Mind the gap: il rapporto Oxfam 2019 contro la disuguaglianza
- 20 Febbraio 2019

Mind the gap: il rapporto Oxfam 2019 contro la disuguaglianza

Scritto da Maria Chiara Turchi

7 minuti di lettura

Reading Time: 7 minutes

All’inizio del 2019, come da tradizione (qui il nostro articolo sul rapporto 2018), Oxfam International ha pubblicato il nuovo rapporto annuale sulla disuguaglianza nel mondo[1], frutto dell’elaborazione di numerosi studi condotti negli anni precedenti da istituzioni pubbliche e private e destinato a rinfocolare il dibattito non solo in merito alla necessità, in generale, di una riduzione delle disuguaglianze economiche, ma anche su quali politiche siano più efficaci per raggiungere tale obiettivo.

Riguardo al primo tema, Oxfam si schiera senza mezzi termini dalla parte di chi ritiene che la lotta alla povertà passi necessariamente attraverso l’inversione della tendenza che vede gli estremi più ricchi e più poveri della popolazione allontanarsi progressivamente, in parallelo con l’erosione del ceto medio, fino a raggiungere livelli di incomunicabilità, esclusione e inamovibilità sociale sempre più difficili da recuperare.

Sul punto è opportuno ricordare che lo stesso Fondo Monetario Internazionale, non propriamente un simbolo delle politiche redistributive, ha riconosciuto negli ultimi anni che livelli eccessivi di disuguaglianza tendono ad erodere la coesione sociale, a incentivare la polarizzazione politica e in definitiva a rallentare la crescita economica[2], contrariamente a quanto i fautori della “trickle down theory” hanno sostenuto per decenni. Quanto a come intervenire per attuare un simile cambio di rotta, il rapporto di quest’anno, in linea con quanto suggerito da altri studi, tra cui il World Inequality Report 2018[3], si concentra su due proposte, tra loro correlate. Innanzitutto, si promuove l’applicazione di sistemi di tassazione spiccatamente progressivi, che intacchino maggiormente le rendite e la ricchezza privata delle fasce più ricche, nonché i guadagni dei grandi gruppi societari internazionali, a fronte di un abbassamento delle imposte sui redditi da lavoro e sui consumi, che hanno spesso un effetto regressivo. In secondo luogo, si sottolinea l’importanza strategica dello sviluppo di servizi pubblici universali e gratuiti, in particolare in materia di educazione, sanità e protezione sociale. I due macrotemi sono poi analizzati trasversalmente alla luce di un terzo fattore, già oggetto di approfondimento nel rapporto del 2018, ossia la connessione esistente tra disuguaglianze economiche e disuguaglianze di genere, e le potenziali ripercussioni positive delle politiche redistributive sul divario strutturale delle condizioni di vita di uomini e donne in molte parti del mondo.

A margine di ciò, una piccola nota per il lettore: poiché il rapporto si propone di descrivere e intervenire su tendenze globali, pur presentando spesso esempi tratti da specifici contesti territoriali, occorre accettare un certo grado di inevitabile generalizzazione nell’analisi e nelle proposte e tener presente che in alcuni casi esistono grandi differenze regionali e nazionali. D’altro canto, tale livello di analisi ha il merito di condensare una lunga serie di contributi della letteratura sia teorica che empirica sul tema delle disuguaglianze, fornendo così un’utile guida e spunti di riflessione per chi volesse approfondire il dibattito e studiare l’applicabilità delle proposte nei diversi sistemi socio-economici. Nel seguito dell’articolo si cercherà quindi di presentarne i contenuti fondamentali.

Qualche dato di sintesi, senza pretese di esaustività, può aiutare a inquadrare la tendenza generale, che conferma anche per l’anno appena passato un progressivo allargamento della forbice tra il gruppo più benestante e quello più povero della popolazione mondiale.

Secondo le elaborazioni condotte da Oxfam[4], nei dieci anni che hanno seguito la crisi il numero dei miliardari è raddoppiato e la loro ricchezza nell’ultimo anno è cresciuta complessivamente di 2,5 miliardi al giorno, mentre quella della metà più povera della popolazione mondiale è scesa dell’11%. Inoltre, se, nel 2017, 43 miliardari possedevano un ammontare pari a quello dei 3,8 miliardi di persone più svantaggiate, nel 2018 lo stesso capitale si è ulteriormente concentrato nelle mani di sole 26 persone. Ciò si accompagna a livelli di tassazione che, se guardati globalmente, sono progressivamente diminuiti proprio per le fasce di reddito più alte.

