle imprese e delle opportunità. E individua quattro processi trasversali: trasformazione digitale; patto per la semplificazione; promozione della legalità; partecipazione.
In tutto questo, in ciascuno di questi punti, l’Università di Parma può e vuole dare il proprio apporto, forte di un know how riconosciuto: nell’agroalimentare, naturalmente, ma anche in tutti gli altri ambiti in cui si declina il Patto. Penso ad esempio ai temi dell’equità, della qualità del lavoro, dell’ambiente, dell’economia e dell’economia circolare, della mobilità sostenibile, del welfare, della legalità e di molto altro ancora. Un know how che mette a disposizione, pronta a fare la propria parte con entusiasmo, nella volontà di essere tra i protagonisti del cambiamento: per la costruzione di un futuro sostenibile che sia di crescita per tutte le persone.