Social business e sviluppo sostenibile. Intervista a Giuseppe Torluccio
- 12 Giugno 2025

Social business e sviluppo sostenibile. Intervista a Giuseppe Torluccio

Scritto da Daniele Molteni

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Giuseppe Torluccio è Vicepresidente Fondazione Yunus Italia.


Il Piano Metropolitano per l’Economia Sociale propone un profondo ripensamento del concetto stesso di sviluppo, andando oltre la logica estrattiva e settoriale. Il modello di social business, così come delineato dalla Fondazione Yunus, sembra inserirsi perfettamente in questa traiettoria. Quali sono, secondo lei, i punti di contatto più significativi tra il modello Yunus e le sfide delineate dal PES bolognese?

Giuseppe Torluccio: Direi innanzitutto la dimensione dell’inclusività. Il Piano mette in evidenza la necessità di ricostruire quei tessuti sociali che, nel tempo, si sono progressivamente logorati. Da un punto di vista metodologico, spesso, nei rapporti e negli studi ci si limita a riportare dati medi – di reddito, occupazione, benessere – ma questi valori nascondono una crescente divaricazione all’interno delle città. È quindi fondamentale scomporre questi dati per comprenderne le reali implicazioni. La polarizzazione, infatti, non riguarda solo le disuguaglianze tra Paesi, ma si manifesta anche all’interno dei grandi centri urbani. Questa frammentazione ha effetti diretti sull’offerta di servizi e sulle strategie che città, comuni e aree metropolitane devono adottare per gestire le tensioni sociali che ne derivano. Da qui la necessità di introdurre un modello nuovo – o meglio, rinnovato – che nel nostro contesto può poggiare su una tradizione consolidata di cooperazione. Il movimento cooperativo, radicato da molti decenni in Emilia-Romagna, rappresenta un patrimonio importante su cui costruire. In questo senso, il modello del social business promosso dalla Fondazione Yunus, che punta a risolvere problemi sociali garantendo allo stesso tempo la sostenibilità economica, si integra con esperienze già attive nel nostro territorio, come i partenariati pubblico-privati orientati al bene comune.

Il punto di partenza dev’essere sempre l’elenco dei bisogni sociali. Da lì possiamo valutare come l’imprenditoria privata, con il supporto pubblico, possa contribuire a offrire risposte efficaci. L’area di Bologna è, in questo senso, un laboratorio sociale riconosciuto a livello nazionale e internazionale. Lo è per la sua storia, per la forza del mondo cooperativo, per la presenza dell’università e per una lunga tradizione di inclusione. Tuttavia, oggi emerge con urgenza la necessità di riposizionare alcune priorità, prima tra tutte l’abitare. Il tema casa non è isolato, ma ha ripercussioni sull’accesso all’istruzione, sulla mobilità sociale e sulla capacità della città di attrarre e trattenere persone. Si tratta di un mosaico complesso, dove il modello di social business può offrire un quadro di riferimento utile. In alcuni contesti internazionali si è parlato di “Social Business City” per definire quelle città ispirate a questo approccio. La città di Bologna non ha bisogno di importare modelli altisonanti, perché ha già prodotto esperienze simili, anche se non sempre sotto quella etichetta. Tuttavia, è essenziale riattivare questo tipo di approccio perché, negli ultimi anni, la crescita è stata intensa ma ha acuito le disuguaglianze. Oggi, ad esempio, il binomio casa-lavoro, fondamentale per vivere in città, è sempre più in crisi. Persone con contratti a tempo indeterminato sono costrette a lasciare la città perché non riescono più a sostenere i costi dell’abitare. Questo, a mio avviso, è uno dei primi problemi sociali da affrontare. Ed è proprio su questo terreno che una logica di social business, capace di coinvolgere anche il settore privato, può offrire risposte concrete.

 

 

Il Piano attribuisce grande importanza alla co-progettazione tra attori diversi: pubbliche amministrazioni, università, organizzazioni dell’economia sociale. Come Fondazione Yunus avete già partecipato o pensate di attivarvi in percorsi di co-progettazione sul territorio metropolitano bolognese? Quali ambiti ritenete prioritari per combattere povertà, disoccupazione e inquinamento?

