Scritto da Giacomo Bottos
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Planetek Italia – società benefit fondata nel 1994 – opera nel settore dell’osservazione della Terra e delle applicazioni dei dati geospaziali in molteplici campi: monitoraggio ambientale e del territorio, smart city, sicurezza, ingegneria, costruzioni, i trasporti, energia, utility, agricoltura, missioni satellitari scientifiche e di esplorazione dello spazio. In questa intervista, Giovanni Sylos Labini – cofondatore e chief executive officer di Planetek Italia e vice chairman del Distretto Aerospaziale Pugliese – ripercorre l’evoluzione del settore dell’osservazione della Terra e le prospettive che si aprono nel quadro della New Space Economy.
Come possiamo descrivere Planetek Italia? Quali sono i principali settori in cui opera?
Giovanni Sylos Labini: A noi piace definire Planetek Italia “una startup che ha trent’anni di storia”, perché appunto trent’anni fa ho lasciato il mio lavoro all’Agenzia Spaziale Italiana e insieme a tre giovani professionisti abbiamo pensato di fondare quella che è forse la prima azienda europea di osservazione della Terra, orientata ai servizi e alle applicazioni che queste tecnologie spaziali potevano creare. Lo abbiamo fatto cercando di superare quelle che all’epoca erano soprattutto delle “belle fotografie” da satellite e cercando invece di estrarre un contenuto informativo sempre maggiore da questi dati e soprattutto di estrarre queste informazioni in modo che fossero il più possibile utili agli utenti a cui venivano fornite. Non tanto, quindi, technology push quanto un tentativo di introdurre una logica che vedesse gli utenti al posto di guida dei processi di sviluppo dei nostri servizi. Abbiamo proseguito seguendo questa strada e nel corso di trent’anni molte cose sono cambiate, innanzitutto siamo stati tra i primi produttori ad approfittare delle possibilità date da Internet. Per noi, basati nel profondo Sud, essere connessi con i contesti europei e internazionali più all’avanguardia non era una cosa affatto semplice. Ma grazie alla rete siamo riusciti a entrare a far parte rapidamente di questi circuiti, dove già all’epoca c’era una grande richiesta di servizi e applicazioni di osservazione della Terra.
Oggi si parla molto del ruolo del settore privato in ambito spaziale e anche le startup della space economy sono al centro del dibattito. Planetek ha avviato però le sue attività in una stagione molto diversa da quella attuale. Quali erano le caratteristiche del settore spaziale quando è nata Planetek? Quello che avete fatto all’epoca era un percorso meno usuale rispetto ad oggi, c’erano altre realtà che avevano provato qualcosa di simile o il vostro era un tentativo pionieristico?
Giovanni Sylos Labini: Quasi tutte le aziende che avevano iniziato a occuparsi di osservazione satellitare della Terra erano grandi integratori che venivano dal mondo dell’hardware e della costruzione dei sistemi spaziali e cercavano di trasformarsi in fornitori di servizi, una cosa non facilissima perché comporta un approccio all’utenza diverso da quello a cui erano abituati. Questo ha fatto sì che noi per lungo tempo fossimo molto isolati in questo sforzo perché non c’erano molti soggetti della nostra taglia e con il nostro approccio. Anche la tecnologia è cambiata, ovviamente, negli anni: quando siamo partiti avevamo sistemi capaci di distinguere oggetti che erano almeno di 20 metri di lato, oggi abbiamo a disposizione sensori che ci consentono accuratezze sub-metriche e quindi possiamo distinguere da satellite anche oggetti di 50 centimetri di lato. Questo cambia completamente l’orizzonte e il tipo di attività disponibili. All’epoca mancava la consapevolezza dell’importanza di queste tecnologie, in particolare per le amministrazioni pubbliche che erano – e sono tuttora – i principali fruitori di questo servizio. È stato un percorso abbastanza in salita, con una crescita incrementale, senza la possibilità di scalare rapidamente le nostre dimensioni. D’altro canto, abbiamo riposto una grande attenzione alla formazione dei nostri partner e alla comunicazione dell’utilità di queste tecnologie, cercando il più possibile di parlare la lingua dei nostri utenti. Infatti, dopo i primi cinque anni circa di lavoro abbiamo sviluppato una modalità di sviluppo dei servizi e delle applicazioni che cercasse di unire quello che le persone desideravano con le capacità tecnologiche e con la sostenibilità economica di questo tipo di attività. Si tratta dei principi del design industriale in cui il nostro Paese ha grandi competenze in tanti altri settori. La cosa complicata – soprattutto in campo spaziale e ancora di più nella fase attuale in cui tutto il settore è esposto a una trasformazione digitale molto profonda – è che l’intersezione dove avviene la vera innovazione utile è un obiettivo mobile: cambiano i bisogni e i desideri delle persone e cambiano le capacità tecnologiche, e di conseguenza cambiano i costi dell’erogazione dei servizi.
