Recensione a: Sadiq Khan, Respirare. Fermiamo insieme l’emergenza climatica, Egea, Milano 2023, pp. 160, 19.90 euro (scheda libro)
Scritto da Gabriele Giudici
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Se c’è un minimo comune denominatore che accompagna tutto il libro Respirare di Sadiq Khan è la concretezza operativa. Siamo abituati a pensare che il cambiamento climatico, che ha necessariamente bisogno di politiche mondiali e di ampio respiro, difficilmente possa diventare un’agenda concreta, attuabile in pochi anni in modo da diminuire in maniera significativa le emissioni e, allo stesso tempo, migliorare la qualità della vita delle persone. Eppure la corsa contro il tempo, che accompagna anche l’incipit del libro e la svolta ecologista dell’autore, pervade le pagine trasformandole in un almanacco operativo per il cambiamento della città. Il libro si sviluppa raccontando le politiche ambientali attuate dal sindaco di Londra, che le ha erette a pilastro del suo programma politico e della sua azione amministrativa. Le politiche verdi diventano quindi la sua impronta e l’eredità di questi anni della megalopoli d’oltremanica.
È rilevante che nell’evolversi dei capitoli si manifesti soprattutto il confronto con la principale necessità che rende qualsiasi tipo di politica attuabile, ovvero sostenibile economicamente e politicamente: il consenso. Uno dei punti di forza di Respirare è infatti la capacità di Khan di presentare dati scientifici complessi in modo accessibile e comprensibile. A prescindere dalle sue origini politiche (Sadiq Khan appartiene al Partito Laburista), l’autore si concentra sulla condivisione di informazioni obiettive e basate su evidenze scientifiche per poi declinarle politicamente nell’azione quotidiana.
Nelle vicissitudini elettorali, nell’attestazione di stima per l’attività amministrativa londinese e nella capacità di correggere l’indirizzo politico al manifestarsi dei problemi, soprattutto quando ci si confronta con le disuguaglianze e con il costo sociale delle transizioni, si intravede una soluzione “vissuta” all’annoso problema della sostenibilità elettorale delle politiche ambientali. Le soluzioni vanno insomma cercate nell’efficacia concreta, visibile e comunicabile del miglioramento delle condizioni di vita: aria più salubre, vita più serena, città più verdi, abitudini migliori e rigenerazione urbana. Per questo l’approccio olistico di Khan esplora non solo gli effetti nocivi dell’inquinamento atmosferico sulla salute umana, ma anche le sue implicazioni economiche, sociali e politiche. Egli sottolinea come la lotta contro l’inquinamento atmosferico richieda un impegno collettivo, che coinvolga governi, imprese, comunità locali e singoli cittadini.
Questo è il nodo centrale del lavoro amministrativo raccontato nel libro di un sindaco che, in virtù del ruolo che ricopre, deve misurarsi quotidianamente con il consenso e con gli effetti che le politiche del Municipio hanno sulla vita dei suoi concittadini. Si tratta di un messaggio potente, che cerca di sanare l’annoso conflitto fra necessità d’azione futuribile e consenso attuale. Un contrasto che ha attraversato tutta la storia dei movimenti ambientalisti fin dalla loro nascita e che interroga soprattutto le democrazie moderne, raccontate spesso come eccessivamente lente rispetto all’impetuosa evoluzione delle problematiche globali odierne. Questa prospettiva inclusiva e interdisciplinare contribuisce a fornire una visione completa della sfida che abbiamo di fronte per i prossimi anni. L’esperienza che Khan cerca di trasmettere si misura con un modello che rende possibile un’azione incisiva, consapevole e partecipata – una sfida a tutto tondo che racconta del successo della mobilitazione collettiva quando la si riesce a porre come identitaria in relazione a un territorio e ad una città.
Ma il modello proposto può essere ‘‘esportato’’? Sebbene il sindaco di Londra parli della necessità di sviluppare il “network C40” (Cities Climate Leadership Group), la rete globale di città e megalopoli impegnate nel contrasto al cambiamento climatico, non ha l’ardire di presentare il proprio modello come unica soluzione. Benché le megalopoli siano le prime responsabili dell’inquinamento, attualmente solo la metà della popolazione mondiale vive in queste aree, e determinare la sfida ambientale solo sulla base degli insediamenti residenziali sarebbe quantomeno parziale.
Per questo Respirare non si propone di risolvere con un’unica ricetta problematiche globali, ma avanza un programma funzionale alla costruzione di una solida agenda ambientale per le città. E, allo stesso tempo, racconta le azioni intraprese sulla capitale del Regno Unito per frenare il cambiamento climatico e contrastare l’insalubre situazione della città.
Tutto ciò si confronta, inevitabilmente, con il ruolo della dimensione urbana, perché è sul territorio e nelle città che si vivono alcune delle conseguenze dei cambiamenti globali. Il libro si apre con una potente introduzione in cui Khan condivide la storia personale che lo ha spinto a dedicarsi alla lotta contro l’inquinamento atmosferico, ovvero di come la sua partecipazione alla maratona di Londra e la diagnosi di asma, dovuta all’aria respirata, sia stato per lui il punto di svolta rispetto alla consapevolezza dell’emergenza che doveva essere affrontata. Analogamente, la struggente storia della morte della piccola Ella Kissi-Debrah, deceduta a nove anni in seguito ad un attacco di asma causato dall’inquinamento atmosferico, porta al centro del libro la dimensione umana, permettendo ai lettori di comprendere appieno l’urgenza e l’importanza dell’agire qui e ora.