Giuseppe Torluccio: La Fondazione Yunus agisce come un vero e proprio laboratorio, mettendo insieme prospettive diverse attorno a problemi concreti per comprenderne le dinamiche e individuare il ruolo che ciascun attore può svolgere. Non si tratta solo di creare spazi di confronto, ma di lavorare operativamente, come abbiamo fatto nel progetto “Next Welfare – Abitare a Bologna”, dedicato al tema dell’abitare. Il percorso di confronto con la città è durato quasi un anno e ha visto la partnership di realtà importanti per Bologna come ACLI, CISL, Confcooperative ed Emil Banca, i quali hanno accettato di definire insieme e in dialogo gli altri attori alcune proposte per l’abitare in città: dalle potenzialità della cooperazione d’abitazione al ruolo del sindacato e dell’associazionismo nel realizzare patti che promuovano il ruolo delle aree interne nelle politiche dell’abitare fino alla centralità del credito nell’attivare percorsi di efficientamento energetico degli immobili residenziali. Si è trattato di un percorso ampio di ascolto, che ha dato voce a progettualità innovative come quelle realizzate da aziende responsabili come Renner e Lavoropiù, ma anche a realtà leader del Terzo settore come l’Opera Salesiana di San Lazzaro di Savena. Coinvolgere soggetti diversi, ma capaci di collaborazione e visione comune – cooperative, banche, parti sociali, enti del terzo settore, istituzioni pubbliche e imprese private – è una sfida importante. La Fondazione Yunus, come altri soggetti, hanno un ruolo di tessuto connettivo nella prospettiva di promuovere nuove collaborazioni. Bologna, per fortuna, non è una città passiva: esiste un attivismo diffuso, una volontà di affrontare questi nodi. Tuttavia, costruire uno spazio comune di confronto richiede un lavoro attento di composizione tra visioni e interessi diversi. La co-progettazione e la co-programmazione devono basarsi proprio su questo equilibrio, evitando però il rischio di restare intrappolati in processi troppo lenti e autoreferenziali. C’è infatti un pericolo, che definirei “analisi-paralisi”: il rischio che si moltiplichino i tavoli di confronto, le riflessioni, le discussioni, mentre nel frattempo i problemi si aggravano. Ecco perché la co-progettazione e la co-programmazione devono essere gestite con attenzione ai tempi, all’efficienza e alla concretezza. Quando i tavoli di lavoro sono ben strutturati, riescono a sommare le virtù dei due mondi, pubblico e privato. Se mal gestiti, finiscono invece per sommare le rispettive disfunzionalità. Il privato, per sua natura, è orientato al risultato e spesso agisce con urgenza, a volte trascurando le ricadute sociali più ampie. Il pubblico, al contrario, tende a considerare con grande attenzione gli equilibri tra i vari soggetti coinvolti, ma rischia di posticipare le soluzioni, cadendo nella trappola per cui l’ideale diventa nemico del possibile.

Mettere insieme la rapidità operativa del privato e la tensione inclusiva del pubblico può rappresentare una svolta. In questo ambito, la Fondazione Yunus intende offrire il proprio contributo, portando nei processi di co-progettazione elementi tratti dall’esperienza internazionale e da progetti già sperimentati altrove. Ad esempio, nel nostro lavoro sull’abitare, che ho già citato, abbiamo raccolto pratiche che possono essere adattate al contesto bolognese. Inoltre, la rete Yunus in Europa è ampia, e può offrire spunti preziosi per replicare soluzioni già testate in altri territori. A Bologna è attivo anche lo Yunus Social Business Center, legato all’università, che si occupa proprio di tematiche sociali. Il centro principale per la formazione e la ricerca sull’impresa sociale è a Forlì, ma i campus sono diffusi, e molti docenti e ricercatori lavorano anche nel capoluogo. Questo è un altro elemento di forza, perché l’università può contribuire con competenze, esperienze e relazioni internazionali, maturate attraverso convegni, scambi di ricerca e didattica, nonché collaborazioni con colleghi stranieri. In sintesi, Bologna – insieme a città come Torino – è stata spesso apripista nel campo dell’innovazione sociale. Ma oggi è fondamentale unire le forze, perché senza una visione condivisa rischiamo di muoverci in modo disordinato. Come dicevo prima, l’ideale non può diventare un ostacolo al realizzabile: per evitare che l’analisi freni l’azione, serve concretezza, equilibrio e capacità di mettere insieme le energie migliori. E Bologna, con le sue risorse e il suo capitale umano, può davvero fare la differenza.

