Scritto da Marco Negri, Otello Palmini
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A più di due anni dalla sua pubblicazione Ripensare la smart city (Evgeny Morozov e Francesca Bria, Codice Edizioni 2018) costituisce ancora un importante riferimento nel panorama culturale italiano sul tema dell’innovazione tecnologica urbana. Questo articolo più che offrire un’ulteriore recensione si propone di individuare alcune risposte possibili sul perché di questa centralità, evidenziando i tratti fondamentali di questo lavoro e mettendoli in relazione con il dibattito contemporaneo sulla smart city.
La prima parte del libro, svolta da Evegeny Morozov, può essere considerata come un’analisi economico-sociologica finalizzata al disincanto del concetto di smartness. Un’operazione di smascheramento ideologico fondata in una corposa letteratura che, nell’ultimo decennio, ha sottoposto questo tema a serrata critica. Non a caso nelle prime pagine è citato uno degli articoli manifesto di questa attenzione critica: Smart city as a corporate storytelling di Söderström, Paasche e Klauser pubblicato su «City» nel 2014. In questo articolo è ripercorsa criticamente la retorica sulla smart city attraverso un’analisi serrata del modello IBM. Questa retorica presentava la smart city come un dispositivo di governance squisitamente tecnico, non politico. Un dispositivo il cui unico obiettivo dichiarato è quello di massimizzare la resa del sistema. A questa apoliticità è strettamente connesso un altro elemento, messo in luce sia nell’articolo citato sia nel testo, ovvero l’inserimento di questo modello urbano in una filosofia della storia univoca e lineare, scandita dall’innovazione tecnologica. La storia viene intesa non come il campo di conflitti i cui risultati danno origine a forme sociali più o meno stabili, ma come un percorso lineare, ad efficienza crescente, della capacità umana di vivere in società. I cambiamenti di paradigma sociale sono letti come perfezionamenti con un gergo hi-tech che tende a schiacciare lo sviluppo storico sul meccanismo dell’aggiornamento software. Questo nuovo modello urbano viene presentato come «apice di un’evoluzione dei centri urbani improntata all’innovazione tecnologica, e il controllo della loro crescita e ubiquità è vincolato unicamente al tasso di evoluzione dell’ingegno umano piuttosto che a fattori politici ed economici esterni» (pp. 15-16). Questa tendenza a schiacciare la temporalità su di un piano lineare le cui evoluzioni sono scandite da innovazioni tecniche è un motivo ricorrente nella retorica dei giganti della tecnologia. Possiamo qui ricordare l’analisi di Raffaele Danna per Pandora Rivista (Da Marx a Mark) sulla filosofia della storia del fondatore di Facebook che situava la sua creazione all’apice dei tentativi umani di vivere in comunità (tribù, città, stati) restituendo lo sviluppo storico umano in una maniera lineare, analoga, anche se con differenze specifiche, a quella presentata della retorica smart.
Questa filosofia della storia smart si basa su di un salto epistemologico che sarebbe permesso dalla coppia Big Data-Intelligenza artificiale. Possiamo riassumerlo così: questa posizione considera la città come un sistema di sistemi, come un corpo che deve essere fatto funzionare/messo in salute, asserisce che la politica precedente all’era smart ha sempre fallito perché ha portato avanti interessi particolari e non ha mai avuto la capacità di analisi e di calcolo necessarie per mettere a regime il sistema. Queste due insufficienze sono superate nel nuovo modello: infatti potenzialmente tutto ciò che accade nella città può essere razionalizzato in forma di dati e analizzato tramite AI, in un modello di governance che guarda alla città come ad un intero ed è imparziale. Detta con uno slogan molto più accattivante From gut feelings and impressions to knowledge. Siamo nell’ordine di un superamento del politico attraverso il tecnologico, un superamento dell’essenza conflittuale della società attraverso un suo appiattimento ad un’ontologia da ingegneri fatta di 0 e di 1 che pensa di poter risolvere i problemi della convivenza umana in termini di efficienza complessiva.