Le città moderne e industriali sono nate sull’onda di un caotico accrescimento urbanistico dovuto alle opportunità offerte dalle agglomerazioni. In particolare, a partire dalla prima Rivoluzione industriale Londra conobbe un’esplosione demografica che si riflesse in una programmazione urbanistica pressoché assente. Non a caso si trattò di una delle prime città al mondo a fare i conti con problematiche di insalubrità diverse dalle epidemie che hanno caratterizzato tutta la storia umana. Uno degli episodi più noti di inquinamento atmosferico a Londra è stato il “Grande smog” del 1952. Ad inizio dicembre di quell’anno, per circa una settimana, una densa nebbia combinata con l’inquinamento industriale si accumulò sulla città, creando una coltre di smog eccezionalmente densa e portando a livelli estremamente elevati di particolato e sostanze tossiche nell’aria. Il “Grande smog” causò così la morte di migliaia di persone e colpì gravemente la salute di altre decine di migliaia.
Dopo quest’evento, l’opinione pubblica e il governo presero coscienza dell’urgenza di affrontare l’inquinamento atmosferico: ci furono diversi cambiamenti normativi e iniziative per ridurre le emissioni inquinanti. Ecco come si andò a formare una politica di zooning dell’inquinamento, ovvero una programmazione urbanistica che evitasse o diminuisse contaminazioni pericolose nel tessuto urbano. Ciò implicava – ad esempio attraverso il Clean Air Act del 1956 – l’introduzione di norme più rigorose sul controllo delle emissioni industriali e il divieto di bruciare carbone in alcuni quartieri.
Negli anni successivi si dispiegarono ulteriori sforzi per ridurre l’inquinamento atmosferico nella capitale: le centrali elettriche a carbone furono gradualmente sostituite da impianti più puliti e furono introdotti standard più rigorosi per il controllo delle emissioni dei veicoli. Sotto la guida di Khan, questa politica di zonizzazione è continuata ed è accelerata, come raccontato nel libro. Il percorso seguito include l’introduzione di una zona a emissioni ridotte (ULEZ – Ultra Low Emission Zone) nel centro di Londra, che richiede ai veicoli più inquinanti di pagare una tariffa per accedere all’area, nonché la promozione dell’uso di veicoli elettrici e di trasporto pubblico ecologico.
Questo metodo a zone è stato ed è tuttora il modello più seguito nella programmazione urbanistica, poiché evita la concentrazione e le esternalità più evidenti. Ma l’approccio portato avanti dall’amministrazione Khan e da molte altre città globali muove un passo ulteriore: esso non circoscrive solo l’emergenza visibile per evitare le concentrazioni inquinanti, ma cerca anche di abbatterle. Ecco che l’incentivo ad attività che orientino i consumi a basse emissioni, che producano energia pulita e che assorbano parte delle emissioni tramite la realizzazione di ampie aree verdi e boscate produce un insieme capace non solo di tamponare ma anche di creare una prospettiva, e quindi un’idea diversa di città.
Tutto ciò ha risvolti sociali che devono essere risolti all’interno della maglia urbana. Se i nodi non vengono sciolti, infatti, diventa impossibile ottenere il consenso popolare necessario a portare avanti politiche verdi le cui ricadute – in termini di conversioni ambientali, energetiche e urbanistiche – richiedono sforzi che le classi meno abbienti spesso non riescono a sostenere. Giustizia climatica significa non solo agire per ridurre le emissioni di gas serra, ma anche affrontare le disuguaglianze sociali ed economiche che contribuiscono alla crisi climatica e che a causa di essa sono aggravate. Il cambiamento climatico colpisce, infatti, in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili e meno responsabili delle emissioni di gas serra, come i Paesi in via di sviluppo e le persone a basso reddito nelle periferie. Ecco che un miglioramento qualitativo dell’urbanistica deve necessariamente essere anche urbanisticamente equo – diversamente esso porta a fenomeni come la gentrificazione, che certamente non è sintomo di un miglioramento collettivo della vita degli abitanti.
La dinamica per cui gli investimenti urbani si spostano dall’obiettivo di evitare le concentrazioni a quello di valorizzare progetti di riqualificazione si scontra inevitabilmente con la programmazione del territorio in una dimensione più ampia di quella cittadina. Nell’Ottocento si spostavano le fabbriche in periferia, in modo che le lingue di fumo nero delle ciminiere non lambissero più le abitazioni del centro; ora non è pensabile che sia sufficiente lo spostamento delle esternalità, soprattutto per i tanti che oggi vivono ai margini delle metropoli. Per questo la politica di concertazione dovrebbe avvenire su una scala più ampia, regionale e nazionale (e quindi mondiale). Se queste dimensioni hanno maggiore difficoltà a misurarsi con il consenso è perché le visioni strategiche di lungo periodo hanno un impatto molto più limitato sulla vita quotidiana delle persone.
Ecco che la dimensione fondamentale di regia da parte delle istituzioni superiori si misura con quella degli attori principali in scena: le città e le megalopoli. Se emerge una prospettiva dal libro di Sadiq Khan, infatti, è che le città globali e le megalopoli sono i grandi attori del presente, quindi anche i protagonisti del cambiamento, i luoghi in cui si deve misurare la concretezza delle sfide ambientali. Ma sta ad una coscienza nazionale, continentale e mondiale la regia del copione. La sfida culturale è che ogni soggetto apprenda la propria parte, ne sia consapevole e cerchi di eseguirla al meglio. Appare evidente che – come emerge da Respirare – la Londra che ha avuto come espressione l’amministrazione Khan sia consapevole del proprio ruolo. La speranza lanciata nelle pagine finali è che questa consapevolezza, almeno per le città e per la dimensione locale, possa essere colta anche altrove.