 

 

Uno degli assi trasversali del Piano è l’innovazione, intesa come innovazione sociale. In questo contesto, il social business può rappresentare un modello imprenditoriale in grado di generare valore economico e impatto sociale.

Giuseppe Torluccio: Sul tema dell’innovazione sociale ci sono già progetti attivi, anche all’interno dell’Università di Bologna. Uno di questi, realizzato insieme al Comune di Torino e ad altri centri nazionali, ha l’obiettivo di creare un Innovation Center con valenza nazionale. A livello europeo, infatti, si è scelto di non frammentare gli sforzi in una molteplicità di iniziative isolate, ma di individuare, per ciascun Paese, un polo centrale in grado di concentrare competenze e poi redistribuirle. Questo approccio punta a rendere più efficiente l’attuazione delle pratiche di innovazione sociale e Bologna è parte attiva di questo network, insieme al Comune di Torino e ad altri soggetti, e contribuisce così alla capacità di canalizzare anche i grandi piani infrastrutturali europei legati al sociale. Va però detto che su questo fronte si intravede una minaccia concreta: il rischio che il piano ReArm Europe comporti una riduzione dei fondi destinati al sociale. In effetti, su alcuni progetti europei si sta già discutendo di un possibile ribilanciamento delle risorse, con la prospettiva che fondi oggi destinati all’infrastrutturazione sociale vengano dirottati verso altri obiettivi. È un equilibrio delicato da mantenere, e non va sottovalutato. A Bologna, l’innovazione sociale è comunque una realtà viva: ci sono centri di ricerca, docenti e gruppi di lavoro impegnati su questi temi. Anche in questo caso, unire le forze tra Comune, attori privati, università e fondazioni può permettere – nel rispetto dei criteri di efficienza e sostenibilità già citati – di offrire risposte rapide alle sfide che stanno emergendo. Pensiamo, ad esempio, alle eccellenze tecnologiche del territorio, come il supercomputer Leonardo e in generale il Tecnopolo, che rappresentano asset strategici. Tuttavia, le crescenti criticità sociali rischiano di comprometterne questo ruolo. Se vogliamo trattenere i talenti e attrarne di nuovi, serve un’azione coordinata che impedisca una trasformazione regressiva della morfologia urbana. In altre parole, l’innovazione sociale è una necessità per mantenere attrattiva e inclusiva una città come Bologna.

 

Rispetto al cambiamento negli indirizzi politici europei, quanto si percepisce un passaggio da un’attenzione forte verso l’economia sociale a un progressivo disinvestimento da parte della Commissione?

Giuseppe Torluccio: Quello che percepiamo, seppure in modo ancora informale, è un’attenzione decrescente verso i temi dell’economia sociale. In Europa, alcuni Paesi stanno affrontando segnali di recessione in settori specifici. In questo contesto, il programma ReArm Europe mira a contrastare la crisi generando occupazione, anche in modo abbastanza diretto, attraverso la spinta agli investimenti nella difesa, ma questo pone una domanda cruciale: quella del riarmo è davvero l’unica risposta possibile alla crisi occupazionale? Guardando i dati, non sembra che l’Europa sia particolarmente indietro rispetto ad altri Paesi in termini di spesa militare. È evidente che, in molti Paesi, la disoccupazione incide anche sugli equilibri elettorali. In questo senso, gli investimenti nella difesa possono apparire più rapidi ed efficaci rispetto a quelli nel sociale, che spesso richiedono tempi più lunghi per produrre risultati visibili. È quindi possibile che in alcune realtà si sia fatta di necessità virtù, sfruttando la spinta al riarmo anche per ragioni economiche interne. Forse si dovrebbe pensare anche a investimenti alternativi, capaci comunque di generare occupazione, ad esempio nel settore sociale o nella transizione energetica. In fondo, anche la disoccupazione è un problema sociale, con ricadute sistemiche evidenti. L’Europa sembra tuttavia essere in una fase di rifocalizzazione, perché si stanno ridefinendo le priorità di investimento, e molti temono – con qualche evidenza nei documenti più recenti – che le risorse destinate all’innovazione e alle infrastrutture sociali possano subire tagli o essere riallocate. È significativo che, quando le istituzioni ribadiscono con forza che “i fondi sociali non verranno toccati”, spesso quel tipo di rassicurazione, più che tranquillizzare, suscita sospetti. Si iniziano a notare segnali di cambiamento e alcuni progetti vengono ridimensionati, rinominati o riformulati, ma non è ancora chiara l’entità complessiva del fenomeno.