Cosa intendiamo quando parliamo di dati geospaziali? Quali sono le principali fonti di questi dati e come vengono elaborati?
Giovanni Sylos Labini: Nello schema più tradizionale, ci sono un satellite o più satelliti di osservazione della Terra in orbita e in genere si scelgono orbite che congiungono i Poli, perché in questo modo progressivamente il satellite riesce a coprire l’intera superficie terrestre. Questi satelliti sono in un’orbita che va tra i 500 e 700 chilometri dal suolo, mentre per alcuni satelliti come quelli metereologici che hanno bisogno di osservare sempre la stessa porzione della Terra si sceglie un’orbita geostazionaria, la stessa usata dai satelliti delle telecomunicazioni, molto più lontana, a circa 36.000 chilometri. Un satellite in orbita geostazionaria ha una capacità di distinguere meno dettagli, proprio per la sua distanza dalla superficie, mentre per avere una copertura con una frequenza temporale significativa (cioè, avere delle osservazioni ogni ora o ogni breve intervallo di ore) la soluzione è costruire delle costellazioni più o meno numerose di satelliti che passano diverse ore del giorno in diverse aree dell’orbita terrestre. Ognuno di questi satelliti acquisisce pacchetti di dati, anche molto grossi – ad esempio, la costellazione europea Copernicus, una delle più vaste che operano oggi, acquisisce miliardi di byte di dati ogni giorno – che vanno poi scaricati a Terra in modo tradizionale tramite delle stazioni che sono grandi antenne concentrate in quelli che si chiamavano spaceport, come ad esempio il Centro Spaziale del Fucino in Italia. Questa modalità presenta alcuni vantaggi, perché tutti i satelliti che stanno nelle orbite polari passano sempre dai Poli e se sono presenti abbastanza antenne ai Poli un satellite può, a ogni passaggio, scaricare i dati che ha raccolto. Il problema oggi è che molto spesso sui Poli passano troppi satelliti insieme e non si riesce materialmente a scaricare tutti i dati che hanno acquisito, con in più la beffa che molti di questi dati sono inutili perché per esempio un satellite nel visibile, che per intenderci ha un funzionamento simile a quello di una macchina fotografica, attraverso le nuvole non vede nulla e quindi se acquisisce una zona coperta da nuvole scarica immagini inutili. Questi dati una volta scaricati dalla stazione a Terra vengono poi trasferiti, via rete Internet, in grandi server dove vengono trasformati in informazione. Non si tratta di un processo semplice perché sono necessarie delle correzioni geometriche per le distorsioni e altre correzioni legate al fatto che la radiazione che viene catturata dai sensori satellitari attraversa l’atmosfera e altera l’informazione a cui siamo interessati: mentre per un satellite meteorologico è proprio l’oggetto da osservare, per un satellite di osservazione della Terra l’atmosfera è soprattutto un disturbo. Una volta che tutte o una parte di queste operazioni sono compiute i dati vengono mandati a soggetti come Planetek che li trasformano in informazione.
In quali modalità vengono gestiti i dati? Quali sono le principali differenze tra le costellazioni satellitari istituzionali e quelle commerciali, e come sta evolvendo l’approccio all’osservazione della Terra?
Giovanni Sylos Labini: Ci sono una serie di operatori istituzionali – come, ad esempio, l’Unione Europea e l’Agenzia Spaziale Europea – che hanno realizzato le proprie costellazioni di satelliti, cioè insiemi di satelliti con capacità diverse e complementari di acquisire informazioni sul nostro pianeta, che hanno un approccio molto aperto sui dati che raccolgono. Ad esempio, i dati delle costellazioni europee sono, in genere, forniti gratuitamente e noi li elaboriamo e li colleghiamo ai nostri servizi e alle nostre applicazioni. Esistono poi una serie di missioni commerciali, fino a pochi anni fa soltanto statunitensi ma ora stanno emergendo alcune altre società della New Space Economy, con le quali è necessario un accordo di distribuzione per acquisire i dati. Il mondo delle piattaforme dati coinvolge oggi ovviamente anche il campo dell’osservazione della Terra e ormai gran parte di questi dati geospaziali sono disponibili attraverso piattaforme online con modalità più o meno automatiche. Il tema principale resta quello dei desideri degli utenti e di come, quando possibile, realizzarli concretamente. I sistemi di osservazione della Terra si possono distinguere per la loro capacità di cogliere dettagli, con una misura che si esprime in metri o frazioni di metri per indicare la minima separazione tra due oggetti che il satellite riesce a discernere; si possono differenziare per la loro capacità di distinguere diversi oggetti, in base alla loro composizione chimica o al loro colore ecc.; e si possono differenziare anche nei termini della loro rapidità nel rendere disponibili questi dati, che si misura in minuti o secondi. Su tutte queste tre quantità c’è un’incrementale domanda di capacità per cogliere dettagli sempre più piccoli, per avere più capacità di discriminare le informazioni e anche per avere i dati in tempo minore. Tutto questo è un esercizio tecnologico ma anche di compromesso tra quello che gli utenti vogliono e quello che per noi è possibile produrre in maniera sostenibile. La tradizione dei sistemi spaziali di osservazione della Terra ha circa cinquant’anni ed è un’industria che è stata – paradossalmente – fino a pochi anni fa molto “conservatrice”, nel senso che esisteva un approccio conservatore allo spazio che portava ad avere poca propensione al rischio e a evitare di compiere scelte coraggiose. Ora invece con la New Space Economy ha preso avvio una nuova classe di missioni che sta andando nella direzione opposta – con approcci che a volte fanno venire alla mente il motto “fallire spesso, fallire presto” – e che opta per la dimostrazione in orbita in tempi rapidi. Come dimostra bene l’esempio dei lanciatori di SpaceX, un caso di marketing di successo ma anche un modo per accelerare notevolmente i tempi dei progressi tecnologici.
Come sono cambiate nel tempo le tecnologie impiegate?
Giovanni Sylos Labini: Dopo una fase caratterizzata dall’impiego di satelliti molto grandi – l’ultimo grande satellite europeo, ad esempio, era una piattaforma dal peso di 20 tonnellate costata quasi due decenni di ricerca e sviluppo – sono arrivate soluzioni di natura completamente opposta dal peso di 35-40 chilogrammi o meno, lanciate utilizzando componenti non specifici, cioè non realizzati appositamente per lo spazio ma scegliendo in maniera molto oculata materiali generici a costi più bassi: un passaggio che ha abbattuto drasticamente i costi delle missioni e consentito anche a soggetti di entità relativamente modesta, ma con piani di business aggressivi, di lanciare le proprie costellazioni. Uno di questi casi è la società statunitense Planet Labs che ha inventato un nuovo modello di CubeSat di dimensioni molto ridotte, che ha chiamato “Dove” e che punta a lanciarne centinaia in orbita. In questo nuovo modello ci sono una serie di vantaggi, a cui abbiamo accennato, ma anche degli svantaggi: questi nuovi modelli sono meno performanti dei grandi satelliti, hanno una vita operativa media – cioè il tempo di permanenza in orbita – non sempre facilmente prevedibile, e ciò ha un effetto non trascurabile sui piani di business, e molto spesso non considerano nel loro processo di acquisizione dei dati alcuni limiti legati all’aumento di queste costellazioni. I dati raccolti dai satelliti devono infatti essere, prima o poi, mandati sulla Terra e molti di questi dati sono assolutamente inutili, ma lo si può scoprire soltanto dopo averli scaricati. Questa nuova realtà, affiancata al tema della trasformazione digitale dei sistemi satellitari, porta alla visione che negli ultimi dieci anni ha sviluppato Planetek: cercare di spostare questa capacità, che per i primi vent’anni abbiamo applicato a terra, direttamente in orbita e cercare di cambiare il paradigma con cui questi dati vengono venduti e le modalità in cui si integrano con altri soggetti presenti nella catena del valore. Un altro elemento che è cambiato molto è che negli ultimi trent’anni c’è una maggiore richiesta di informazione geospaziale – che si riferisce al fatto che l’informazione è legata alla geografia e può essere generata da un satellite come da una piattaforma aerea, da un pallone sonda o anche da una automobile dotata di sensori come quelle della flotta di Google Street View. Questa trasformazione ha portato alla nascita di una nuova serie di prodotti che vengono chiamati “informazione geoanalitica”, che non è solo informazione geospaziale – che in genere è una mappa, fisica o digitale che sia – ma una informazione puntuale con la caratteristica di aggregare dati e informazioni utili per uno specifico operatore. I prodotti geoanalitici sono quindi prodotti ancora più sofisticati di quelli geospaziali, perché riassumono tutta l’informazione che serve ad uno specifico utente. Ad esempio, noi abbiamo un prodotto che si chiama Rheticus Network Alert, un servizio geoinformativo per il monitoraggio predittivo delle reti idriche e fognarie delle grandi aree urbane che serve agli operatori del settore per individuare problematiche in atto e monitorare lo stress delle reti, pianificando le attività di ispezione e di manutenzione delle aree a rischio. Per chi si avvale di questo servizio, il fatto che i dati provengano da un satellite o da un altro o che abbiano una certa forma invece di un’altra interessa pochissimo. Tant’è che questi prodotti non hanno più la forma di un’immagine satellitare, per quanto elaborata, ma direttamente quella della rete di tubazioni in oggetto, con ad esempio una colorazione diversa a seconda del livello di rischio o di allerta delle specifiche aree. Si torna così al problema delle dimensioni di questi dati: un’immagine da satellite di una grande area urbana occupa approssimativamente qualche gigabyte, ma l’informazione che serve ad uno specifico operatore può essere anche di soli pochi kilobyte. Il tema è quello della selezione delle informazioni e della velocità in cui si è in grado di trasferirle agli utenti seguendo i passaggi di quella catena a cui abbiamo già accennato: dal satellite, al Polo, alla rete internet, al server dove verrà lavorata e poi compressa e trasmessa all’utente finale. La nostra idea è quella di riuscire a compiere tutti questi passaggi direttamente in orbita, in modo che il satellite possa fornire servizi direttamente agli utenti.
Come si può raggiungere questo risultato? Come si lavora in orbita?
Giovanni Sylos Labini: Esiste una generazione di nuovi computer di bordo dei satelliti dalle prestazioni abbastanza elevate da compiere gran parte delle attività richieste per il trattamento dei dati geospaziali. Inoltre, stiamo pensando di avere un’intera costellazione di satelliti di osservazione della Terra dedicati a questa attività che sarebbero, di fatto, dei computer in orbita e una sorta di sistema di calcolo in cloud però in orbita.
Soffermiamoci su un tema sollevato in diversi passaggi: i cambiamenti portati dalle trasformazioni di Internet. Planetek ha usato Internet fin dai suoi albori, quali sono stati dalla vostra prospettiva i punti di passaggio più importanti che vi hanno anche portato a ridefinire strategie e modelli di business e ad avere interlocutori diversi?
Giovanni Sylos Labini: Su questo tema sono molti gli elementi che si intrecciano. Per esempio, il fatto che l’utilizzo di strumenti quali Google Maps sia diventato mainstream ha reso in parte più facile il nostro lavoro, e oggi è molto più semplice spiegare l’utilizzo e l’utilità di un GIS (Geographic Information System) o di un SIT (Sistema Informativo Territoriale). Anche l’emergere del cloud computing ha rappresentato un’importante trasformazione del modo di accedere alle informazioni, ed è legato allo sviluppo di capacità di calcolo da remoto molto significative. Questo ha comportato un progressivo calo dei costi che dovevamo sostenere per produrre informazione e ci ha portati a ragionare sui possibili sviluppi che potevano esserci nello spazio. La capacità di calcolo a terra è ormai diventata una commodity, non è più un vantaggio competitivo, e si tratta solo di ricercare il miglior provider adeguato ai propri bisogni al miglior prezzo. Un altro fattore importante ha riguardato l’evoluzione delle capacità operative dei satelliti, appena si è sfondata la barriera anche psicologica del metro di risoluzione una serie di applicazioni che prima erano legate soltanto a chi doveva governare una Paese o una grande regione sono diventate interessanti anche per chi deve gestire un’area industriale o una rete infrastrutturale. Questo ha quindi significato un aumento del numero dei nostri potenziali clienti. Un altro fattore che ci ha aiutato molto è stato il boom delle costellazioni satellitari, a partire dalla costellazione europea Copernicus, che ci ha offerto una grande quantità di dati a costo zero, cambiando completamente il mercato e rendendo ancora più evidente come il valore in questo settore non sia quello del semplice dato, bensì quello che deriva dall’elaborazione e dalla trasformazione del dato in informazione. Dopo di che abbiamo capito che ancora più importante dell’informazione è l’informazione analitica, un altro cambiamento che ci ha portato ad abbracciare una filosofia già molto diffusa nel settore dei software tradizionali: quella della information as a service, ovvero non più la costruzione di sistemi di elaborazione dei dati ad hoc per un singolo cliente ma il suo accesso, attraverso abbonamenti, a questo tipo di informazioni. Per fare questo abbiamo costruito la piattaforma Rheticus che prende il nome dal matematico e astronomo del Cinquecento Georg Joachim Rheticus, che fu il principale allievo di Niccolò Copernico. Un nome che ci pare essere adeguato: la nostra piattaforma rende disponibili e mette a frutto i dati della costellazione Copernicus, come Rheticus collaborò alla pubblicazione e alla diffusione delle opere di Copernico. Un’altra innovazione in corso è quella legata alla trasformazione digitale dei satelliti. Saper veder arrivare e cogliere queste trasformazioni è fondamentale, potremmo infatti dire che oggi ci troviamo in una fase per certi aspetti simile a quella che ha affrontato l’industria automobilistica tradizionale con la comparsa di Tesla. Pensare che quelle realizzate da Tesla siano solo automobili con un motore elettrico è una forte semplificazione che non aiuta a capire l’impatto del cambiamento in corso. Si tratta invece di un cambio di paradigma nel settore della mobilità, dove si sta andando nella direzione di oggetti che non perdono valore col passare degli anni ma anzi si arricchiscono di capacità. Tutto ciò apre al considerare i satelliti non più come voci di costo di capitale ma come opportunità di accesso ai servizi. Sta infatti emergendo una visione che considera i satelliti come servizio e che porta a valutare, per applicazioni di una certa scala, di poter affittare parti e tempi di uso di un satellite o di una costellazione di satelliti per un preciso scopo.
Per quanto riguarda le applicazioni dei dati geospaziali possiamo tracciare, a partire anche dalla vostra esperienza diretta, una breve panoramica?
Giovanni Sylos Labini: In trent’anni di attività abbiamo avuto una vasta gamma di richieste, da quelle ovvie ad alcune più particolari. I campi ormai consolidati sono quelli del monitoraggio dell’agricoltura e del supporto all’agricoltura di precisione, del monitoraggio della qualità delle acque, della loro temperatura, e della stabilità dei suoli che ormai riusciamo a fare con accuratezze millimetriche. Sono tutti ambiti che poi hanno applicazioni in diversi settori verticali. Applicazioni meno ordinarie riguardano, ad esempio, il monitoraggio delle popolazioni di balene allo scopo della loro conservazione o la valutazione della quantità di anidride carbonica catturata dalle foreste. Ciascuna di queste applicazioni si declina poi in maniera specifica a seconda della tipologia di utenti che la useranno. Un grosso tema è quello della sostenibilità: ben quindici dei diciassette SDG (Sustainable Development Goal) che compongono l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile promossa dalle Nazioni Unite sono ampiamente sostenuti dalle tecnologie di osservazione della Terra e vanno dalla disponibilità di acqua pulita per tutti, alla sicurezza alimentare, allo sviluppo di città e comunità sostenibili e tanti altri obiettivi. Legati agli SDG ci sono i cosiddetti ESG (Environmental, Social, Governance), gli standard di sviluppo sostenibile e di governance sociale delle imprese. Una questione a noi molto cara perché Planetek è una società benefit che rivolge molta attenzione a questi temi. In generale, l’aspetto degli SDG riguarda principalmente i rapporti imprese-governi – in gergo B2G (Business to Government) – mentre tutta la parte ESG è molto B2B (Business to Business), e rappresenta quindi un mercato più dinamico e anche più interessante per imprese come la nostra.
Rispetto alle tendenze della New Space Economy e al nuovo rapporto tra pubblico e privato, dal vostro punto di vista quali sono le opportunità che si stanno aprendo? E quali i rischi a cui occorre prestare attenzione? In particolare, nel caso italiano come sta evolvendo il settore spaziale? C’è un ecosistema di nuove startup che sta nascendo e che voi accompagnate?
Giovanni Sylos Labini: Innanzitutto mi soffermerei sull’evoluzione del rapporto tra governi e imprese in tema spaziale, un punto su cui siamo tutti follower delle dinamiche degli Stati Uniti. Il nuovo paradigma delle istituzioni statunitensi potrebbe essere riassunto dalla frase di un alto funzionario della NSA: “comprare quello che puoi e costruire quello che ti serve”. Lo Space Act statunitense incoraggia le agenzie governative – quando esiste la disponibilità industriale di un settore – a sfruttare l’offerta delle imprese private e in un rapporto pubblico-privato virtuoso lasciare all’impresa la possibilità di vendere sul mercato l’eccesso di capacità di un determinato servizio. Questo è l’approccio che ha portato allo sviluppo non solo di SpaceX ma anche di tutto il settore dell’osservazione della Terra. La sostenibilità economica di molte costellazioni satellitari statunitensi è garantita in prima battuta dalla domanda governativa e questo permette di vendere sul mercato tutta la capacità in eccesso a prezzi resi molto più concorrenziali rispetto a quelli di imprese private di altri Paesi, che non possono contare sul sostegno iniziale delle agenzie governative statunitensi. L’Agenzia Spaziale Europea nel 2021 ha pubblicato la sua agenda 2025 dove ha invocato anche per l’Europa un cambiamento di paradigma in questa direzione, sostenendo che l’ESA deve trasformarsi in – nel caso dei nuovi progetti da avviare – un soggetto che condivide il rischio con le imprese spaziali private europee e non solo un mitigatore di questo rischio, che è una cosa molto diversa, e dove invece esiste già un potenziale mercato a diventare il primo cliente o a rappresentare il soggetto che fornisce quella che si definisce “domanda di tenuta d’ancora” che consente la sostenibilità economica di questi mercati. Una visione in linea, ad esempio, con le idee dell’economista Mariana Mazzucato espresse nel libro Lo Stato innovatore, dove sostiene che in Europa abbiamo l’abitudine di cercare di regolare e fissare i mercati ma non di crearne di nuovi, mentre i governi europei dovrebbero essere più capaci di cavalcare le nuove opportunità offerte dalla tecnologia. Celebre è, ad esempio, la sua analisi di quanto il settore pubblico statunitense sia stato cruciale nello sviluppo di un prodotto come l’iPhone di Apple. Tutto ciò rappresenta sicuramente un pezzo importante dei ragionamenti che si devono fare sul settore spaziale, e la visione sta cambiando a livello europeo e anche italiano.
In che modo?
Giovanni Sylos Labini: Nel nostro Paese già nel 2014 col Piano Strategico Space Economy – nato dai lavori della Cabina di Regia Spazio, promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – avevamo intuito che fosse questa la strada da percorrere, ma siamo poi rimasti ingabbiati in una serie di difficoltà amministrative. Per fortuna abbiamo però colto l’occasione offerta dal piano NextGenerationEU per cavalcare questa opportunità. In questo momento stiamo costruendo IRIDE: una delle più grandi costellazioni satellitari europee e il più importante programma spaziale europeo per l’osservazione della Terra a bassa quota, in cui Planetek gioca un ruolo molto importante, coordinando circa venticinque imprese e startup del settore. Il nostro obiettivo è quello di creare una domanda di questo tipo di servizi sostenuta dalla pubblica amministrazione proprio per rendere tutto l’investimento sostenibile. Le cose stanno andando molto bene, il progetto e le consegne dei materiali stanno rispettando pienamente i tempi previsti; ora sarà importante costruire questi rapporti pubblico-privato e abbiamo due anni per farlo prima che il sistema diventi operativo. Sul tema delle startup noi seguiamo molto da vicino il lavoro degli incubatori e da poco è stato attivato l’ESA BIC (Business Incubation Centre) di Brindisi, il più grande network europeo di incubatori per startup dell’Agenzia Spaziale Europea, in cui contribuiamo nel supporto della selezione delle imprese partecipanti. Nell’osservazione della Terra c’è una sorta di “Santo Graal”: l’idea di poter produrre in maniera verticale direttamente dal satellite il dato che serve all’utente finale. Non c’è ma riuscito nessuno. A livello mondiale questo settore industriale è molto frammentato e non ci sono grandi soggetti integrati che siano riusciti a raggiungere questo risultato, anche perché per fornire servizi utili serve una prossimità all’utenza che sarebbe difficilmente raggiungibile da soggetti di grandi dimensioni. Molto più credibile è la possibilità che si creino degli ecosistemi d’innovazione con diversi soggetti che scambiano orizzontalmente valore tra di loro contribuendo a fornire un servizio e a distribuirsene i profitti. È una sorta di bolla, come quella generata dai grandi marketplace delle app per smartphone di Apple o Google.
Planetek è oggi in fase di espansione? Avete interesse anche nell’eventuale acquisizione di startup?
Giovanni Sylos Labini: Stiamo cambiando pelle, dall’essere un soggetto di medie dimensioni stiamo diventando uno dei grandi attori del settore e quindi uno degli aggregatori del sistema imprenditoriale. Ma vorremmo mantenere la nostra filosofia, a cui abbiamo accennato prima. Sicuramente pensiamo di crescere, anche in termini geografici. Oggi abbiamo una sede principale a Bari dove siamo circa centoventi persone, con una notevole crescita rispetto anche solo al 2022 in cui eravamo in settanta. Abbiamo inoltre una sede ad Atene (Planetek Hellas) con una trentina di persone, anche quella in crescita. Naturalmente ci sono alcune attività che vorremmo espandere ancora sia in Europa che nel resto del mondo, a partire dal Medio Oriente dove abbiamo già attività legate ad applicazioni per la sostenibilità ambientale. Uno dei contratti curiosi che ci siamo aggiudicati riguarda il monitoraggio della forestazione in Arabia Saudita dove è in corso un ambiziosissimo piano di piantumazione di nuovi alberi.
Come operate per quanto riguarda il rapporto con l’università e il mondo della ricerca?