Questa retorica dell’efficienza fortemente tecnocentrica e di marcata derivazione cibernetica è molto diffusa nell’ambito dei sistemi di governance cittadina per due motivi che l’analisi di Morozov mette in luce: dopo la crisi del 2008 e le politiche di austerity sono pochissime le amministrazioni capaci di fare spesa pubblica. Molte città devono quindi ricorrere a prestiti e in questa logica necessitano di buoni punteggi per ottenere condizioni favorevoli di finanziamento «di conseguenza non è necessario che una città nutra un vero e proprio desiderio razionale di modernizzazione per intraprendere un programma di trasformazione in smart city: semplicemente non farlo significherebbe perdere il proprio posizionamento nel mercato internazionale delle obbligazioni» (p. 31). Questa corsa alla smartness, che si svolge anche nel tentativo di accedere ai fondi europei, ha anche un’altra implicazione problematica evidenziata da Alberto Vanolo in un altro articolo importante su questo tema. I criteri in base a cui le classifiche misurano il grado di innovazione tecnologica delle varie città tengono molto raramente conto del contesto e del grado di integrazione tra le soluzioni tecnologiche e la città consolidata. In questo modo viene promosso un modello univoco e astratto di smartness che poco ha a che fare con l’effettiva integrazione delle soluzioni tecnologiche all’interno dei contesti: un modello in cui Napoli dovrebbe essere un po’ più come Milano appiattendo le differenze tra i contesti urbani sulla superficie senza attrito del grado di innovazione tecnologica[1].
Un’altra tendenza pericolosa, strettamente connessa alla medesima logica riguarda la privatizzazione del welfare. Infatti nel contesto di crisi economica e di aumento delle inefficienze del settore pubblico si sta concedendo molto spazio ad aziende capaci di assicurare alla cittadinanza servizi più efficienti di quelli erogati dal pubblico. Morozov fa l’esempio della piattaforma per la mobilità Uber che assicura un servizio a prezzi modici e una fonte di guadagno per alcune fasce di popolazione. La capacità di Uber di raccogliere e analizzare dati sulla mobilità urbana le consente di avere un enorme vantaggio competitivo nei confronti del pubblico. Un vantaggio che può essere sfruttato sia vendendo i dati alle stesse città che li hanno generati, sia incrementando il divario di efficienza tra i suoi servizi e quelli pubblici favorendone in questo modo una graduale sostituzione in nome dell’efficienza. Un discorso simile può essere fatto per Airbnb e il mercato immobiliare. Questi fenomeni non sono, secondo Morozov, estemporanei ma rispondono ad una logica già ampiamente diffusa negli USA e che inizia a farsi strada anche in Europa, essi rappresentano «una conseguenza logica del keynesianesimo privatizzato, ne consegue che le città non neoliberiste che cercano di sfidarle in campo aperto si ritrovano tra l’incudine e il martello […] imporre vincoli o addirittura chiudere totalmente le porte ad Airbnb e Uber […] genera malcontento in tutta quella fetta di popolazione che utilizza tali aziende per guadagnare o per risparmiare. Dall’altro lato la totale inazione nei loro confronti significa isolare o estraniare un’altra fetta di popolazione, quella che non è mai stata o non è più in grado di beneficiare del keynesianesimo privatizzato» (p. 54). Il crescente impatto in ambito urbano di queste piattaforme ha portato gli analisti ad occuparsi del fenomeno smart city non intendendolo solamente come un progetto unico e centralizzato, ma considerando come l’esperienza e le dinamiche urbane vengano alterate dalla presenza di questi centri di organizzazione diffusa non coordinati tra loro[2].