Inoltre, un rischio che stiamo osservando è quello della crescente polarizzazione della ricchezza. A livello globale è vero che il tenore di vita medio è aumentato, ma si è anche indebolita la classe media. Questo ha un impatto concreto perché cambia il modo in cui le persone consumano, vivono, si relazionano. A Bologna, ad esempio, la dimensione media delle famiglie è di circa 1,2 persone per abitazione. Questo impone una riflessione profonda su che tipo di abitazioni servano oggi e, ancora di più, domani. Da qui nasce l’interesse per modelli innovativi come il co-housing, che mettono insieme più generazioni in formule abitative condivise, con vantaggi reciproci. Pensiamo, per esempio, agli anziani che vivono in case troppo grandi e troppo costose da mantenere, magari con stanze inutilizzate. Allo stesso tempo, ci sono giovani studenti o lavoratori che faticano a trovare un alloggio accessibile. L’incontro tra queste due esigenze può generare soluzioni win-win: l’anziano beneficia di compagnia, di supporto nella gestione quotidiana; il giovane trova un’abitazione dignitosa e un legame umano, che è anche una risorsa culturale e affettiva. Questo tipo di soluzione, che recupera una tradizione italiana profonda – quella del legame tra nonni e nipoti – può diventare un vero modello di innovazione sociale. Ma serve una struttura giuridica che tuteli entrambe le parti, serve progettazione, serve co-progettazione. Con l’invecchiamento della popolazione e il calo demografico già evidente – basta vedere quanti bambini di 5 anni abbiamo oggi per sapere quanti adolescenti avremo tra 10 anni – è chiaro che la pressione abitativa non può essere affrontata solo pensando agli studenti. Serve una visione più ampia, che tenga conto della migrazione ordinata tra generazioni e dell’evoluzione demografica urbana.

Il Piano riconosce l’importanza di attivare nuovi strumenti di finanziamento in grado di intercettare bisogni sociali, anche attraverso la finanza collaborativa. In che modo microcredito e microfinanza possono rappresentare oggi leve concrete contro le disuguaglianze economiche e territoriali? Quali strategie ritenete efficaci per collegare educazione finanziaria e progettualità sociale?

Giuseppe Torluccio: La finanza, di per sé, ha la capacità di strutturare contratti, con tutte le cautele e i vincoli del caso. Questo è particolarmente vero per la finanza tradizionale, che però si basa su logiche diverse da quelle che troviamo nel microcredito e nella microfinanza. Spesso si commette un errore concettuale, cioè si pensa al microcredito come a un semplice finanziamento di piccola entità. In realtà, il microcredito è un vero e proprio strumento di inclusione sociale: è come un “lievito” che aiuta a far crescere un progetto, soprattutto quando si parla di iniziative imprenditoriali. La vera difficoltà sta nel fatto che, trattandosi di operazioni piccole, con beneficiari spesso privi di garanzie, non si riesce a sostenere l’intero processo solo con gli interessi generati dal prestito. Se ci fossero garanzie, queste persone potrebbero rivolgersi direttamente a una banca: il microcredito nasce proprio per colmare quel vuoto. È un meccanismo che finanzia non solo un bisogno economico, ma un progetto di vita, un’idea che ha bisogno di sostegno per prendere forma.