Giovanni Sylos Labini: Come prima cosa abbiamo due spinoff universitari. GAP è uno spinoff del Politecnico di Bari che è specializzato sui sistemi laser e opera in sinergia con il gruppo di Telerilevamento del Dipartimento Interateneo di Fisica del Politecnico di Bari e con il CNR-ISSIA, l’Istituto di Studi su Sistemi Intelligenti per l’Automazione di Bari. GAP ha come missione la realizzazione di prodotti, processi e servizi innovativi e di elevato contenuto tecnologico nel campo del telerilevamento e delle relative tecnologie hardware e software. GEO-K è invece uno spinoff della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma “Tor Vergata” il cui obiettivo è realizzare attività di ricerca e sviluppo e fornire consulenza, servizi e prodotti nel campo del processamento di immagini e nel telerilevamento ottico, iperspettrale e a microonde. GEO-K vanta già importanti esperienze in contesti internazionali nell’ambito di progetti promossi dall’Agenzia Spaziale Europea e dalla Commissione Europea. Storicamente abbiamo sempre avuto un forte rapporto con le università – italiane e straniere – e con il mondo della ricerca sullo sviluppo di diverse attività. Si tratta di un rapporto vincente per entrambe le parti: aiuta noi come impresa a introdurre innovazione e aiuta gli enti di ricerca nell’indirizzare al meglio alcuni aspetti volti a esplorare nuove tecnologie promettenti che, a loro volta, potranno essere commercialmente profittevoli nel prossimo futuro. Noi, ad esempio, abbiamo un team di GAP – il nostro spinoff col il Politecnico di Bari – che lavora sulle possibili applicazioni del quantum computing all’osservazione della Terra, per provare a capire quali potranno essere le applicazioni di questa tecnologia appena sarà effettivamente disponibile. Lo stesso abbiamo fatto in precedenza con l’intelligenza artificiale: già da anni, senza troppi clamori e prima che queste tecnologie diventassero “mainstream”, utilizziamo algoritmi di intelligenza artificiale all’interno dei nostri sistemi. Anche questa è un’attività in cui il rapporto con le università è stato sicuramente utile.
Per concludere, affrontiamo il tema del fare impresa al Sud. Avete trovato un contesto favorevole o sfavorevole? Quali influssi ha avuto la localizzazione geografica sulle vostre attività?
Giovanni Sylos Labini: Trent’anni fa abbiamo avuto la fortuna di trovarci in momento particolarmente interessante per la Regione Puglia, grazie all’elaborazione di una politica regionale legata alla Smart Specialisation Strategy (S3) europea. Su quell’onda siamo riusciti a innescare anche il tema del distretto aerospaziale pugliese e abbiamo favorito la nascita di nuovi soggetti, che in alcuni casi sono cresciuti sino a superare le nostre dimensioni, come nel caso di Sitael che opera in particolare nel settore dei satelliti e della propulsione elettrica spaziale e che ha sede a Mola di Bari. Devo dire quindi che per noi essere al Sud ha portato più vantaggi che svantaggi. Per un lungo periodo abbiamo avuto un grande vantaggio nel reperire capitale umano di altissimo livello in tutti i settori verticali in cui operiamo, proveniente dal Politecnico di Bari e dalle università pugliesi. Dopo la pandemia questo è diventato più problematico per via del fenomeno del south working e anche per la scelta del nostro territorio di puntare in maniera squilibrata sul turismo, un elemento che sta creando in Puglia un problema complessivo di attrattività per i giovani. Inoltre, la politica industriale regionale negli ultimi anni si è meno focalizzata sui temi specifici del nostro settore, anche se ha continuato a sostenere il distretto aerospaziale pugliese, che ormai rappresenta un caso di successo non solo nazionale ma di livello europeo. Nonostante queste criticità, siamo comunque riusciti a rispondere all’eccezionale crescita degli ultimi anni e ci stiamo abituando a questo nuovo modo di lavorare – i nostri dipendenti lavorano infatti all’80% in smart working – cercando però di mantenere il massimo livello di interazione tra le persone e di rispettare i principi della nostra cultura d’impresa.