L’ultima problematica affrontata da Morozov riguarda il possesso e la gestione dei dati. Questo tema riguarda sia aziende come quelle che abbiamo citato prima sia Google o Amazon che offrono servizi a vario titolo alle amministrazioni cittadine. Queste aziende sono massimamente attratte dai dati che l’uso di software può generare. Non tanto e non solo per aumentare la precisione nel vendere i propri spazi pubblicitari, ma soprattutto per dare in pasto la maggior quantità di dati possibile alle loro versioni di intelligenza artificiale. I recenti grandi progressi in ambito AI non riguardano, infatti, rivoluzioni qualitative incredibili ma sono fondati sulla incredibile quantità di dati con cui questi sistemi possono ad oggi essere “allenati”. Come dovrebbe essere ormai chiaro questa retorica dell’efficienza basata sui dati è la pietra angolare della spoliticizzazione dei processi urbani e proprio per questo un buon modo per arginare il fenomeno è quello di politicizzare i dati. Ovvero costruire infrastrutture pubbliche in grado di raccoglierli e utilizzarli, fornire al cittadino gli strumenti culturali-tecnici per utilizzarli. Rendere insomma i dati da ricco bottino per aziende un’infrastruttura pubblica capace sia di permettere il controllo democratico sugli effettivi risultati di politiche urbane sia di fornire una base oggettiva a rivendicazioni e battaglie di alcune comunità.[3] Questo approccio che intende certamente aumentare i livelli di privacy e accessibilità dei dati sarebbe in grado di tramutarli, attraverso investimenti in infrastrutture e in formazione, in una nuova opportunità di progettazione partecipata e di intermediazione politica traghettando finalmente on-life la relazione tra l’infrastruttura urbana e il cittadino in una modalità, al contempo, efficace ed etica.
Questa importante mole di questioni non deve essere scambiata per una critica alla tecnologia in sé, una sorta di neo-luddismo. Qui ad essere criticato è il modo in cui la tecnologia viene usata all’interno del sistema economico vigente. L’attenzione è rivolta all’uso politico-economico e alla strutturazione legislativa che informano l’utilizzazione della tecnologia. Non è un caso che l’obiettivo del libro sia quello dare le coordinate per il design di una smart city non neoliberista: «Le città necessitano inoltre di un apparato concettuale per ridefinire la loro relazione con la tecnologia, con i dati e con le infrastrutture» (p. 73). I termini di questo nuovo quadro concettuale possono essere sintetizzati con l’espressione «sovranità digitale» ovvero «un’idea che si basa sulla capacità dei cittadini di partecipare e avere voce in capitolo su come operano e quali finalità perseguono le infrastrutture tecnologiche che li circondano» (p. 74). La discussione sulla sovranità digitale – su come gli individui, le città, gli Stati e gli enti sovranazionali possano regolamentare-strutturare l’infosfera – si basa sulla convinzione, esplicitata chiaramente da un pensatore importante come Luciano Floridi – che in questo momento dell’era digitale il problema non sia tanto quello di produrre ulteriore innovazione tecnologica (che comunque ci sarà) ma quello di capire come gestirla per affrontare le sfide che abbiamo davanti: le disuguaglianze sociali, la crisi della democrazia liberale e la crisi climatica.
La seconda parte del libro, svolta da Francesca Bria, cerca di tradurre queste posizioni in orientamenti di politica urbana. Fin dalle prime pagine, l’autrice dichiara apertamente l’approccio attivista con cui intende attuare questo programma delineando una transizione da smart city, tecnocratiche e finanziarizzate, a “città ribelli” che utilizzano la tecnologia come fattore abilitante per ristabilire i diritti fondamentali dei cittadini e migliorare l’accessibilità ai servizi essenziali. In questa prospettiva, l’efficacia dell’opposizione al modello attuale di smart city dipenderà dalla capacità delle “città ribelli” di orientare il dibattito pubblico sulle contraddizioni del neoliberismo tecnologico e dalla coerenza del modello proposto con i reali bisogni dei cittadini. La trattazione prosegue indicando i possibili ambiti di intervento nelle città – dai city data commons agli strumenti informatici della Pubblica Amministrazione, dall’organizzazione degli appalti pubblici al welfare urbano – corredandoli con una descrizione delle principali esperienze internazionali in questi campi.
Gli interventi proposti sottendono un radicale ripensamento dei processi urbani che può essere riassunto in tre passaggi fondamentali. Il primo è la centralità dei dati, elemento strategico su cui impostare un nuovo modello di gestione dei diritti e servizi urbani. Un tema che deve essere innanzitutto compreso dalla comunità e dai decisori pubblici, dato che «città e governi devono ancora rendersi pienamente conto che ormai i dati costituiscono il cuore della maggior parte dei rapporti di potere nell’economia digitalizzata» (p. 99) e successivamente tradotto in politiche pubbliche. La principale azione in questo campo consiste nella realizzazione di city data commons, una gestione accessibile dei dati in cui la loro proprietà e la loro messa a disposizione in dataset venga organizzata dalle città. Un modello che tutela iniziative basate su un’economia della condivisione, standard etici e una maggiore ricaduta sui sistemi locali: accedendo a piattaforme pubbliche o a forme di crowdsourcing partecipativo startup, imprese e comunità possono utilizzare e rielaborare questi dati per proporre servizi sulla base dello stesso numero di informazioni essenziali di cui dispongono le grandi multinazionali tecnologiche.
Il secondo punto è la necessità di operare un profondo cambiamento culturale e organizzativo degli enti pubblici per poter governare i processi di transizione digitale prodotti dalla quarta rivoluzione industriale. Dati e informazioni hanno cambiato il modo di produrre, gestire e fornire i principali servizi e infrastrutture urbane. Il ruolo dell’ente pubblico è quindi quello di creare, attraverso nuove procedure e standard, il contesto normativo e culturale con cui realizzare la sovranità tecnologica e rispondere efficacemente ai bisogni dei cittadini. «Una delle sfide principali è quella di trasformare le gare d’appalto, introducendo clausole improntate all’etica, all’innovazione, alla parità di genere e alla sostenibilità nelle modalità in cui le città acquistano prodotti e servizi. […] Le regole sono spesso troppo complesse e i processi decisionali legati all’assegnazione dei fondi sono troppo poco trasparenti. […] Infine, le città devono favorire una cultura agile e sperimentale nei processi organizzativi, introducendo nuovi metodi di fornitura dei servizi (per esempio gli approcci di co-design e lo “sviluppo agile del software”) che mettano al centro il cittadino e il cui impatto sociale sia chiaramente misurabile» (p. 63). È interessante rilevare come questo modello organizzativo riprenda alcuni aspetti già presenti nelle soluzioni smart attuali – la centralità del servizio, la misurabilità dei risultati, la valorizzazione dell’innovazione e della creatività – orientandole verso sistemi economici collaborativi capaci di coniugare innovazione tecnologica e sociale. Un modello che cerca di sistematizzare soluzioni e ricerche già mature nel panorama europeo. Si veda ad esempio il progetto The Hackable City[4], sviluppato ad Amsterdam tra il 2012 e il 2018, che propone un approccio non convenzionale al “fare città” nel quale le tecnologie digitali e i nuovi media divengono i fattori abilitanti di processi collaborativi che coinvolgono progettisti, cittadini e istituzioni per migliorare la qualità di vita dei residenti.
Individuato il fattore strutturale dei rapporti di potere nella rivoluzione digitale – i dati – e un possibile modello organizzativo in grado di regolare il contesto economico e sociale secondo gli obiettivi prefissati, occorre capire come aggregare il capitale politico e umano necessario per concretizzare questo progetto. In una network society[5] è evidente come questo aspetto coincida con la capacità di condividere azioni e programmi con più stakeholder possibili. La città deve pensarsi come sistema di relazioni aperto, oltre che ai cittadini, ai sistemi economici locali, agli eco-sistemi dell’innovazione, alle cooperative, ai movimenti sociali e alle organizzazioni politiche. Anche, e soprattutto, ad altre città. La capacità di attivare relazioni rappresenta la premessa necessaria per superare il modello attuale di smart city verso la proposta di Bria e Morozov, anche loro consapevoli che «le città non possono prosperare nell’isolamento» (p. 101). La città digitale, per ridistribuire vantaggi e profitti dell’innovazione tecnologica, deve quindi aprirsi ai cittadini in tutte le fasi del processo decisionale: deve saperli ascoltare, per rilevarne bisogni e aspettative; saperli coinvolgere attraverso processi partecipativi efficaci e trasparenti; promuoverne le iniziative, specialmente quelle orientate alla collaborazione e all’innovazione sociale. Per affrontare un compito di portata così vasta le città, oltre ad agire sul piano locale, devono allearsi tra loro non solo per condividere buone pratiche e soluzioni su temi specifici – innovazione, trasporto pubblico, sostenibilità ambientale – ma soprattutto per costruire un fronte comune di interessi – di dati, di cittadini, di relazioni – nei confronti di chi trae profitto dal modello neoliberista di smart city.