Sul versante della lotta alla povertà, è opportuno richiamare i dati elaborati dalla Banca Mondiale[5] che mostrano come, nonostante ci si possa rallegrare della continua diminuzione del numero assoluto di persone che vivono in condizioni di povertà estrema, il suo tasso di riduzione abbia subito un severo rallentamento, al punto da dimezzarsi, a partire dal 2013.  Si assiste inoltre a un’inversione di tendenza nell’Africa subsahariana, dove la fascia di popolazione povera si è addirittura allargata.

Va poi considerato il fatto che anche le persone che vivono leggermente al di sopra di 1,90 $ al giorno, soglia convenzionalmente definita dalle organizzazioni internazionali, si trovano comunque in condizioni di vita precarie. Inoltre, tale soglia non rappresenta un benchmark realistico per considerare la capacità di far fronte alle necessità di base nei Paesi a reddito medio o medio-alto; per questo motivo la Banca Mondiale ha introdotto due nuove soglie (3,80 $ e 5,50 $), che permettono di fare analisi più veritiere. Applicando come standard la soglia più alta, emergono dati meno confortanti: poco meno della metà della popolazione mondiale, infatti, vive oggi con meno di 5,50 $ al giorno. Del resto, il World Inequality Report del 2018 mostrava già che, tra il 1980 e il 2016, per ogni dollaro aggiuntivo di reddito mondiale, solo 12 centesimi sono andati a beneficio della metà più povera della popolazione mondiale, mentre l’1% più ricco ne ha assorbiti 27:

Oxfam

Grafico 1: The elephant curve of global inequality and growth, 1980–2016

Disuguaglianze di tale entità, fino a qui descritte in termini puramente economici, comportano poi pesanti conseguenze a catena su altri livelli, primo tra tutti quello socio-sanitario. Ad esempio, gli abitanti dei quartieri più poveri di Londra vivono mediamente sei anni in meno dei loro concittadini più ricchi. Diminuiscono poi le possibilità di ricevere un’educazione adeguata e con essa la capacità di migliorare la propria condizione; manca una rete di supporto in caso di malattie, infortuni o semplicemente anzianità.

Infine, sembra che a farne le spese sia soprattutto la metà femminile della popolazione. Si può sintetizzare tale tesi nel modo seguente: in contesti culturali che prevedono una ripartizione del lavoro di cura non retribuito fortemente sbilanciata a carico delle donne e, di conseguenza, la loro minor partecipazione al mondo del lavoro e al possesso di beni e capitali, esse sono anche le prime vittime delle politiche di austerity, trovandosi in prima linea nell’assorbire gli effetti dei tagli al welfare. Infatti, la mancanza di servizi come elettricità e acqua corrente, asili nido e supporto per gli anziani si ripercuote maggiormente sulle donne, restringendone forzatamente gli spazi di autonomia personale.

Il problema non si limita al tema del gender pay gap, ossia della differenza tra i redditi da lavoro percepiti da uomini e donne, che discende in gran parte dal meccanismo sopra esposto, ma va esaminato anche in termini di gender wealth gap, ossia della distribuzione diseguale di beni, investimenti e risparmi. Da questo punto di vista, le donne possiedono solo il 40% della ricchezza mondiale, con grandi differenze a seconda dei Paesi interessati; ciò produce effetti particolarmente gravi soprattutto nelle società in cui il possesso della terra costituisce un fattore significativo di indipendenza economica.

In conclusione, la debolezza economica comporta non solo una minor capacità di sopportare momenti di crisi che spesso colpiscono in maggior misura la popolazione femminile, ma anche una riduzione del potere negoziale delle donne nei rapporti tra i sessi, meno autonomia e una conseguente maggior probabilità di rientrare nella fetta più povera della popolazione. La disuguaglianza economica contribuisce insomma al calcificarsi di una disuguaglianza di genere che ha prima di tutto radici culturali, al punto che alcuni dati confermano che nelle società in cui le differenze tra ricchi e poveri sono minori anche le disuguaglianze di genere si rivelano più contenute.

In risposta alla situazione appena descritta, il rapporto propone una combinazione di due linee di intervento parallele: da una parte la diffusione e il potenziamento dei servizi pubblici, che permettano alle fasce più povere della popolazione, in particolare donne e ragazze, di dirottare tempo e risorse dal soddisfacimento dei bisogni primari allo sviluppo delle proprie potenzialità, dall’altra una riconversione dei sistemi di tassazione in senso progressivo, così da finanziare detti servizi estraendo risorse dai gruppi che si trovano al livello più alto della distribuzione della ricchezza.