La Fondazione Yunus, in questo senso, ha messo a punto dei percorsi di accompagnamento al microcredito e social business, veri e propri strumenti per aiutare le persone a strutturare la propria idea – sia essa sociale o imprenditoriale – fino a renderla finanziabile. In questo percorso entra in gioco anche il Mediocredito Centrale, che può offrire garanzie pubbliche fino all’80%, permettendo così alle banche di erogare i fondi con una significativa copertura del rischio. A mio parere, questi strumenti dovrebbero essere pienamente valorizzati nei processi di co-progettazione e co-programmazione. Sono occasioni per trasformare un welfare spesso “distributivo” – a volte indistinto – in un welfare abilitante, capace di attivare le persone e di accompagnarle verso l’autonomia. Non si può pensare di risolvere tutto con la finanza, ma il microcredito può diventare una leva forte per costruire inclusione e rafforzare la coesione sociale. C’è anche un effetto positivo in termini di spesa pubblica: invece di sostenere persone inattive per anni con interventi assistenziali, si può investire in percorsi che le aiutano a costruire un progetto, a sviluppare competenze e ad accedere a una fonte di finanziamento sostenibile. In questo senso il denaro diventa uno strumento di sviluppo sociale. Anche la finanza ESG più “classica” – con strumenti come i social bond o i green bond – può avere un ruolo importante. Sebbene questi operino su una scala diversa e siano meno capillari rispetto al microcredito comunitario, permettono comunque di finanziare progetti a forte impatto sociale, con un coinvolgimento più ampio e una visibilità pubblica dell’utilità generata. In entrambi i casi, però, serve un’attenzione forte agli obiettivi sociali, e un dialogo strutturato tra finanza, amministrazioni pubbliche e terzo settore.

La Città Metropolitana di Bologna si è posta l’obiettivo di diventare un punto di riferimento nazionale per l’economia sociale. Cosa rende Bologna un contesto fertile per la sperimentazione? Cosa manca ancora per farne un vero laboratorio nazionale di innovazione sociale e finanziaria e qual è il contesto nazionale attuale?

Giuseppe Torluccio: Il contesto nazionale è in movimento. Prima ho citato Torino, ma non è certo l’unico esempio virtuoso. Bologna rappresenta senz’altro un punto d’eccellenza su questi temi sia per la ricerca – ambito che conosco meglio – che per la capacità con cui la città e l’area metropolitana riescono a collaborare su percorsi di innovazione sociale. Esiste una forte integrazione tra istituzioni e territorio, ed è questa una delle chiavi che rende la città un contesto fertile per la sperimentazione. Forse, ciò che ancora manca è una maggiore capacità di comunicare e valorizzare ciò che si sta già facendo. Far conoscere le esperienze in corso può infatti innescare dinamiche imitative, stimolare altri territori a adottare modelli simili e a dare vita a una vera e propria “contaminazione positiva” tra amministrazioni pubbliche. Quando un progetto funziona, può diventare una best practice e contribuire a innalzare l’asticella a livello nazionale. Sappiamo che le amministrazioni pubbliche si muovono in un quadro complesso, appesantito – a volte necessariamente – da vincoli e controlli che definiamo “burocrazia”. Tuttavia, non va dimenticato che l’assenza totale di controlli, come si è visto in alcuni casi di abusi legati a bonus o incentivi, può avere conseguenze gravi. Il punto non è eliminare la burocrazia, ma renderla intelligente, efficace, proporzionata.

L’innovazione amministrativa è parte integrante dell’innovazione sociale. In questo contesto, la competizione tra enti pubblici può essere un elemento virtuoso. Spesso, infatti, le amministrazioni si mettono in gioco per dimostrare di saper fare bene, non solo per ottenere riconoscimenti, ma perché sanno che un buon risultato ha valore per tutta la collettività. E quando un’amministrazione pubblica riesce a fare qualcosa di significativo, crea uno standard, un modello a cui altri possono guardare. Anche il settore privato è sempre più attratto dall’economia sociale. In alcuni casi, per un senso di restituzione nei confronti della città: imprenditori che riconoscono quanto hanno ricevuto dal territorio e che decidono di dare qualcosa in cambio. In altri casi, si tratta di veri e propri investimenti sociali: penso, ad esempio, a esperienze come quelle di Parma, dove alcuni imprenditori hanno attivato progetti di impatto sociale cofinanziati con risorse private. Questi sono segnali importanti che mostrano che l’economia sociale non è solo una questione pubblica, ma un terreno su cui si può costruire una nuova alleanza tra istituzioni, imprese e cittadinanza. Bologna, da questo punto di vista, ha tutte le carte in regola per diventare un laboratorio nazionale di innovazione sociale e finanziaria. Serve coraggio, visione e la volontà di mettere in rete le esperienze, per farle crescere e moltiplicare.

Scritto da
Daniele Molteni

Editor di «Pandora Rivista», si è laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano e ha collaborato con diverse realtà giornalistiche, tra cui «Africa Rivista», «Lavialibera» e «Modern Insurgent». Si occupa di politica internazionale, questioni sociali e tecnologia. È membro del collettivo giornalistico “Fuorifuoco”.

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