Viene naturale riportare queste riflessioni alla città di Barcellona, nella quale Bria è stata Commissario alla tecnologia e all’innovazione digitale (CTO) dal 2015 al 2019 curando l’agenda digitale della città. Tra i casi studio descritti nel libro vengono riportate diverse azioni bandiera descritte nel programma, allora in corso di attuazione[6]. La maggior parte di queste riguardano la gestione dei city data commons: DECODE, progetto europeo condiviso con la città di Amsterdam per sviluppare strumenti di gestione e condivisione dei dati utilizzabili dai cittadini; Sentilo, piattaforma aperta e interoperabile per la gestione di sensori e attuatori; Smart Citizen Kit, un kit di sensori basato su open standard che può essere acquistato da qualsiasi persona voglia creare proprie reti di sensori; Decidim, piattaforma partecipativa online del Comune basata su software libero. Alcuni risultati del programma, finanziato con 75 milioni di euro annui, sono già visibili come l’apertura di nuovi progetti di social innovation e il rifinanziamento della piattaforma Decidim, riconosciuta come uno dei più innovativi progetti open-source in Europa dalla Commissione Europea.
A più di due anni dalla pubblicazione, Ripensare la smart city può essere ancora considerato un testo di riferimento per la sua capacità di unire costruzione teorica e programmi concreti restituendo lo spirito di una delle esperienze più rilevanti in questo campo. Orientamenti politici, applicazioni digitali e politiche urbane si alimentano vicendevolmente anticipando la maggiore attenzione per le istanze di partecipazione e per una gestione non autoreferenziale delle innovazioni tecnologiche degli ultimi anni. Un’impostazione emersa anche nelle recenti interviste a Floridi e Morozov nel numero cartaceo 3/2020 “Piattaforme” di Pandora Rivista che, pur partendo da approcci differenti al tema, convergono sulla necessità di riconoscere la non-neutralità delle piattaforme, impostare una riflessione su come riformare l’ambiente-spazio digitale, pensare le piattaforme come infrastrutture, liberare il potenziale sociale delle tecnologie.
Infine, accanto ad un’aperta critica al concetto di smartness possiamo notare come gli autori mantengano la scala delle città come dimensione centrale dei processi di transizione digitale. Una considerazione fondata su riferimenti consolidati della sociologia urbana recente[7] ed evidenti rapporti numerici, dato che le città pur occupando il 2% della superficie terrestre rappresentano il 60% delle emissioni di CO2 e il 55% della popolazione globale. Un ulteriore spunto di riflessione potrebbe consistere nell’approfondire come e quante delle innovazioni prodotte in questi contesti possano entrare in dialogo con altre realtà – magari di dimensione inferiore e con una densità urbana differente – aprendo ad una più ampia diffusione di questo modo di intendere e praticare l’innovazione urbana[8].
[1]Cfr. A. Vanolo, Smartmentality. Smart city as a disciplinary strategy, «Urban Studies», 51, pp. 883-898, 2014.
[2] O. Söderström e A.-C. Mermet, When Airbnb Sits in Control Room: Platform Urbanism as Actually Existing Smart Urbanism in Reykjavik, «Frontiers in Sustainaible Cities», 2: 15. 2020; F. Capriotti e D. Liu, Emerging Platform Urbanism in China: Reconfiguration of data, citizenship and materialities, «Technology Forecasting and Social Change», 2019; F. Cugurullo, Frankenstein cities: (de)composed urbanism and experimental eco-cities, in J. Evans, A. Karvonen, e R. Raven, (a cura di), The Experimental City, Routledge, Londra 2016.
[3] C. McFarlan e O. Söderström, On alternative smart city: From a technology-intensive to a knowledge-intensive smart urbanism, «City» 21: pp. 312-328, 2017.
[4] http://thehackablecity.nl/
[5] M. Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2014.
[6] Ajuntament de Barcelona, Barcelona digital city. Putting technology at the service of people, 2015-2019.
[7] S. Sassen, Le citta globali, UTET, Torino 1997.
[8] Un’osservazione che trova riscontro in una recente intervista, a cura di Giovanni Comoglio, a Francesca Bria nella quale, oltre a rimarcare il ruolo dei network fra “città ribelli”, dichiara la necessità di definire un modello decentralizzato per attuare una trasformazione verde e digitale diffusa: Sovranità digitale e smart cities: cosa ci aspetta?, «Domus», 05 marzo 2021.