Per risultare efficaci, secondo Oxfam, i servizi pubblici dovrebbero essere universali, gratuiti, a gestione pubblica, trasparenti sul piano della rendicontazione e accessibili in particolare da parte delle donne e di altre categorie discriminate. In particolare, l’universalità imporrebbe che i servizi non fossero rivolti unicamente alle sacche di popolazione definite svantaggiate secondo standard predefiniti. Per quanto ciò possa apparire contraddittorio, occorre ricordare che le politiche assistenziali cucite su misura per particolari gruppi sociali si sono spesso rivelate delle trappole controproducenti, in quanto hanno comportato un minore accesso effettivo rispetto al numero totale degli aventi diritto, nonché una parallela diminuzione dell’impegno della politica ad implementare efficaci meccanismi di redistribuzione del reddito. Inoltre, è stato argomentato che la partecipazione del ceto medio alla fruizione dei servizi contribuisce a mantenere più alte le pretese in termini di qualità, a vantaggio di tutti gli utenti[6].

Spostandosi sul piano del finanziamento di tali misure, e quindi sul tema della tassazione, è utile riportare due grafici che mostrano chiaramente la tendenza che Oxfam propone di invertire:

Oxfam

Grafico 2: Declining rates of taxation of rich individuals and corporations

 

 

 

Oxfam

Grafico 3: Tax revenue change 2007–2015 (% GDP)

L’attuale struttura globale della tassazione, colpendo sempre più pesantemente i redditi da lavoro, mentre assicura trattamenti privilegiati alle rendite sulla proprietà e ai guadagni dei grandi gruppi societari, non solo non è adeguata a redistribuire il reddito dalle fasce più abbienti a quelle più povere, ma contribuisce spesso al processo inverso di trasferimento delle risorse a vantaggio di chi ne possiede già in abbondanza. Un Robin Hood al contrario, al punto che in alcuni Paesi, se si sommano le tasse sul consumo a quelle sul reddito, il 10% più ricco è sottoposto a un tasso di contribuzione reale più basso del 10% più svantaggiato[7].

A ciò va aggiunto il fatto che chi possiede grandi capitali ha oggi a disposizione, grazie alla velocità dei trasferimenti nel mondo globalizzato, una vasta gamma di strumenti per evadere le tasse, nascondere la ricchezza o semplicemente approfittare della concorrenza al ribasso tra gli Stati per attrarre investimenti. La questione rimane insuperabile in assenza di uno sforzo coordinato e continuativo a livello internazionale per progredire verso l’eliminazione di queste zone grigie; il G20 del 2019 potrebbe essere un’occasione per mobilitare l’opinione pubblica in tal senso.

In conclusione, il rapporto Oxfam si espone nel prendere una posizione politica netta sulla necessità di invertire la rotta lungo la quale ci stiamo trascinando; la sfida, per chi condivide tali premesse, è di passare all’azione con proposte capaci di convincere cittadini frustrati e impoveriti. In questo senso, le prossime elezioni europee costituiranno un importante banco di prova.


[1] Al link è possibile scaricare gratuitamente il Rapporto Oxfam 2019, Public good or private health?, sia in versione integrale (in inglese) sia in versione abbreviata (in italiano e altre lingue).

[2] IMF (2017) Fiscal Monitor: Tackling Inequality.

[3] F. Alvaredo, L. Chancel, T. Piketty, E. Saez and G. Zucman. (2017). The World Inequality Report 2018. World Inequality Lab.

[4] P. Espinoza Revollo et al. (2019). Public Good or Private Wealth? Methodology Note.

[5] World Bank. (2018) Poverty and Shared Prosperity 2018: Piecing Together the Poverty Puzzle. Washington, DC.

[6] B. Welham. (2014). Governance for Development. The World Bank.

[7] Rapporto Oxfam (2019), op. cit., p.  64. Il rapporto fa esplicito riferimento ai casi del Brasile e del Regno Unito, con dati tratti rispettivamente da: Brazil INESC (2015). Mineração e (in)justiça tributária no Brasil. Nota Técnica 184 e UK Office for National Statistics (2018) Effects of taxes and benefits on household income

Scritto da
Maria Chiara Turchi

Ha conseguito la laurea in Giurisprudenza e la licenza magistrale del Collegio Superiore all’Università di Bologna. Da sempre curiosa e appassionata di tutto ciò che riguarda la cosa pubblica e la lotta alle disuguaglianze, ha lavorato nelle istituzioni europee e attualmente all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale. Recentemente ha approfondito la propria formazione con un master in Welfare: fondamenti teorici e data analysis presso il Collegio Carlo Alberto di Torino.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici